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Come deve comportarsi l’azienda che nel 2020 vuole assumere nuovo personale? Quali sono le tipologie di contratto attualmente previste e come fare per non perdere le agevolazioni previste dalla legge?
In questo articolo parleremo di tutti gli aspetti legati all’attivazione dei rapporti di lavoro, cercando altresì di dare indicazioni su quelli che sono gli adempimenti amministrativi legati all’assunzione di manodopera.

Tipologie di contratti lavorativi

L’azienda che ad oggi intende avvalersi di nuove risorse lavorative può scegliere tra numerose forme contrattuali, ognuna con particolari caratteristiche. È importante precisare che per legge la forma comune di rapporto di lavoro è rappresentata dal contratto a tempo indeterminato. Al fine di incentivare le imprese a ricorrervi, la legge introduce limiti al ricorso alle altre tipologie contrattuali, ad esempio durata (è il caso del contratto a termine) o maggiori costi per l’azienda (sempre nel contratto a tempo determinato).
Detto questo, un dipendente può essere assunto con:

  • Contratto indeterminato (senza una scadenza contrattuale) e a tempo pieno (ad esempio 40 ore settimanali o il diverso tetto stabilito dal contratto collettivo applicato;
  • Contratto indeterminato a tempo parziale (soggetto ad un orario inferiore al tempo pieno);
  • Contratto a tempo determinato (soggetto a un termine di scadenza) a tempo pieno o parziale, nei cui confronti la legge prevede un tetto massimo di durata (24 mesi), limiti numerici (numero massimo di dipendenti a termine nella stessa azienda) e precise causali che giustificano il ricorso a tele tipologia di rapporto;
  • Contratto di lavoro intermittente o “job on call” (a tempo indeterminato o a termine) in cui il dipendente svolge l’attività lavorativa previa chiamata dell’azienda, obbligandosi contrattualmente o meno a rispondervi;
  • Apprendistato, contratto finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani, in cui l’azienda oltre a corrispondere la retribuzione si impegna a fornire al lavoratore le conoscenze necessarie per ottenere un titolo di studio, una professionalità ovvero esperienze funzionali al conseguimento di titoli di studio universitari o di alta formazione.

Al di fuori dell’assunzione diretta, l’azienda può stipulare un contratto di somministrazione con i soggetti appositamente autorizzati ad operare nell’intermediazione e fornitura di manodopera (cosiddette “agenzie per il lavoro”). In questo caso i dipendenti dell’agenzia vengono inviati in missione presso l’azienda che ne sfrutta le prestazioni.

Assunzione dipendenti: le agevolazioni

Nell’assunzione dei dipendenti un’attenzione particolare dev’essere rivolta alle agevolazioni previste dalla normativa in ordine all’attivazione dei rapporti di lavoro con alcune categorie svantaggiate.
Di norma le agevolazioni consistono in un abbattimento degli oneri contributivi a carico dell’azienda nei confronti di INPS e INAIL, al fine di incentivare i datori nell’assumere determinate tipologie di soggetti meritevoli di un sostegno pubblico. Vediamo le varie tipologie, distinguendo le ipotesi in base al motivo che giustifica il trattamento di favore.
In caso di assunzione di lavoratori in sostituzione di dipendenti assenti in congedo di maternità / paternità, per imprese fino a 20 dipendenti, è prevista una riduzione del 50% dei contributi INPS e INAIL a carico azienda.
Per quanto riguarda invece l’attivazione dei rapporti di lavoro con i giovani è previsto:

  • Assunzione di giovani fino a 34 anni (fino al 31 dicembre 2020) o 29 anni (dal 2021) a tempo indeterminato che non siano mai stati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi azienda (riduzione del 50% dei contributi INPS a carico azienda);
  • Assunzione a tempo indeterminato di giovani fino a 35 anni di età, genitori di figli minori e titolari di un contratto di lavoro “precario” (ad esempio contratto a termine o intermittente), è previsto un incentivo INPS pari a 5.000 euro per ogni assunzione, fino ad un massimo di 5 per la stessa impresa;
  • Assunzione di giovani entro 6 mesi dall’acquisizione del titolo di studio che abbiano svolto presso la stessa azienda periodi di alternanza scuola – lavoro o apprendistato, spetta l’esonero dal versamento dei contributi INPS a carico azienda nel limite di 3 mila euro annui;
  • Aziende che finanziano con erogazioni liberali pari ad almeno 10 mila euro interventi di ammodernamento di laboratori presso istituti tecnici professionali e, altresì, assumono a tempo indeterminato gli studenti dello stesso istituto a conclusione del ciclo di studi (dal 2021 esonero dal versamento dei contributi INPS e INAIL per 12 mesi dalla data di assunzione).

L’assunzione di soggetti disoccupati porta in dote all’azienda le seguenti agevolazioni:

  • Assunzione di ultracinquantenni disoccupati da oltre 12 mesi (riduzione del 50% dei contributi INPS e INAIL carico azienda per 12 mesi in caso di contratto a termine o 18 mesi se a tempo indeterminato);
  • Assunzione di donne di qualsiasi età prive di impiego da almeno 6 mesi e residenti in aree svantaggiate o occupate in professioni con accentuata disparità uomo – donna ovvero donne prive di impiego da almeno 24 mesi ovunque residenti (riduzione del 50% dei contributi INPS e INAIL carico azienda per 12 mesi in caso di contratto a termine o 18 mesi se a tempo indeterminato);
  • Assunzione a tempo pieno e indeterminato di lavoratori beneficiari di NASPI (l’incentivo INPS è pari al 20% dell’indennità di disoccupazione residua cui avrebbe avuto diritto l’interessato);
  • Assunzione di soggetti beneficiari del Reddito di cittadinanza a tempo pieno e indeterminato (esonero dal versamento dei contributi INPS per il periodo residuo di godimento del Reddito da 390 a 780 euro mensili);
  • Assunzione a tempo indeterminato o in apprendistato professionalizzante di giovani di età compresa tra i 16 e i 24 anni ovvero con almeno 25 anni e privi di impiego da almeno 6 mesi (esonero dal versamento dei contributi INPS carico azienda per 12 mesi a partire dalla data di assunzione).

Per quanto riguarda invece l’attivazione di rapporti con lavoratori in CIGS è previsto:

  • Datori di lavoro che assumono lavoratori in CIGS richiedenti l’assegno di ricollocazione (esonero pari al 50% dei contributi INPS carico azienda fino ad un massimo di 4.030 euro annui per 18 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato o 12 mesi se a termine);
  • Assunzione a tempo pieno e indeterminato di lavoratori in CIGS da almeno 3 mesi (riduzione dei contributi INPS carico azienda nella misura prevista per gli apprendisti).

Da ultimo, per chi assume nel Mezzogiorno lavoratori disoccupati ha diritto all’esonero dal versamento dei contributi INPS a suo carico, per 12 mesi dalla data di assunzione, ed entro il limite di 8.060 euro annui. La misura spetta per chi attiva rapporti a tempo indeterminato o in apprendistato professionalizzante, con sede di lavoro ubicata in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna o Sicilia.
Gli assunti devono avere un’età compresa tra i 16 e i 34 anni ovvero almeno 35 anni di età ma privi di impiego da almeno 6 mesi.

Le novità del Decreto Agosto

Il decreto-legge n. 104 del 14 agosto 2020 cosiddetto “Decreto Agosto” prevede un esonero dal versamento dei contributi INPS a carico azienda per chi assume lavoratori a tempo indeterminato fino al 31 dicembre 2020.
La misura è contenuta nel limite massimo di 8.060 euro su base annua, per ogni lavoratore interessato. Sono esclusi i contratti di apprendistato o lavoro domestico, nonché le assunzioni di soggetti in forza presso la stessa azienda nei 6 mesi precedenti. Luce verde invece per le trasformazioni a tempo indeterminato di contratti a termine.

Contratto scritto

Il contratto di lavoro (eccezion fatta per i rapporti a tempo determinato di durata non superiore a 12 giorni) dev’essere stipulato in forma scritta ai fini della prova.
In mancanza di un documento scritto è a carico dell’azienda dimostrare i contenuti del rapporto di lavoro. In presenza del contratto, al contrario, è il dipendente a dover fornire prova che le concrete modalità di svolgimento del lavoro sono diverse rispetto a quanto formalizzato nella lettera di assunzione.
Il contratto deve riportare per legge una serie di informazioni essenziali, mentre per altre si può rinviare a quanto previsto dal contratto collettivo applicato. In particolare, gli elementi obbligatori sono:

  • Identità delle parti;
  • Luogo di lavoro;
  • Data di inizio del rapporto di lavoro;
  • Durata del rapporto;
  • Mansione (ad esempio “addetto all’ufficio personale”), qualifica (operaio, impiegato, quadro o dirigente), livello di inquadramento (come il 1º livello del CCNL Commercio e terziario – Confcommercio).

Possono invece essere oggetto di semplice rinvio al CCNL:

  • Retribuzione;
  • Durata del periodo di ferie;
  • Orario di lavoro;
  • Durata del periodo di prova;
  • Termini di preavviso in caso di dimissioni o licenziamento.
  • Eventuali delle condizioni contrattuali nel corso del rapporto di lavoro, devono essere comunicate per iscritto al dipendente entro 30 giorni, fatta eccezione per le modifiche derivanti da disposizioni normative o dal contratto collettivo applicato.

Il datore di lavoro è tenuto a comunicare al Centro per l’impiego l’assunzione del dipendente entro le ore 24 del giorno che precede quello di instaurazione del rapporto, utilizzando il modello UNILAV.
La comunicazione assolve gli obblighi dichiarativi nei confronti di INPS, INAIL, ANPAL, Regioni e Ispettorato nazionale del lavoro.

Per trasmettere il modello UNILAV l’azienda deve preventivamente accreditarsi presso il portale della Regione in cui è ubicata la sede di lavoro assegnata al neoassunto.
Una volta registratosi il datore utilizzerà il portale telematico per inviare l’UNILAV. Ad esempio, nel caso della Regione Emilia – Romagna il sistema “Lavoro per Te” o “CliclavoroVeneto” per la Regione Veneto.

L’azienda che occupa lavoratori subordinati senza la preventiva comunicazione al Centro per l’impiego rischia di incorrere nella maxi-sanzione per lavoro nero:

  • Sanzione amministrativa da 1.800 a 10.800 euro per ciascun lavoratore irregolare in caso di impiego dello stesso fino a 30 giorni;
  • Sanzione da 3.600 a 21.600 per ciascun lavoratore “in nero” a fronte di un impiego compreso tra i 31 e i 60 giorni;
  • Sanzione da 7.200 a 43.200 euro per ciascun lavoratore irregolare impiegato per oltre 60 giorni.

Coperture assicurative

I lavoratori esposti al rischio di responsabilità civile verso terzi nello svolgimento delle proprie mansioni devono essere appositamente assicurati dal datore di lavoro all’atto dell’assunzione o successivamente, ad esempio in caso di cambio mansione / qualifica.

Il lavoro somministrato è un rapporto di lavoro in base al quale l'impresa utilizzatrice può richiedere la prestazione di uno più lavoratori ad agenzie autorizzate (somministratori) iscritte in un apposito Albo informatico tenuto presso l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL).

La somministrazione di lavoro è disciplinata dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Capo IV) e coinvolge tre soggetti (agenzia, lavoratore, impresa utilizzatrice), legati da due distinti rapporti contrattuali:

  • il contratto commerciale di somministrazione concluso tra utilizzatore e somministratore che ha natura commerciale e può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato;
  • il contratto di lavoro stipulato tra somministratore e lavoratore somministrato che può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.

La struttura contrattuale della somministrazione comporta una particolare ripartizione dei poteri e degli obblighi datoriali:

  • il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori è esercitato dall’utilizzatore, posto che il lavoratore svolge la propria attività nell’interesse e sotto la direzione ed il controllo dell’impresa utilizzatrice (art. 30);
  • il potere disciplinare è riservato al somministratore, al quale l’utilizzatore comunica gli elementi che formano oggetto della contestazione disciplinare (art. 35, comma 6);
  • in tema di rischi per la sicurezza e la salute, gli obblighi informativi e l’addestramento del lavoratore, in conformità al D.Lgs. n. 81/2008, sono a carico del somministratore, salva diversa previsione contrattuale che pone l’obbligo a carico dell’utilizzatore; l'utilizzatore osserva nei confronti dei lavoratori somministrati gli obblighi di prevenzione e protezione cui è tenuto, per legge e per contratto collettivo, nei confronti dei propri dipendenti (art. 35, comma 4);
  • la retribuzione viene versata direttamente dal somministratore e a questi rimborsata dall’utilizzatore, oltre agli oneri previdenziali (art. 33, comma 2);
  • gli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi e assistenziali sono a carico del somministratore (art. 37);
  • l’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo diritto di rivalsa verso il somministratore (art. 35, comma 2);
  • ricade sull’utilizzatore la responsabilità per danni arrecati a terzi dai lavoratori nello svolgimento della prestazione lavorativa (art. 35, comma 7).

Il soggetto utilizzatore può essere anche la Pubblica Amministrazione ma, in tale ipotesi, la somministrazione è consentita solo a tempo determinato (art. 36, D.lgs. n. 165/2001), essendo invece vietata la somministrazione a tempo indeterminato (art. 31, comma 4).

In ogni caso, il ricorso alla somministrazione del lavoro è vietato (art. 32):

  • per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
  • presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi di lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce la somministrazione;
  • presso unità produttive in cui è operante una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario con diritto al trattamento di integrazione salariale che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce la somministrazione;
  • nel caso di datori di lavoro che non hanno eseguito la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori in conformità al D.Lgs. n. 81/2008.

Il contratto di somministrazione esige la forma scritta, in assenza della quale il contratto è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne utilizza la prestazione lavorativa.
In virtù del principio di tutela del lavoratore da condotte discriminatorie, i lavoratori in somministrazione, a parità di mansioni svolte, hanno diritto a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore (art. 35, comma 1). Parimenti, ai lavoratori delle agenzie di somministrazione si applicano i diritti sindacali previsti dalla L. n. 300/1970 (art. 36).
I lavoratori dipendenti dal somministratore sono informati dall'utilizzatore dei posti vacanti presso quest'ultimo, affinché possano aspirare, al pari dei dipendenti del medesimo utilizzatore, a ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato. Tali informazioni possono essere fornite mediante un avviso generale affisso all'interno dei locali dell'utilizzatore presso il quale e sotto il cui controllo detti lavoratori prestano la loro opera (art. 31, comma 3).

Contratti di somministrazione a tempo indeterminato

Ai contratti di somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff leasing), conclusi tra il somministratore e il lavoratore, si applica la disciplina prevista per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato (art. 34, comma 1). La somministrazione a tempo indeterminato è consentita per qualsiasi ambito di attività e tipologia di lavoratori, ma nel limite del 20% rispetto al numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore alla data del primo gennaio dell’anno in cui è concluso il contratto (con arrotondamento del decimale all’unità superiore, qualora esso sia eguale o superiore a 0,5). Tale percentuale può essere oggetto di modifica da parte della contrattazione collettiva applicabile dall’utilizzatore. Peraltro, possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato (art. 31, comma 1). Con il Decreto Legge 14 agosto 2020, n. 104 (c.d. Decreto Agosto), convertito con modificazioni in L. 13 ottobre 2020, n. 126, è stato inoltre previsto che, fino al 31 dicembre 2021, nel caso in cui il contratto di somministrazione tra l'agenzia di somministrazione e l'utilizzatore sia a tempo determinato, l'utilizzatore può impiegare in missione, per periodi superiori a ventiquattro mesi anche non continuativi, il medesimo lavoratore somministrato, per il quale l'agenzia di somministrazione abbia comunicato all'utilizzatore l'assunzione a tempo indeterminato, senza che ciò determini in capo all'utilizzatore la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato (art. 31, comma 1).
Il lavoratore assunto a tempo indeterminato dall’agenzia di lavoro ha diritto a un’indennità di disponibilità per i periodi in cui non è in missione presso un soggetto utilizzatore. L’importo dell’indennità è determinato dalla contrattazione collettiva e non può comunque essere inferiore all’importo fissato con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (art. 34, comma 1).

Contratti di somministrazione a tempo determinato

Per il contratto di somministrazione a tempo determinato trovano, invece, applicazione le disposizioni dettate dal D.lgs. n. 81/2015 per i contratti a termine (Capo III), ad eccezione delle previsioni sui diritti di precedenza, sulle previsioni relative ai termini fra più rinnovi contrattuali e sulla percentuale massima di lavoratori a termine (art. 34, comma 2). La data di inizio e la durata prevedibile della missione - che può essere prorogata con il consenso del lavoratore per iscritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore - devono essere comunicate per iscritto al prestatore di lavoro da parte del somministratore all'atto della conclusione del contratto di lavoro ovvero all'atto dell'invio presso l'utilizzatore. Il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato o in somministrazione a tempo determinato non può eccedere complessivamente il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipulazione dei citati contratti, con arrotondamento del decimale all’unità superiore, qualora esso sia eguale o superiore a 0,5 (art. 31, comma 2, D.lgs. n. 81/2015, come riformato dal Decreto-legge n. 87/2018, convertito in Legge n. 96/2018). Tale limite può essere modificato dalla contrattazione collettiva dell’utilizzatore (non oltre il 20%) e non si applica nei seguenti casi: lavoratori in mobilità, disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati (DM 17 ottobre 2017). Il periodo di lavoro svolto da dipendenti assunti con contratto di somministrazione a tempo determinato va computato nel calcolo dei 24 mesi previsti come limite massimo di durata di un contratto a tempo determinato, oltre il quale il contratto si trasforma a tempo indeterminato.

Le Agenzie per il lavoro autorizzate alla somministrazione di lavoro sono tenute al versamento della contribuzione per il finanziamento del Fondo per la formazione e l'integrazione del reddito, da calcolare in misura percentuale sulla retribuzione corrisposta al personale in somministrazione (art. 12 del D.lgs. n. 276/2003). Per le assunzioni a tempo determinato è previsto, inoltre, un contributo aggiuntivo dell’1,4% incrementato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo (art. 3, comma 2, del Decreto-legge n. 87/2018).

Tutti i contratti di lavoro possono prevedere un periodo di prova in cui sia l’azienda sia il neoassunto verificano se il rapporto appena iniziato è davvero conveniente da ogni punto di vista. Può capitare, infatti, che il datore si sia fatto una certa idea del candidato che ha scelto ma che quest’ultimo non risponda alle aspettative. Viceversa, il nuovo dipendente può rendersi conto che il lavoro non fa per lui o che l’azienda non gli offre le prospettive desiderate. Ma come funziona il periodo di prova al lavoro? Il dipendente ha gli stessi diritti dei colleghi più anziani? Se ancora ti devi affacciare al mercato del lavoro per la prima volta e non hai vissuto questa esperienza, ti chiederai anche se, una volta firmato il contratto, puoi tirarti indietro nel caso ti accorgessi di avere sbagliato posto. O se il tuo «principale» può lasciarti a casa poche settimane dopo il tuo primo giorno in azienda. Il periodo di prova serve proprio a questo, a permettere ad entrambe le parti di ammettere l’errore e di correre ai ripari. Tuttavia, ci sono delle regole da rispettare. Non è, infatti, tutto concesso. Non si può trattare il dipendente in qualsiasi modo, così come il neoassunto non può pensare che durante la prova possa arrivare, andare via o lavorare quando vuole. Vediamo, a questo punto, come funziona il periodo di prova al lavoro.

Periodo di prova: che cos’è?

Il periodo di prova è il tempo previsto da qualsiasi tipologia di contratto di lavoro che consente alle parti di valutare la convenienza del rapporto. Scatta nel momento in cui avviene l’assunzione e sempre prima che abbia inizio tale periodo, pena la nullità della prova stessa e la sua conversione in rapporto definitivo.

Il patto deve essere sottoscritto dal datore e dal neo-dipendente. Se così non fosse, il dipendente potrebbe essere licenziato solo per giusta causa o per giustificato motivo.

Con il patto di prova scatta il contratto di lavoro vero e proprio. Significa che in quel lasso di tempo ci sono per le parti i diritti e i doveri previsti per un normale rapporto. C’è una sola eccezione: durante questo periodo, sia l’azienda sia il lavoratore possono recedere dal contratto senza bisogno del preavviso.

Periodo di prova: cosa deve dire il contratto?

Dicevamo che il patto di prova deve essere scritto e sottoscritto dalle parti. Ma che cosa si firma? Ci deve essere una clausola con l’indicazione delle mansioni affidate al lavoratore. Lo scopo è doppio. Da un lato, consente al dipendente di sapere su che cosa si deve impegnare per dimostrare le sue capacità. Dall’altro canto, permette al datore di lavoro di valutare le attitudini del neoassunto in base ad un lavoro ben definito.

Anche in questo caso, se manca questa clausola il patto di prova si ritiene nullo e viene convertito automaticamente in assunzione definitiva fin dal primo giorno.

Periodo di prova: quanto dura?

La legge prevede dei limiti di tempo per il periodo di prova, ovvero:

  • 6 mesi per i lavoratori in generale;
  • 3 mesi per gli impiegati che non hanno una funzione direttiva.

Tuttavia – e pur restando entro i limiti di legge – i contratti individuali possono prevedere una durata diversa a seconda del contratto collettivo nazionale. È possibile prevedere anche una proroga del periodo inizialmente fissato, se fosse necessario, ma solo se contemplato dalla contrattazione collettiva. Altrimenti, non è possibile stabilire una proroga sul contratto individuale in quanto si tratterebbe di una clausola svantaggiosa per il lavoratore.

Periodo di prova: quali diritti e quali doveri?

Trattandosi di un rapporto di lavoro vero e proprio, il periodo di prova prevede dei diritti e dei doveri per entrambe le parti. Innanzitutto, il patto deve essere consentito dall’azienda e rispettato dal lavoratore. Significa che, per garantire la sua efficacia, deve essere eseguito per la durata minima stabilita e garantita.

Il dipendente ha diritto alle stesse condizioni economiche e normative dei colleghi che hanno già superato il periodo di prova. Ha anche diritto alle ferie, a maturare il Tfr e l’anzianità ed a tutti gli altri trattamenti previsti per i lavoratori, ad eccezione del congedo matrimoniale, normalmente escluso dai contratti collettivi.

Periodo di prova: che succede alla scadenza?

Trascorso il periodo di prova, azienda e lavoratore sono liberi di recedere dal contratto oppure di confermarlo, a seconda dell’esperienza vissuta. Nel caso in cui si decida di continuare, non è necessario che il datore di lavoro lo comunichi al dipendente in modo esplicito: basta che quest’ultimo continui a lavorare, anche per poco tempo, dopo la scadenza della prova.

Periodo di prova: si può interrompere prima della scadenza?

Come accennato, di norma le parti possono recedere dal contratto in qualsiasi momento, anche durante il periodo di prova e non necessariamente alla scadenza del patto. Ciò non comporta obbligo di preavviso o penalità alcuna. A meno che sia stato previsto un indennizzo in caso di interruzione del rapporto durante la prova: in questo caso, si potrà recedere dal contratto solo alla scadenza.

Se il rapporto verrà interrotto al termine, il lavoratore avrà diritto ai ratei dei trattamenti maturati in modo proporzionale alla prestazione.

Periodo di prova: quando è illegittimo il recesso da parte del datore?

Viene considerato illegittimo il recesso dal contratto durante o dopo il periodo di prova in due casi:

  • quando la prova non è stata concretamente consentita;
  • quando il recesso è stato deciso per motivi illeciti (ad esempio per ragioni discriminatorie) o estranei al rapporto di lavoro (ad esempio, un’invalidità).

Nel primo caso, la prova non si considera effettivamente consentita quando:

  • non sono state attribuite al lavoratore delle mansioni precise;
  • l’azienda verifica le capacità del lavoratore nell’ambito di mansioni diverse da quelle a lui attribuite;
  • il lavoratore è in grado di dimostrare che il tempo per manifestare le sue attitudini è stato insufficiente.

Periodo di prova: quali condizioni per i lavoratori domestici?

Anche il contratto dei lavoratori domestici può prevedere un periodo di prova regolarmente retribuito. Il datore di lavoro lo può inserire nella lettera di assunzione. La durata è stabilita dal contratto nazionale e dalla legge e varia a seconda dell’inquadramento, ovvero:

  • 1 mese per chi ha la qualifica di impiegato;
  • 8 giorni lavorativi consecutivi per gli operai;
  • 30 giorni per i livelli D e D Super;
  • 8 giorni di lavoro effettivo per gli altri livelli contrattuali.

Come negli altri casi, il rapporto può essere risolto durante il periodo di prova senza obbligo di preavviso. Tuttavia, il lavoratore deve percepire in questo caso la retribuzione ed eventuali competenze accessorie. Il preavviso è previsto solo se il dipendente in prova proviene per la prima volta da un’altra regione e non ha trasferito la residenza. In questo caso, il datore che intende risolvere il rapporto senza giusta causa deve comunicarlo con almeno 3 giorni di anticipo, altrimenti deve pagare la retribuzione equivalente.

Se il lavoratore supera il periodo di prova, l’assunzione si intende automaticamente confermata.

Periodo di prova: come funziona nei rapporti lavoratore-agenzia?

Immagina, però, di entrare nel mondo del lavoro non attraverso un contatto diretto con un’azienda ma tramite un’agenzia di somministrazione. In questo caso, come funziona il periodo di prova?

Dipende dal tipo di contratto. Per quelli a tempo determinato, cioè per le assunzioni a termine, si può stabilire un periodo di prova per ogni singolo incarico, a meno che si tratti di più incarichi affidati entro 12 mesi nella stessa azienda e con identiche mansioni.

La durata è pari ad un giorno di effettivo lavoro per ogni 15 giorni di calendario a partire dall’inizio dell’incarico. Comunque, il periodo di prova non può essere inferiore ad un giorno e superiore a:

  • 11 giorni per incarichi fino a 6 mesi;
  • 13 giorni per incarichi superiori a 6 mesi.

Per quanto riguarda, invece, i contratti tramite agenzia a tempo indeterminato, la durata massima del periodo di prova è stabilita in questo modo:

  • per impiegati di contenuto professionale (dirigenti, quadri ed impiegati direttivi): 6 mesi di calendario;
  • per impiegati di concetto e operai specializzati, con autonomia operativa ma non decisionale e con conoscenza tecnico-pratica elevata: 50 giorni di lavoro effettivo;
  • per impiegato qualificati e d’ordine sotto la guida ed il controllo di altre persone: 30 giorni di lavoro effettivo.

Se il contratto a termine viene trasformato in tempo indeterminato non può essere previsto un periodo di prova.

Categorie protette: la guida esplicativa

All’interno del mondo del lavoro capita, sovente, di imbattersi nelle c.d. “categorie protette”.  Cosa sono queste categorie protette? Esse sono, in buona sostanza, delle categorie di soggetti che godono di una tutela particolare, volta a favorirne l’accesso nel mondo del lavoro.

A guardar bene la nostra Carta Costituzionale, l’art 38.co.3 stabilisce che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale” questo, associato ai doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all’art 2 Cost., ha posto nelle mani del legislatore da un lato il compito di dare concreta attuazione all’impegno etico sociale assunto dallo Stato nei confronti dei soggetti meno fortunati, dall’altro sottolineare  la centralità e l’importanza del Lavoro all’interno del nostro ordinamento.

1. Categorie protette: come nascono

Alla luce delle alte finalità sopra descritte, nacque con la Legge n. 482 del 1968 il c.d. collocamento obbligatorio, con esso i datori di lavoro per la prima volta furono obbligati ad assumere all’interno del proprio organico, un certo numero di persone che, a causa delle particolari condizioni psico-fisiche nelle quali si trovavano, difficilmente avrebbero trovato inserimento nel mercato del Lavoro.

Nel 1999 però il rigido impianto normativo basato su di un obbligo fine a se stesso, lascia il posto ad una disciplina volta alla valorizzazione delle capacità lavorative del diversamente abile; la Legge n.68 del 1999 infatti riforma il collocamento obbligatorio introducendo il c.d. Collocamento mirato, vale a dire come testualmente riportato nella norma: “quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserirle nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzione dei problemi connessi agli ambienti lavorativi”.

2. Cosa prevede la Legge n.68 del 1999

La legge in esame, prevede che il lavoratore con condizioni psico-fisiche particolari, sia collocato nell’occupazione a lui più idonea e dunque più proficua per sé e per l’azienda che lo assume. La norma detta quelle che sono le finalità che il legislatore intendeva raggiungere introducendola, all’art. 1 infatti si evidenzia: “la finalità è la promozione e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento”. La ratio etico-sociale risiede nell’inserimento e nell’integrazione delle persone disabili che pur presentando delle minorazioni, devono vedersi riconosciuto il loro spazio nell’economia del Lavoro.

Con il “jobs act” (dlgs.81/2015 e dlgs 105/2015) inoltre, si è intervenuti per semplificare ulteriormente questo inserimento; ne viene fuori un impianto organico che di seguito si esplica.

3. Soggetti beneficiari

I soggetti destinatari della tutela sono, secondo l’art 1 della L. n.68/99:

  • le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo, che presentino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% (dunque dal 46% in poi);
  • le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33% accertate dall’INAIL;
  • le persone non vedenti ( n.382/1970 e successive modifiche);
  • le persone sordomute(L. n.381/1970 e successive modifiche);
  • le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con menomazioni annesse alle tabelle di cui al testo unico in materia di pensioni di guerra d.p.r. n.915/78.

In un’ottica di tutela, misure peculiari sono previste anche per coloro i quali pur non avendo menomazioni psico-fisiche si trovano in particolari situazioni di svantaggio o disagio sociale, nell’art 18 L. n. 68/99 infatti è previsto che sia attribuita una quota di riserva (meglio specificata di seguito) sul numero dei dipendenti, a favore di:

  • orfani e coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio svolto nelle pubbliche amministrazioni, ovvero in conseguenza dell’aggravarsi dell’invalidità riportata per tali cause;
  • coniugi e figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro;
  • dei profughi italianirimpatriati il cui statusè riconosciuto ai sensi della legge 26 dicembre 1981, n. 763;
  • orfani e coniugi delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (n.407/1998).

4. L’accertamento dell’invalidità?

Coloro che presentano i requisiti previsti dalla Legge, disoccupati e che aspirino ad un’occupazione conforme alle proprie capacità lavorative, possono accedere al Collocamento mirato, sopra menzionato, iscrivendosi in appositi elenchi provinciali tenuti dai preposti Centri dell’impiego. Ai fini dell’iscrizione ovviamente, è necessario possedere una certificazione che attesti l’esistenza, in capo al soggetto, del requisito sanitario che sancisce l’appartenenza alle ridette categorie protette. Ogni menomazione va accertata tramite la certificazione rilasciata a seconda dei casi dall’INPS dall’INAIL o dalle stesse ASL,

Tuttavia i verbali delle invalidità (anche quelle derivanti da cecità e sordità) vengono rilasciate perlopiù da apposite commissioni sanitarie delle ASL territorialmente competenti.

Vediamo nello specifico la procedura da seguire:

  • il proprio medico curante, compilando telematicamente un modello, rilascia il c.d.certificato introduttivo attestante l’infermità riscontrata (il tutto è inviato all’Inps);

successivamente l’interessato tramite un codice assegnatoli, deve procedere alla richiesta di visita. Come? Nella prassi ci si rivolge ad un caaf o ad un patronato, ma basterebbe avere attitudine all’uso del pc per poterlo fare tramite il sito dell’INPS; nei successivi 30 giorni dalla richiesta, arriva la raccomandata a/r con la quale si viene chiamati a visita:

  • la visita è effettuata presso la ASL, dinanzi alla commissione dei medici asl appunto, e un medico dell’INPS. Ci si reca muniti di documento d’identità valido, il certificato medico e tutta la documentazione medica di cui si è in possesso;

effettuata la visita, la commissione sanitaria predispone un verbale, attestando la percentuale di invalidità e la c.d. “scheda funzionale”, in cui si annotano le abilità, le capacità lavorative, le competenze e le inclinazioni del soggetto, utili a valutare le mansioni più idonee per lui; l’INPS ricevuto il verbale dalla commissione asl ha l’onere di inviarlo al soggetto interessato.

5. Centro per l’impiego: iscrizione

Una volta in possesso del verbale della commissione medica attestante l’invalidità bisogna - come anticipato sopra – andare al Centro per l’impiego più vicino alla propria residenza e tramite l’apposito modulo, iscriversi alle categorie protette.

Il modulo deve attestare il possesso di determinati requisiti:

  • un’età anagrafica di 15 anni;
  • non essere vicini alla quiescenza (l’età pensionabile);
  • non essere occupati a lavoro;
  • essere disabile o invalido (attestato dal verbale della commissione medica come meglio specificato sopra);

Alla richiesta di iscrizione si allega la “scheda funzionale”, in copia autenticata. Completata l’iscrizione, il soggetto appartenente alle categorie protette viene inserito in un elenco; consultando quest’elenco, i Centri per l’impiego, valutano i soggetti, le loro capacità lavorative nonché le schede funzionali, e ne favoriscono l’entrata nel mondo del lavoro; tali categorie possono, stipulare con le aziende delle convenzioni che dettino le modalità e i tempi della loro assunzione ed entrata in azienda.

Dal canto loro le aziende così come le pubbliche amministrazioni devono in base a quanto disposto dalla legge assumere un certo numero di persone appartenenti alle categorie protette.

6. Obblighi per le aziende e quota di riserva

Il nuovo quadro normativo, se pur introducendo il collocamento mirato, ha mantenuto per i datori di lavoro, siano essi pubblici o privati, l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili.

La L. 68/99 all’art.3 infatti, parlando di “quota di riserva”, intende la quota numerica di soggetti appartenenti alle categorie protette che il datore di lavoro - sia esso pubblico o privato- è tenuto ad assumere, più precisamente sempre secondo il dettame dell’art.3, tale quota varia in relazione a quanti lavoratori sono occupati nell’azienda stessa (in particolare alla base di computo che vedremo nello specifico), perciò può così variare:

  • se l’azienda occupaoltre 50 dipendenti, la quota di riserva deve esserepari al 7% dei lavoratori occupati;
  • se si occupanoda 36 a 50 dipendenti, la quota è pari a2 lavoratori disabili;
  • da 15 a 35 dipendenti, la quota scende ad 1 lavoratore disabile.

Occorre sottolineare che, una particolare quota di riserva è destinata ai soggetti non disabili ma appartenenti alle categorie protette in virtù delle peculiari situazioni di svantaggio o disagio sociale, nello specifico la quota in esame sarà:

  • di 1 lavoratore se neoccupano da 51 a 150;
  • 1% se si occupano più di 150 dipendenti.

L’obbligo sorge ogni volta che si superano le soglie evidenziate e dunque   14, 35, 50 o 150 dipendenti,

7. Computo della quota di riserva

Per poter stabilire il numero di disabili da assumere obbligatoriamente è opportuno capire quali lavoratori si considerano nel calcolo dei soggetti occupati dall’azienda. La quota di riserva, dunque, viene calcolata in virtù di una base di computo (numero di lavoratori occupati nell’azienda).

In particolare, come stabilito dagli art. 4 e 5 della L.n.68/99 anche alla luce delle modifiche del “jobs act”, non si calcolano nella base di computo i lavoratori:

  • assunti a norma della stessa legge 68/1999;
  • a tempo determinato di durata non superiore a 6 mesi,
  • soci di cooperative di produzione e lavoro;
  • dirigenti;
  • quelli assunti con contratti di inserimento;
  • quelli assunti con contratto di somministrazione presso l'utilizzatore;
  • assunti per attività da svolgersi esclusivamente all'estero, per la durata di tale attività;
  • a domicilio;
  • che aderiscono al programma di emersione, ai sensi dell'articolo 1, comma 4-bis, della legge 18 ottobre 2001, n. 383;
  • apprendisti (DLgs. 81/2015, art. 47, comma 3);
  • socialmente utili assunti ai sensi del DLgs. 81/2000, art. 7;
  • del personale viaggiante e navigante nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre, personale di cantiere e addetti al trasporto nel settore edile, personale direttamente adibito alle aree operative di esercizio e regolarità dell’attività di trasporto nel settore degli impianti a fune;
  • divenuti inabili dopo l’assunzione, ovvero per infortuni sul lavoro o malattia professionale che subiscano una menomazione inferiore al 60%.

lavoratori part time si computano in proporzione all’orario effettivamente svolto.

8. Prospetto informativo, variazioni dell’organico aziendale

In caso di variazioni di organico che incidano sul computo della quota di riserva, si deve inviare il prospetto informativo. Questa è una comunicazione fatta dal datore di lavoro, che si riferisce alla situazione occupazionale della propria azienda cristallizzata al 31 dicembre dell'anno precedente, solo e soltanto se ci sono state variazioni dell’organico tali da comportare cambiamenti nella base di computo, rispetto a precedenti comunicazioni, e dunque ci sia da modificare la quota di riserva. In altre parole, se nell’anno il datore assume nuovi dipendenti e il suo organico supera le soglie descritte in precedenza, scatta l’obbligo di assumere il lavoratore disabile previsto dalla nuova quota di riserva.

Se, non vi sono cambiamenti, non vige nessun obbligo di comunicazione.

Come disposto dall’art 9 comma 6 L.n.68/99 e all’art 1 del D.M 2 novembre 2010, il prospetto informativo deve contenere:

  • informazioni relative al numero dei dipendenti occupati;
  • il numero e i dati dei dipendenti già occupati nella quota di riserva;
  • il numero di posti e le mansioni disponibili per lavoratori disabili.

9. Come inviare il prospetto informativo

A partire dal 2008 la legge prevede che il prospetto informativo deve essere inviato obbligatoriamente ed esclusivamente per via telematica andando sul sito www.cliclavoro.gov.it.  seguendo passo dopo passo le istruzioni.

10. Procedura di assunzione

Abbiamo dunque affermato che raggiunta la soglia dimensionale prevista dalla legge, il datore di lavoro deve assumere il soggetto, disoccupato, iscritto nelle graduatorie provinciali delle categorie protette. Per tale incombente, il datore di lavoro entro 60 giorni, a far data dal giorno successivo a quello in cui varia il suo organico superando la soglia dimensionale che fa scattare l’obbligo di assunzione, deve inoltrare la c.d. richiesta di avviamento.

Il datore ha facoltà di scegliere se effettuare una richiesta:

  • di avviamento nominativa, in buona sostanza può assumere la persona disabile che ritiene più idonea, una volta magari che l’ha preselezionata tra quelle iscritte negli elenchi e che presentavano determinate attitudini o interesse alle mansioni cercate, oppure può richiedere di avviare un disabile che egli stesso già ha individuato;
  • numerica, attingere cioè dall’ordine di graduatoria della lista tenuta presso i centri per l’impiego, contemperando le esigenze aziendali circa le mansioni da coprire e le qualifiche numericamente disponibili in azienda.

Nel caso di mancata assunzione entro il termine di 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo, spetta ai centri per l’impiego avviare i lavoratori, secondo l’ordine numerico di graduatoria, per la qualifica richiesta. I centri possono indire anche un avviso pubblico per la ricerca di persone da impiegare presso le aziende che non adempiono. La non tempestività nell’inoltrare la richiesta o la mancata assunzione entro il termine, comporta l’applicazione di sanzioni amministrative o la diffida dell’ispettorato del lavoro.

11. Incentivi per le aziende che assumono disabili

L’impianto normativo prima dell’intervento del “jobs act” prevedeva delle agevolazioni fiscali per le aziende che assumevano disabili, tali agevolazioni nella precedente formulazione dell’art.13 L. n.68/99 si configuravano in una “fiscalizzazione totale (cioè il trasferimento a carico dello Stato di particolari tributi) della durata massima di 8 anni dei contributi previdenziali e assistenziali quando si assumevano lavoratori appartenenti alle categorie protette disabili con ridotta capacità lavorativa superiore al 79% oppure lavoratori con handicap intellettivo e psichico con qualsiasi percentuale di invalidità; e ancora nella fiscalizzazione in misura del 50% per un periodo massimo 5 anni quando si assumevano  lavoratori con ridotta capacità e con invalidità tra il 67 e 79%; da ultimo nel rimborso forfettario delle spese necessarie e per la trasformazione l’adeguamento del posto di lavoro in favore dei disabili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50 %,”.

Oggi però, con le modifiche introdotte dal Decreto Legislativo n.151/2015, l’art. 13 della legge n. 68/99 disciplina gli incentivi di tipo economico fiscale per le assunzioni dal 1° gennaio 2016, che - stabiliti in base alla tipologia di contratto che si stipula con il disabile e alle peculiarità dello stesso- sostituiscono le agevolazioni precedentemente previste.

Nello specifico l’attuale art.13 dispone che alle aziende è riconosciuto un incentivo della durata massima di 36 mesi, pari al:

  • 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali per ogni lavoratore disabile assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o con minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con d.P.R.n. 915/1978;
  • 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per ogni lavoratore disabile assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che abbia una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67% e il 79% o con minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle annesse al D.P.R. n. 915/1978;

 della durata massima di 60 mesi, pari al:

  • 70% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per ogni lavoratore con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacita lavorativa superiore al 45% in caso di assunzione a tempo indeterminato;

oppure un incentivo per tutta la durata del contratto, pari al:

  • 70% della retribuzione mensile lorda imponibile quando il lavoratore assunto con contratto di lavoro a tempo determinato per un periodo non inferiore a 12 mesi abbia una disabilità psico-intellettiva superiore al 45%.

L’incentivo viene corrisposto mediante conguaglio, direttamente dall’INPS ai datori di lavoro nel momento del versamento dei contributi dei lavoratori coinvolti. Per sostenere le finalità appena delineate, è stato istituito presso il Ministero del Lavoro il c. d. “Fondo per il diritto al lavoro dei disabili” sovvenzionato dalle regioni e da altri emolumenti che dopo vedremo.

12. Convenzioni per l’integrazione delle categorie protette

Le categorie protette nonostante il quadro normativo sin qui delineato, potrebbero comunque materialmente incontrare difficoltà di inserimento nelle aziende, motivo per cui il legislatore ha previsto la possibilità di stipulare delle convenzioni.

Queste convenzioni stipulate tra centri per l’impiego e i datori di lavoro, fondamentalmente stabiliscono tempi e modalità delle assunzioni che il datore di lavoro si impegna ad effettuare (L. 68/1999, art. 11e successive modifiche).

 Le convenzioni devono:

  • descrivere minuziosamente le mansioni cui il lavoratore disabile è destinato e le modalità di esecuzione;
  • prevedere tirocini, finalizzati all'assunzione, per un periodo fino a un massimo di 12 mesi, rinnovabili una volta sola;
  • prevedere tutoraggio, sostegno e consulenza da parte di centri di orientamento professionale al fine di favorire l'adattamento del lavoro del disabile;
  • stabilire tempi, e modalità delle assunzioni;
  • proporre l’adozione di deroghe ai limiti di età e di durata dei contratti di formazione lavoro e apprendistato (art.11 comma 6);
  • prevedere verifiche periodiche sull'andamento del percorso formativo cui la convenzione d'integrazione lavorativa fa riferimento.

Le convenzioni possono essere stipulate anche con datori di lavoro che non soggiacciono all’obbligo di assunzione.

13. Chi è esonerato dall’obbligo delle assunzioni?

In deroga all’obbligo di assunzione delle categorie protette, la legge in parola, all’art.5 dispensa alcuni settori dall’adempiere a tale precetto.

In particolare, nel settore del trasporto pubblico aereo, marittimo e terrestre e nel trasporto delle funivie, l’esonero riguarda le assunzioni per:

  • il personale viaggiante, navigante;
  • il personale direttamente adibito alle aree operative di esercizio e regolarità dell’attività di trasporto;

nel settore edile, le aziende sono esonerate per l’assunzione:

  • del personale di cantiere e gli addetti al trasporto.

Sono parzialmente esonerate anche le aziende che, secondo il comma 3 dell’art.5, per le peculiarità o le speciali condizioni dell’attività svolta, non possono assumere l’intera quota di riserva prevista dalla legge. L’esonero avviene dopo espressa domanda al competente servizio provinciale del lavoro, esponendo i pericoli e punti critici che l’attività lavorativa comporterebbe per il disabile.

Otre ai casi di esonero, esistono casi in cui vige una sorta di mitigazione all’assunzione obbligatoria di soggetti facenti parte delle categorie protette, l’art.3 infatti, prevede rispettivamente:

  • al comma 3, che per i partiti politici, organizzazioni sindacali, e le organizzazioni senza scopo di lucro impegnate nel sociale, la quota di riserva dei disabili è rivolta esclusivamente allo svolgimento di funzioni tecnico – esecutive e amministrative.
  • al comma 4, che in polizia e nella protezione civile, il collocamento dei disabili è previsto nei soli servizi amministrativi;

Ad ogni modo, all’esonero cui sono autorizzate le aziende pubbliche o private, fa da contraltare un versamento, al già menzionato “Fondo per il diritto al lavoro dei disabili”, di un contributo esonerativo che ammonta a 30,64 euro per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore disabile non occupato.

14. Sospensione degli obblighi di assunzione

Qualora l’azienda attraversa un periodo di grave flessione economica, previa richiesta ai competenti uffici, può ottenere la sospensione dall’ obbligo di assunzione delle categorie protette.

Questo può accadere quando la grave flessione porti:

  • l’azienda a dichiarare la cassa integrazione;
  • o all’apertura del fallimento;
  • o ad una riorganizzazione, ristrutturazione o conversione.

15. Sanzioni per chi non adempie all’obbligo si assunzione

Per tutti coloro se pur onerati, non adempiono agli obblighi di assunzione sono previste sanzioni amministrative (L. 68/99, art. 15). Addirittura di tipo penale per le pubbliche amministrazioni inadempienti (ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241).

In ottemperanza all’adeguamento quinquennale delle sanzioni amministrative, alla luce dei Decreti Ministeriali 12 dicembre 2005 e 15 dicembre 2010 e ed il decreto legislativo n. 185/2016 gli importi risultano essere della seguente misura:

  • 635,11 euro se si invia tardivamente il prospetto informativo, più una maggiorazione di 30,76 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo;
  • 153,20 euro al giorno, cioè il contributo esonerativo (30,64 euro) maggiorato per cinque volte, per tutti i giorni in cui la quota di riserva è scoperta ed il datore di lavoro, per propria inerzia, non comunica la richiesta d’assunzione del disabile.

Ultimo aspetto da sottolineare è l’introduzione della procedura di diffida di cui all’art. 13 del decreto legislativo n. 124/2004 ad opera del decreto legislativo n. 185/2016 che modificando l’art. 15 della legge n. 68/99 al comma 4bis ne fa espresso richiamo.

Prima della sanzione dunque:

  • il datore di lavoro viene diffidato a regolarizzare le inosservanze.
  • ·nel caso in cui ottempera alla diffida, assumendo il personale necessario a coprire la quota di riserva, potrà pagare una sanzione ridotta, pari ad un/quarto di quella prevista.

I proventi delle sanzioni vanno a sovvenzionare il Fondo per il diritto al lavoro dei disabili.

16. Categorie protette nelle pubbliche amministrazioni

Anche le Pubbliche Amministrazioni assumono i disabili iscritti alle liste delle categorie protette, tali assunzioni possono avvenire:

  • Per quanto riguarda qualifiche che non richiedono elevati gradi di istruzione, si può prescindere dalla selezione fatta tramite concorso e procedere con la classica richiesta di avviamento per chiamata numerica in base alla graduatoria delle liste tenute presso i centri per l’impiego, previa verifica di compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere.
  • per qualifiche superiori, vengono indetti concorsi, che garantiscano effettive condizioni di parità tra i disabili e i soggetti normodotati.

Particolare invece, è l’assunzione per il coniuge superstite e per i figli del personale delle Forze pubblica che sia deceduto per causa di lavoro (art 18 comma 2 L.n. 68/99), nonché delle vittime del terrorismo che possono essere assunti nella quota di riserva tramite chiamata diretta nominativa.

17. Categorie protette e concorsi

Quando viene indetto un concorso per l'accesso al pubblico impiego, all’interno di ogni bando dovrà essere garantita la partecipazione delle categorie protette attraverso la previsione di specifiche modalità di svolgimento delle prove d’esame in maniera tale da permettere a coloro che appartengono a queste categorie, di concorrere in condizioni di effettiva parità con gli altri (così come previsto anche dalla L.104/92) .Spesso proprio per favorire queste categorie, le P.A. indicono concorsi riservati a persone con disabilità, i relativi bandi si trovano, come di consueto all’interno della Gazzetta Ufficiale nella sezione “Concorsi ed esami”.

Per partecipare devono essere rispettati i requisiti specificamente richiesti dal bando con l’onere per il soggetto appartenente alla categoria protetta di allegate alla domanda di partecipazione, la sua appartenenza alla categoria protetta e la percentuale di invalidità.

18. Orari di lavoro e trattamento economico normativo del rapporto

Ai lavoratori assunti nella quota di riserva viene praticato il trattamento economico e normativo disciplinato dalla legge e dai contratti collettivi di riferimento, valevole per tutti i lavoratori, salvo il diritto del lavoratore di richiedere la compatibilità delle sue condizioni con le mansioni a lui affidate.

L’orario di lavoro invece, può subire una riduzione grazie alla c.d. Legge 104 (L.n.104/92), stiamo parlando di una serie di tutele e agevolazioni di cui possono godere (a domanda) i lavoratori disabili garantiti da tale legge.

Nello specifico essi possono fruire di permessi retribuiti derivanti dalla disabilità propria o di un prossimo congiunto in tale misura alternativa:

  • 3 giorni mensili di permesso;

oppure

  • due ore al giorno per un orario giornaliero di sei ore;
  • un’ora al giorno per un orario giornaliero inferiore alle sei ore.

E ‘previsto anche il trasferimento in altra sede lavorativa (ove possibile) per favorire il disabile negli spostamenti dalla sua dimora al luogo di lavoro. 

L’ordinamento giuridico nostrano sancisce a livello costituzionale l’importanza dell’uomo come individuo sociale. L’art. 3 della Carta fondamentale recita, infatti: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…".

Questo dettame Costituzionale deve tradursi in norme statali che, avendo l’alto fine di realizzare quell’uguaglianza, aiutino gli individui portatori di minorazioni garantendogli - ad ogni effetto di legge - parità di diritti e dignità sociale.

1. Che cos’è la Legge 104?

Con il temine “Legge 104” si intende la legge quadro risalente al febbraio del 1992 emanata dal legislatore per dettare, all’interno dell’ordinamento, i principi generali inerenti “diritti, integrazione sociale e assistenza della persona handicappata” (art.2 L.n.104/1992).

La norma rappresenta la risposta legislativa per assicurare adeguato sostegno, sia all’individuo disabile, sia ai familiari che in molti casi sono chiamati a prendersi cura di loro.

2. Le finalità delle Legge 104

Le precipue finalità della legge 104 sono indicate a chiare lettere nell’art. 1 della normativa, e sono orientate:

  • al garantire il rispetto della dignità umana e dei diritti della persona disabile all’interno di tutti gli ambiti della vita sociale, dunque in famiglia, scuola, lavoro e società;
  • prevenire e rimuovere tutte quelle circostanze che minano l’autonomia del disabile e la realizzazione piena dei suoi diritti civili – politici - patrimoniali;
  • perseguire, dove possibile, il pieno recupero della persona mediante l’ausilio di servizi e prestazioni, anche di natura giuridico-economica;
  • predisporre interventi per contrastare e debellare l’emarginazione del disabile.

L’integrazione promossa dalla normativa riguarda in maniera trasversale ogni ambito della società, dalla famiglia al mondo del lavoro, dai trasporti alle infrastrutture e ancora dall’ambito sanitario a quello sportivo, passando per il fondamentale ambito dell’istruzione e della ricerca scolastica e universitaria.

3. Chi può usufruire della Legge 104?

La norma è generalmente indirizzata alle persone disabili; il legislatore ha cristallizzato nell’art.3 cosa si intende per persona handicappata“colui o colei che presenta minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o emarginazione”.

La disciplina voluta dal legislatore però, nel prevedere una serie di misure e agevolazioni, tiene anche in debita considerazione altre persone oltre al disabile: difatti se vi è un disabile grave, genitori, coniuge nonché parte dell’unione civile e parenti (entro determinati gradi), divengono anch’essi fruitori delle misure previste della legge 104.

4. I requisiti per accedere alla Legge 104

Per poter godere delle misure di sostegno che la normativa prevede, il requisito cardine è rappresentato dal riconoscimento di un handicap così come inquadrato al comma 1 dell’art. 3 della Legge, dunque, non esclusivamente come patologia in sé, ma contestualizzato alle oggettive difficoltà socio-lavorative e relazionali cui dà vita; in virtù della varietà delle misure previste poi, ogni agevolazione può richiedere ulteriori condizioni specifiche oltre al riconoscimento dell’handicap. Menzione a parte merita invece la c.d. “situazione di gravità” prevista dal comma 3 dell’art.3, il quale recita: qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”; gravità che dunque diventa requisito dirimente di alcune delle agevolazioni previste.

La legge, infine, si applica a tutti coloro che sono residenti domiciliati o stabilmente dimorati in Italia, anche se stranieri o apolidi.

5. Legge 104: come funziona?

Le tutele e i diritti previsti dalla Legge 104 passano attraverso l’accertamento delle minorazioni, cui si faceva riferimento nei paragrafi precedenti, accertamenti effettuati dalle apposite commissioni mediche istituite presso le unità sanitarie locali ASL integrate dall’operatore sociale e dall’esperto medico in base al caso da esaminare.

L’iter procedurale prevede in primo luogo che il proprio medico di base (c.d. medico curante o di famiglia) predisponga il certificato medico introduttivo:

  • a tal proposito compila un predisposto modello (cod.SS3) nel quale certifica la disabilità del soggetto per il quale si fa domanda, elencando tutte le patologie che lo riguardano.
  • invia telematicamente all’INPS il documento utilizzando l’apposito portale del sito inps.it

Successivamente l’interessato deve procedere ad inoltrare domanda per “accertamento dell’handicap” quale requisito sanitario che dà diritto poi alle agevolazioni della Legge 104; la presentazione deve avvenire sempre in maniera telematica:

  • mediante l’apposito portale dell’INPS denominato “Invio OnLine di Domande di Prestazioni a Sostegno del Reddito”(questa modalità è direttamente fruibile dal cittadino che però sovente si rivolge ad enti di patronato abilitati a sbrigare le medesime pratiche).
  • Contact Center– chiamando da rete fissa al numero803164 gratuito riservato all’utenza e darete mobile al numero 06164164

Una volta presentata la domanda, nei successivi 30 giorni – 15 per patologie oncologiche- il richiedente sarà convocato a visita mediante raccomandata a/r; la visita si svolgerà dinanzi alla ridetta commissione medica della ASL, qui ci si recherà muniti di documento d’identità valido, del certificato del medico curante e di tutta la certificazione medica in proprio possesso.

6. La visita dinanzi alla Commissione medica

All’esito della visita ed esaminate le carte, la Commissione è chiamata a decretare o meno lo stato di disabilità; il riconoscimento di tale stato può essere:

  • definitivo, qualora il quadro patologico sia irreversibile o addirittura ingravescente e non vi saranno future visite di revisione
  • tale da poter essere sottoposto a revisione (con nuova e successiva chiamata a visita) ad una certa data.

Terminata la vista viene redatto il verbale con cui la commissione si pronuncia circa la domanda, tale verbale verrà inviato dall’INPS al richiedente e in caso di diniego del requisito sanitario questi potrà presentare ricorso nelle opportune sedi giudiziarie.

La disciplina contenuta nel D.l. n.324/1993 al comma 3- bis stabilisce: “La commissione medica di cui all'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, deve pronunciarsi, in ordine agli accertamenti di propria competenza di cui al medesimo articolo 4, entro novanta giorni dalla data di presentazione della domanda”, se ne deduce che anche il certificato inviato dal medico curante perde efficacia dopo questo lasso di tempo.

Se la commissione non si pronuncia entro i primi 45 giorni dalla presentazione della domanda, nei casi in cui si chieda il riconoscimento dell’handicap in situazione di gravità - al solo fine di ottenere le agevolazioni ed i permessi (lavorativi) previsti dagli art. 21 e 33 della legge 104 e art.42 del D.lgs. n.  151/2001 -  gli accertamenti “sono effettuati, in via provvisoria…da un medico specialista nella patologia denunciata ovvero da medici specialisti nelle patologie denunciate, in servizio presso l’unità sanitaria locale da cui è assistito l'interessato…L'accertamento provvisorio di cui al comma 2 produce effetto fino all’emissione dell’accertamento definitivo da parte della commissione” (art. 2 comma 2 e 3 del D.l. n.324/1993).

7. Le agevolazioni previste dalla Legge 104

L’integrazione quale fulcro della legge 104 passa attraverso vari tipi di agevolazioni riguardanti i disabili; la normativa quadro dettata dal legislatore individua le linee guida:

  • per l’integrazione scolasticaa garanzia di un’efficiente educazione e istruzione delle persone disabili (art.12-17)
  • per favorire il loro inserimento nel mondo del lavoro(art. 18-22)
  • per favorire la rimozione delle barriere architettoniche, per la mobilitazione e la comunicazione (art.23-29)
  • per facilitare l’assistenza al disabile (art 33)

I destinatari della Legge 104 possono usufruire di detrazioni fiscali del 19% e l’applicazione dell’iva agevolata al 4% per l’acquisto di supporti tecnici e informatici ad esempio: modem, computer, telefonia in genere, apparecchiature di domotica domestica, mezzi necessari a facilitare la vita del disabile. Specifiche agevolazioni esistono anche per le spese mediche e l’acquisto di veicoli.

Per beneficiare delle agevolazioni, è necessario verificare sempre la certificazione di disabilità rilasciata dalla commissione medica ASL competente. Può usufruirne il disabile in prima persona, ma anche il familiare cui quest’ultimo sia fiscalmente a carico.

8. Quali sono i permessi previsti dalla Legge 104?

Menzione speciale tra le agevolazioni deve farsi per i “permessi retribuiti”; previsti dall’art.33 al comma 3 della Legge 104 essi consistono nel permesso, retribuito sulla base della retribuzione effettivamente corrisposta e coperto anche ai fini pensionistici da contribuzione figurativa, di astenersi da lavoro.

L’ottenimento di questa agevolazione è tuttavia riconosciuta solo a determinati soggetti ed in presenza di alcuni requisiti, difatti possono fruire dei permessi secondo quanto stabilito all’art.33 comma 3:

  • in prima persona coloro che disabili siano affetti da handicap in situazione di gravità

per assistere un portatore di handicap:

  • i familiari del disabile in situazione di gravità, dunque, il coniuge o i genitori biologici o adottivi
  • i parenti o affini entro il secondo gradodella persona disabile in situazione di gravità; eccezionalmente estesaal terzo grado laddove i genitori o il coniuge della persona disabile in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti (ovvero assenti fisicamente o giuridicamente).

In merito alle persone che assistono il disabile, una grande conquista sociale è stata possibile dopo l’entrata in vigore della legge Cirinnà (L.n.76/2016); mediante anche la pronuncia delle Corte costituzionale con sentenza n.213/2016 si è concretizzata la possibilità di equiparare la figura del convivente di fatto e della parte dell’unione civile alle più conosciute figure familiari o parentali del disabile (coniuge, parenti, affini).

L’art.33 offre anche contezza della misura dei permessi, stando alla norma ed aiutati dai chiarimenti che l’INPS fornisce sul proprio sito, si evince infatti che il lavoratore disabile in situazione di gravità, ha facoltà di ottenere e beneficiare alternativamente di:

  • 2 ore di permesso giornaliero
  • 3 giorni di permesso mensile, frazionabili anche in ore

I genitori biologici o adottivi/affidatari, di disabili in situazione di gravità hanno facoltà di ottenere permessi in relazione all’età del figlio, se questi ha meno di tre anni, possono - sempre in maniera alternativa- beneficiare di:

  • 2 ore di permesso giornaliero
  • 3 giorni di permesso mensile, frazionabili anche in ore
  • prolungamento del congedo parentale;

se invece l’età del figlio disabili in situazione di gravità è compresa tra i 3 e i 12 anni o in caso di adozione entro i dodici anni dall’ingresso in famiglia del minore:

  • 3 giorni di permesso mensile, frazionabili anche in ore
  • prolungamento del congedo parentale.

il coniuge (o parte dell’unione civile o convivente di fatto), i parenti e affini di persone disabili in situazione di gravità ed i genitori biologici o adottivi/affidatari di disabili in situazione di gravità oltre i dodici anni possono fruire di:

  • 3 giorni di permesso mensile, frazionabili anche in ore. 

 

9. Precisazioni sui permessi

Alcune precisazioni circa i permessi retribuiti sono doverose, innanzitutto in merito alle due ore di permesso deve considerarsi come base di riferimento l’orario lavorativo giornaliero superiore o pari a 6 ore, in caso di giornata lavorativa con meno di 6 ore il permesso si riduce ad un'ora.

Quando si usufruisce del prolungamento del congedo parentale, vi è il diritto a un'indennità pari al 30% della retribuzione per l’intero periodo di congedo. 

Ancora, l’INPS con il messaggio n. 16866/2007 chiarendo e richiamando un suo precedente messaggio -il n.15995/2007pone l’attenzione su di un limite mensile, in altri termini un tetto orario massimo da non superare, qualora i 3 giorni di permesso vengano utilizzati in maniera frazionata. Tale limite spiega l’istituto, è calcolabile “dividendo l’orario normale di lavoro settimanale per il numero dei giorni lavorativi settimanali, il tutto moltiplicato per 3; il risultato equivarrà alle ore mensili fruibili. Dunque, considerando per ipotesi una settimana lavorativa di 40 ore spalmate su 5 giorni, un lavoratore, potrà beneficiare al massimo, mensilmente, di 24 ore di permesso; a titolo di esempio numericamente l’operazione sarebbe:

  • (40/5) x 3 = 24 .

Altro aspetto importante: “Durante la fruizione dei permessi retribuiti si ha diritto anche all'assegno per il nucleo familiare” (circ. INPS n.199/1997)                                                                                                         

10. I requisiti per ottenere i permessi

A supporto della domanda per ottenere i permessi retribuiti e per il buon esito della stessa, c’è bisogno di alcuni requisiti fondamentali. Nello specifico, sia che il disabile chieda per sé stesso i permessi sia che gli stessi siano chiesti da uno dei soggetti che lo assiste (previsti dalla normativa), sarà necessario:

  • lo stato di handicap in situazione di gravità ex art.3 comma 3 della L. 104/92 certificato dalla commissione medica ASL competente
  • essere lavoratori dipendenti (ne rimangono esclusi, quelli parasubordinati e autonomi, gli addetti ai lavori domestici ed i lavoratori agricoli solo se occupati a giornata)
  • che il disabile non sia ricoverato a tempo pieno (h24) in una struttura sanitaria.

Nella circolare n. 32/2012 l’INPS precisa che nelle ipotesi in cui il disabile in situazione di gravità debba recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate; quando è in stato vegetativo o in fin di vita; o ancora quando gli stessi medici della struttura ne certifichino la necessità, i permessi retribuiti per assistere la persona disabile ricoverata possono essere eccezionalmente richiesti.

11. Legge 104: solo una persona può accedere ai permessi per il familiare?

La risposta è affermativa, la norma prevede che il diritto a fruire dei permessi non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona disabile in situazione di gravità

Esiste un’eccezione per le persone con figlio disabile, in tale circostanza i permessi sono riconosciuti ad entrambi i genitori, a condizione che siano entrambi lavoratori dipendenti e che ne fruiscano alternativamente.

12. Permessi per assistere più soggetti disabili

Nell’ipotesi in cui invece il lavoratore si ritrova a dover assistere allo stesso tempo più soggetti disabili in situazione di gravità,  può fruire di più permessi per assisterli, esclusivamente “a condizione che il familiare da assistere sia il coniuge o la parte dell’unione civile o convivente di fatto o un parente o un affine entro il primo grado o entro il secondo grado, qualora i genitori o il coniuge o la parte dell’unione civile o il convivente di fatto della persona disabile in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni o siano affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti” (art. 33 comma 3 L.104/92 - circ. INPS n. 32/2012).

13. Come richiedere i permessi e i benefici previsti dalla Legge 104? Che documentazione presentare?

Al pari della domanda per ottenere i benefici della legge 104, anche per ottenere i permessi bisogna presentare telematicamente la domanda all’INPS, il tutto va fatto compilando in ogni suo campo il modello cod. SR08, per eseguire correttamente la procedura si può:

  • accedere autonomamente tramite SPID o PIN alla piattaforma internet dell’Istituto cliccando sul portale servizio di “Invio OnLine di Domande di Prestazioni a Sostegno del Reddito
  • farsi coadiuvare da intermediari abilitati come i Patronati
  • contattando telefonicamente il Contact Center Multicanaleal numero verde 803164 chiamando da telefono fisso e il numero 06164164 da cellulare.

Per corredare esaustivamente la domanda bisogna presentare la certificazione del medico di base, quella che attesta la disabilità in situazione di gravità rilasciata dalla commissione ASL competente o quella provvisoria ove necessario.

Sul sito dell’INPS è poi precisato che:

  • i lavoratori agricoli a tempo determinato occupato con contratto stagionale, oltre a presentare all’Inps il modello di domanda, deve inoltrare anche il MOD. HAND AGR per ciascuno dei mesi interessati.
  • Se il disabile è un figlio adottato, devono essere allegati tutti i documenti comprovanti ladata ingresso in famiglia - data di adozione/affidamento - data di ingresso in Italia - data del provvedimento - tribunale competente - numero provvedimento.

Prassi vuole che una copia della domanda per ottenere i permessi retribuiti venga inviata anche al datore di lavoro per semplice conoscenza.

14. Il preavviso da dare al datore di lavoro

Il legislatore nel corpo della Legge 104, non si è premurato di affrontare la questione del preavviso che il lavoratore dovrà fornire al proprio datore nel momento in cui si asterrà dalla sua attività lavorativa in forza dei permessi retribuiti. A tal proposito però a seguito di apposito interpello avanzato dall’associazione Nazionale di Cooperative di Consumatori, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha affrontato la questione richiamando l’esigenza di contemperare “il buon andamento dell’attività imprenditoriale con il diritto all’assistenza da parte del disabile”.

Nell’interpello n. 31/2010 del 6 luglio 2010 si legge infatti:

“Si ritiene possibile, da parte del datore di lavoro, richiedere una programmazione dei permessi, verosimilmente a cadenza settimanale o mensile, laddove: - il lavoratore che assiste il disabile sia in grado di individuare preventivamente le giornate di assenza; - purché tale programmazione non comprometta il diritto del disabile ad una effettiva assistenza; …la predeterminazione di tali criteri dovrebbe altresì garantire il mantenimento della capacità produttiva dell’impresa e senza comprometterne, come detto, il buon andamento…fermo restando che improcrastinabili esigenze di assistenza e quindi di tutela del disabile, non possono che prevalere sulle esigenze imprenditoriali”

15. Il congedo straordinario di cui alla Legge 104

Per comprendere cosa si intende per “Congedo straordinario” dobbiamo necessariamente partire dalla sua definizione cristallizzata nell’art. art. 4 comma 2 L. n. 53/2000: “I dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari… un periodo di congedocontinuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Il congedo non è computato nell'anzianità di servizio né ai fini previdenziali; il lavoratore può procedere al riscatto, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria.”

Trattasi evidentemente della possibilità di astenersi dall’attività lavorativa, possibilità che in presenza di un disabile in situazione di gravità ai sensi della legge 104/92, l’art 42 comma 5 del D.lgs. 151/2001 modificato ad opera del d.l. n. 119/2011 estende in ordine di priorità a:

  • al coniuge convivente della persona disabile in situazione di gravità
  • ai genitori biologici o adottivi /affidatari, della persona disabile in situazione di gravità
  • al figlio o ai fratelli /sorelle o ai parenti/affini entro il terzo grado conviventi della persona disabile in situazione di gravità (sito inps- circolari n.32/2012 e n. 159/2013)

Il fine è quello di garantire assistenza alla persona portatrice di handicap, la domanda per ottenere il congedo straordinario - corredata dal certificato della commissione medica attestante la disabilità grave- va presentata all’INPS compilando il modello cod.SR10 inviandola sempre telematicamente tramite i consueti canali o con l’aiuto di un patronato quale intermediario; una copia viene anche data al datore di lavoro. L’INPS una volta elaborata la domanda comunicherà l’esito al richiedente.

L’art. 42 prevede inoltre che:

  • il lavoratore entro 60 giorni dalla richiesta può fruire del congedo (quindi assentarsi dal lavoro) per un periodo massimo di due anni, tale lasso di tempo è da considerarsi complessivamente fra tutti gli aventi diritto ed in relazione ad ogni singola persona con disabilità grave.
  • chi usufruisce del congedo ha diritto a percepire un indennizzo, solitamente quantificato in virtù di tutte le voci fisse della retribuzione percepita nell’ultimo mese di lavoro precedente al periodo di congedo straordinario
  • l’importo dell’indennizzo calcolato come al punto che precede, non può ad ogni modo superare una soglia annua, che viene rivalutata di anno in anno secondo gli indici ISTAT, e per il 2021 si attesta sui 48.738,00 euro (circ. Inps n. 10/2021)
  • il periodo di congedo è coperto da contribuzione figurativa
  • L'indennità a carico dell’INPS viene solitamente anticipata dal datore di lavoro.

Al pari di quanto detto per i permessi retribuiti, anche il congedo straordinario non può esser chiesto se il disabile si trova ricoverato in strutture sanitarie e non può essere concesso che ad un solo lavoratore per la stessa persona disabile.

Unica deroga viene concessa ai genitori (biologici, adottivi/affidatari) che possono alternativamente fruire del congedo compatibilmente anche con i permessi retribuiti, sempre che avendo le misure come fine l’assistenza del figlio con handicap in situazione di gravità, quando uno dei genitori utilizza il permesso l’altro non può utilizzare il congedo e viceversa.

16. Agevolazioni per l’acquisto di veicoli

Il raggiungimento di una piena dignità sociale delle persone disabili non può prescindere dal grado di autonomia personale cui l’individuo può aspirare; in tale ottica risultano fondamentali le agevolazioni fiscali atte ad eliminare le barriere architettoniche ed in parallelo, per quel che qui ci interessa, tutte le agevolazioni applicabili ai veicoli utilizzati per la mobilitazione del disabile, vale a dire:

  • la detrazione fiscale del 19% della spesa sostenuta per l’acquisto dei mezzi di locomozione, fruibile per un solo mezzo eper un importo massimo di 18.075,99 euro(ogni euro di spesa in più a questa cifra non gode della detrazione)
  • un’aliquota iva ridotta al 4% sull’acquisto del veicolo
  • l’esenzione dal pagamento dell’imposta di bollo sull’auto; a seconda delle regioni in cui si abita, la richiesta va inoltrata all’ufficio tributi della propria Regione o all’apposito ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate o ancora all’Aci (Automobile Club d’Italia), se riconosciuta l’esenzione è valida in maniera permanente senza necessita di reiterare la richiesta
  • l’esenzione dall’imposta di trascrizione sui passaggi di proprietà dovuta al PRA(Pubblico Registro Automobilistico) da richiedere all’ufficio PRA territorialmente competente

Va subito sottolineato che dette agevolazioni sono rivolte solo a disabili in situazione di gravità:

  • con handicap psichici titolari dell’indennità di accompagnamento
  • con grave limitazione di deambulazione
  • persone affette da cecità e sordità (per queste persone non si applica però l’esenzione dell’imposta dovuta al PRA)
  • con ridotte o impedite capacità motorie.

Benefici fruibili anche in questo caso dal familiare cui il disabile risulta a carico.

L’Agenzia delle Entrate, ricorda che la riduzione dell’iva su veicoli destinati ai “disabili in condizioni di ridotte o impedite capacità motorie” prevista all’art.1 della L. n. 97/1986, riguardava solo coloro che, disabili, fossero muniti di patente speciale;  solo nel 1997 con la legge n. 449, a prescindere dal possesso della patente speciale, l’agevolazione è stata estesa ai disabili di cui alla legge 104 “con ridotte o impedite capacità motorie permanenti… Iva al 4%, che precisa l’agenzia: “è applicabile in luogo di quella al 22% per l’Acquisto di auto nuove o usate di cilindrata non superiore a 2.000 centimetri cubici, se con motore a benzina o ibrido, 2.800 centimetri cubici, se con motore diesel o ibrido  e potenza non superiore a 150 kW se con motore elettrico”.

Con la circolare n.46/2001(Agenzia delle Entrate) vengono indicati i documenti da produrre in sede di acquisto del veicolo, per avere gli sgravi:

  • il verbale di accertamento handicap grave legge 104 emesso dalla commissione medica
  • il verbale della commissione medica per l'accertamento dell'invalidità civile che attribuisce l'indennità di accompagnamento

17. Le spese mediche: detrazioni e deduzioni

Nell’area tematica dedicata alle persone con disabilità, l’Agenzia delle Entrate chiarisce quali importanti benefici e sgravi fiscali si possono avere riguardo alle spese mediche.

Nello specifico sono deducibili dal reddito complessivo del disabile o dei familiari cui quest’ultimo risulta a carico:

  • le spese mediche generiche (per esempio, le prestazioni rese da un medico generico, l’acquisto di medicinali)
  • le spese di “assistenza specifica”.

Per assistenza specifica deve intendersi quell’assistenza fornita da personale qualificato (infermieri, OSS, fisioterapisti, o ancora come riporta il sito: “personale di coordinamento delle attività assistenziali di nucleo, da quello con la qualifica di educatore professionale, dal personale qualificato addetto all’attività di animazione e di terapia occupazionale”.

L’agenzia delle entrate chiarisce poi che:

  • sono deducibili anche le spese riguardanti “le attività di ippoterapia e musicoterapia”solo se prescritte da un medico che ne attesti la necessità e a condizione “che vengano eseguite in centri specializzati e direttamente da personale medico o sanitario specializzato”;
  • “In caso di ricovero del disabile in un istituto di assistenza e ricovero, non è possibile portare in deduzione l’intera retta pagata, ma solo la parte che riguarda le spese mediche e le spese paramediche di assistenza specifica.”

Per quel che riguarda invece la detrazione dall'imposta Irpef sulle spese mediche, bisogna distinguere i tipi di spesa medica, difatti:

  • per tutte le visite specialistiche
  • per particolari analisi
  • per prestazioni chirurgiche

il disabile o il parente che lo ha a carico gode di una detrazione dall’imposta pari al 19% della spesa, sulla parte eccedente l’importo di 129,11 euro;

Saranno invece integralmente detratte del 19%, a prescindere dall’importo, tutte quelle spese dettagliatamente riportate sul sito e di seguito elencate:

  • spese per il trasporto in ambulanza del disabile
  • per trasporto del disabile effettuato dalla Onlus, che ha rilasciato regolare fattura per il servizio di trasporto prestato o da altri soggetti
  • spese per l’acquisto di poltrone per inabili e minorati non deambulanti e di apparecchi per il contenimento di fratture, ernie e per la correzione dei difetti della colonna vertebrale
  • spese di dispositivi medici rientranti tra i mezzi necessari all’accompagnamento, alla deambulazione, alla locomozione e al sollevamento delle persone con disabilità (ad esempio stampelle)

L’Agenzia mediante risoluzione n. 79/E del 2016 porta a conoscenza che per i disabili in situazione di gravità, la deduzione delle spese mediche e di assistenza specifica avviene sulla sola base della certificazione rilasciata ai sensi della legge n. 104/1992.

18. Legge 104 e pensione anticipata

L’uscita dal mondo lavorativo si ha con il pensionamento dell’individuo, per i disabili e per i destinatari nonché fruitori della legge 104 è prevista la possibilità di andare in pensione prima che maturino tutti i requisiti anagrafici - contributivi canonicamente intesi dalle normative susseguitesi negli anni; le misure cui fare riferimento per ottenere ciò, sono l’“APE Sociale” ed il “pensionamento dei lavoratori precoci”.

L’APE Sociale - introdotta in maniera sperimentale nel 2017 e prorogata grazie alla legge di bilancio 2021 fino al 31 dicembre 2021- è un anticipo pensionistico consistente nell’erogazione di un’indennità mensile fruibile dal momento della presentazione della domanda fino al raggiungimento dell’età pensionabile.  Possono accedervi i lavoratori che si trovano in particolari situazioni di disagio sociale e, come specifica l’INPS, che al momento della domanda:

  • siano disoccupati a seguito di licenziamento o dimissioni
  • abbiano almeno 63 anni di età
  • contino 30 anni di anzianità contributiva; 36 per lavori gravosi
  • non percepiscano alcuna pensione diretta.

Inoltre vi accedono coloro che abbiano uno dei seguenti requisiti:

  • da almeno sei mesi, assistonoil coniuge (parte dell’unione civile- convivente di fatto) o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 104, ovvero un parente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 70 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, e sono in possesso di un'anzianità contributiva di almeno 30 anni
  • abbiano una riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile, superiore o uguale al 74% e sono in possesso di un'anzianità contributiva di almeno 30 anni

Possono invece accedere al pensionamento anticipato i lavoratori precoci, vale a dire quei lavoratori che sono in possesso di 12 mesi di contribuzione effettiva antecedente al loro diciannovesimo anno di età; questi lavoratori potranno andare in pensione con soli 41 anni di contributi se tale soglia di contribuzione viene raggiunta entro il 31 dicembre 2026; ma, anche in questo caso, a condizione che posseggano uno dei requisiti seguenti:

  • abbiano un’invalidità superiore o uguale al 74% accertata dalle competenti commissioni mediche per il riconoscimento dell’invalidità civile;
  • assistono, al momento della richiesta e da almeno sei mesi, il coniuge (parte dell’unione civile- convivente di fatto) o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, legge 104, ovvero un parente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto 70 anni oppure siano affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti;
  • abbiano svolto attività particolarmente faticose e pesanti ai sensi del decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67 (attività usurante di cui al decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale 19 maggio 1999, addetti alla linea catena, lavoratori notturni, conducenti di veicoli di capienza complessiva non inferiore a nove posti, adibiti al trasporto collettivo) (sito inps).

19. Legge 104 e covid-19

La storica emergenza sanitaria dello scorso 2020 ha richiesto un’importante produzione di decreti legge ed una corposa emanazione di atti amministrativi come i dpcm che noi tutti abbiamo imparato a conoscere.

La pandemia da covid-19 o più comunemente “coronavirus”, investendo, tra i vari aspetti, anche le nostre vite lavorative ha indotto il legislatore ad incrementare l’istituto dei permessi previsti dalla legge 104, in relazione al fatto che la quotidianità delle persone disabili ha evidentemente richiesto un’attenzione più capillare del solito a causa delle varie restrizioni che abbiamo vissuto.

In particolare il d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 c.d. “decreto Cura Italia” ed il d.l. n.34 del 19 maggio 2020 c.d. “decreto Rilancio” hanno previsto l’estensione dei permessi legge 104 in 12 gg ulteriori rispetto ai soliti 3 mensili, dapprima utilizzabili - spalmandolinei mesi di marzo e aprile, poi anche nei mesi di maggio e giugno 2020. La recrudescenza del virus potrebbe portare a nuove estensioni anche per questo 2021 anche se non si hanno novità in merito.

La chiusura delle scuole o meglio la sospensione della didattica in presenza, come pure la chiusura dei centri di assistenza per ragazzi, ha reso necessario prevedere un congedo utilizzabile in parte o per intero relativamente al periodo di chiusura. Il congedo riguarda quei lavoratori dipendenti che siano genitori di disabili in situazione di gravità ai sensi della legge 104 (D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020 convertito in legge n. 176/2020).

Ancora, il decreto Cura Italia sempre in relazione alla pandemia, con l’art. 39 esortava il diritto all’utilizzo del lavoro agile per tutti i lavoratori dipendenti disabili, o che assistono un familiare disabile in situazione di gravità art.3 comma 3 legge n. 104/92.

Misura confermata e prorogata fino al 30 giugno 2021 per i genitori di disabili, si legge infatti all’art. 21-ter D.l. n. 104/2020: “Fino al 30 giugno 2021, i genitori lavoratori dipendenti privati che hanno almeno un figlio in condizioni di disabilità grave riconosciuta ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n.  104, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore non lavoratore e che l’attività lavorativa non richieda necessariamente la presenza fisica, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali”.

Il protrarsi dell’emergenza potrebbe portare a nuovi risvolti nel corso del tempo

Per il contratto di apprendistato professionalizzante la formazione obbligatoria è sospesa durante il periodo di cassa integrazione a zero ore. La formazione in modalità e-learning o FAD è consentita solo in caso di riduzione delle attività lavorative (per i dettagli è possibile consultare la Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n.527 del 29 luglio 2020)

La formazione professionale è un elemento fondamentale per un lavoratore, perché permette di aggiornare ed ampliare le proprie competenze. Questa può essere inserita all’interno di un vero e proprio contratto di lavoro, la cui causa è lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione a cui si aggiunge l’obbligo formativo a carico del datore di lavoro.
In quest’ultimo caso rientra il contratto di apprendistato che si configura come la principale tipologia contrattuale per favorire l'ingresso nel mondo del lavoro dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, a seconda della tipologia di apprendistato.

L’elemento caratterizzante dell’apprendistato è rappresentato dal fatto che il datore di lavoro, nell’esecuzione dell’obbligazione posta a suo carico, è tenuto ad erogare, come corrispettivo della presentazione di lavoro, non solo la retribuzione, ma anche la formazione necessaria all’acquisizione delle competenze professionali o alla riqualificazione di una professionalità. Queste due obbligazioni hanno pari dignità e non sono tra loro alternative o accessorie.

Mentre l’apprendista ha la convenienza di imparare una professione, il datore di lavoro ha la possibilità di beneficiare di agevolazioni di tipo normativo, contributivo ed economico.

Il contratto di apprendistato è stato oggetto di diversi interventi legislativi: l’ultimo, in ordine temporale, è rappresentato dal Decreto Legislativo 81/2015 nel quale è confluito il precedente Testo Unico, arricchendolo con alcune novità. Quest’ultimo intervento è stato rivolto alla creazione di un sistema duale che integra istruzione, formazione e lavoro, soprattutto grazie alle due tipologie di apprendistato finalizzate all’ottenimento di un titolo di studio di livello secondario o terziario.

Il contratto di apprendistato è per definizione un contratto di lavoro a tempo indeterminato, rivolto ai ragazzi di età compresa fra i 15 e i 29 anni anche se per le regioni e le province autonome che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, la contrattazione collettiva può definire specifiche modalità di utilizzo di tale contratto, anche a tempo determinato, per le attività stagionali.

Il contratto di apprendistato prevede la forma scritta del contratto, del patto di prova e del piano formativo individuale (PFI) che può essere redatto anche in forma sintetica all'interno del contratto stesso, quindi contestualmente all’assunzione. Il PFI può essere definito anche in base a moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.

Solo nel caso di apprendistato professionalizzante è previsto l’obbligo, solo per gli imprenditori con più di 50 dipendenti, di proseguire a tempo indeterminato il rapporto di lavoro con almeno il 20% degli apprendisti presenti in azienda, altrimenti non si possono assumere altri apprendisti. Sono esclusi dal computo del triennio (che è da considerare "mobile"), i rapporti di lavoro in apprendistato cessati per mancato superamento della prova, per dimissioni e per giusta causa. Il datore di lavoro, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge, può comunque assumere un ulteriore apprendista, anche se non ha confermato a tempo indeterminato il 20% dei contratti nell’ultimo triennio.

Esistono tre tipologie di contratti di apprendistato, diverse per finalità, soggetti destinatari e profili normativi:

  • apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore;
  • apprendistato professionalizzante;
  • apprendistato di alta formazione e di ricerca.

La formazione integrata in un contratto di lavoro può essere utile, non solo per i giovani, ma anche per coloro che intendono acquisire nuove competenze per reinserirsi nel mondo di lavoro. Per questo, tramite l’apprendistato professionalizzante, è possibile assumere anche lavoratori in mobilità o percettori di un trattamento di disoccupazione. Data la specifica finalità di riqualificazione professionale non è previsto alcun limite di età per tale rapporto di apprendistato. Linterpello 5/2017 fornisce dei chiarimenti sugli obblighi formativi previsti per questa particolare fattispecie di apprendistato.

Il datore di lavoro – fino a quando non sarà completamente operativo il libretto formativo – può rilasciare una dichiarazione per l’accertamento e per la certificazione delle competenze e della formazione svolta dall’apprendista.

Come accennato, il contratto di apprendistato determina numerose agevolazioni a favore degli imprenditori che decidono di assumere con questa tipologia contrattuale. L’inserimento in azienda tramite apprendistato è, infatti, sostenuto da notevoli incentivi economici (come la contribuzione agevolata pari al 10% della retribuzione per le aziende o la deducibilità delle spese e dei contributi dalla base imponibile Irap), economici (come la possibilità di un sotto inquadramento) o normativi (come l’esclusione degli apprendisti dal computo dei dipendenti per determinati fini di leggi).

Le diverse tipologie di apprendistato identificano degli obiettivi diversi ed il ruolo delle Regioni e delle Province Autonome è fondamentale sotto l’aspetto formativo, per questo le regolamentazioni sono eterogenee. Rimane, comunque, un quadro normativo generale individuato dal Decreto Legislativo 81/2015 che tutela la generalità dei lavoratori apprendisti e definisce il ruolo dei diversi attori istituzionali e delle imprese coinvolte.

Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore

Possono essere assunti con contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale, i soggetti della fascia d’età compresa tra i 15 e i 25 anni in tutti i settori di attività. La regolamentazione dei profili formativi di questa tipologia di apprendistato è rimessa alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano.

Questa tipologia di apprendistato si rivolge anche ai giovani che non hanno assolto l’obbligo scolastico che potranno così conseguire il diploma di istruzione secondaria superiore, ma anche agli iscritti a partire dal secondo anno degli istituti tecnici e professionali di istruzione secondaria superiore. I datori di lavoro potranno, poi, prorogare fino ad un anno il contratto di apprendistato dei giovani qualificati e diplomati, per il consolidamento e l'acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, valide anche ai fini dell'acquisizione del certificato di specializzazione tecnica superiore o del diploma di maturità professionale all'esito del corso annuale integrativo di cui all'articolo 15, comma 6, del D. Lgs. n. 226/2006.

Il D. Lgs. 185 del 24 settembre 2016 ha introdotto, per i contratti di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, la possibilità per il datore di lavoro di prorogarne di un anno la durata, solo per i contratti già in essere alla data di entrata in vigore (8 ottobre 2016) del suddetto decreto, nel caso in cui alla scadenza l’apprendista non abbia conseguito il diploma o la qualifica.

Il datore di lavoro che intende stipulare il contratto di apprendistato sottoscrive un protocollo con l'istituzione formativa presso la quale lo studente è iscritto, secondo lo schema definito nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015.

Sotto l’aspetto retributivo, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa. Mentre per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella spettante interpello n.22/2016).

La durata del periodo formativo varia in relazione alla qualifica o al diploma da conseguire, in ogni caso non può essere inferiore ai sei mesi. Il Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015 che definisce gli standard formativi che costituiscono i livelli essenziali delle prestazioni, stabilisce che la durata massima sia così articolata:

  • tre anni per il conseguimento della qualifica di istruzione e formazione professionale;
  • quattro anni per il conseguimento del diploma di istruzione e formazione professionale;
  • quattro anni per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore;
  • due anni per la frequenza del corso annuale integrativo per l'ammissione all'esame di Stato di cui all'art. 15, comma 6, del decreto legislativo n. 226 del 2005;
  • un anno per il conseguimento del diploma di istruzione e formazione professionale per coloro che sono in possesso della qualifica di istruzione e formazione professionale nell'ambito dell'indirizzo professionale corrispondente;
  • un anno per il conseguimento del certificato di specializzazione tecnica superiore.

I periodi di formazione interna ed esterna sono articolati anche secondo le esigenze formative e professionali dell'impresa e le competenze tecniche e professionali correlate agli apprendimenti. Le rispettive percentuali rispetto al monte ore di formazione complessivo sono stabilite nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015.
È prevista, infine, la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere la stipula di contratti di apprendistato anche a tempo determinato per le attività stagionali, a patto che le Regioni e le Province autonome abbiano attivato un sistema di alternanza scuola-lavoro.

Se le Regioni o Province autonome non adotteranno una propria regolamentazione, si applicheranno in via diretta le disposizioni contenute nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015.

Apprendistato professionalizzante

È finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale ai fini contrattuali. Possono essere assunti, in tutti i settori di attività, pubblici e privati, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Per chi è in possesso di una qualifica professionale, il contratto può essere stipulato a partire dal diciassettesimo anno di età.
L’apprendistato professionalizzante può essere, altresì, stipulato per le medesime finalità con soggetti percettori di strumento di sostegno al reddito legati alla disoccupazione (compresi i lavoratori in mobilità), senza vincoli anagrafici.

La Regione provvede a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica relativa alla formazione trasversale e di base, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche delle imprese e delle loro associazioni. Alla formazione per l’acquisizione di competenze di base e trasversali, che tiene conto dell’età, del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista e che viene svolta per un monte ore complessivo di 120 ore di formazione per la durata del triennio, si affianca la formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche, in funzione del profilo professionale stabilito e secondo quanto stabilito dagli accordi interconfederali e dai contratti collettivi.

Le Regioni e le associazioni di categoria dei datori di lavoro possono definire, nell'ambito della bilateralità, le modalità per il riconoscimento della qualifica di maestro artigiano o di mestiere. La durata del contratto non può superare i tre anni, ovvero, i cinque per il settore dell’artigianato. Il contratto di apprendistato per la qualifica, una volta conseguito il titolo, potrà essere trasformato in contratto di apprendistato professionalizzante. In questo caso la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non potrà eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva. Al termine del periodo formativo, nel caso di intendesse risolvere il rapporto di lavoro, si applica la disciplina dei licenziamenti individuali.
Si precisa che di recente è stato chiarito come la formazione obbligatoria sia sospesa durante il periodo di cassa integrazione a zero ore e che, alla ripresa dell'attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro, il periodo di apprendistato viene prorogato in misura equivalente all'ammontare delle ore di integrazione salariale fruite. La formazione in modalità e-learning o FAD è infatti consentita solo in caso di riduzione delle attività lavorative. E’ quanto emerge dalla Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n.527 del 29 luglio 2020 che conclude in tal senso prendendo le mosse dall’art. 2, comma 1 e 4, del D.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, a mente del quale i lavoratori in apprendistato professionalizzante rientrano tra i destinatari degli ammortizzatori sociali.

Apprendistato di alta formazione e di ricerca

Possono essere assunti, in tutti i settori di attività, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. La finalità è il conseguimento di un titolo di studio universitario e di alta formazione, compresi il dottorato di ricerca, i diplomi rilasciati dagli istituti tecnici superiori (ITS), nonché il praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche.
Il datore di lavoro che intende stipulare un contratto di apprendistato di tale tipologia è tenuto alla sottoscrizione di un protocollo con l'istituzione formativa presso la quale lo studente è iscritto, secondo lo schema definito nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015.
Il protocollo stabilisce, altresì, la durata e le modalità, anche temporali, della formazione a carico del datore di lavoro e il numero dei crediti formativi riconoscibili a ciascuno studente per la formazione aziendale.

Il Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015 che definisce gli standard formativi che costituiscono i livelli essenziali delle prestazioni, stabilisce una durata minima pari a sei mesi, mentre quella massima viene così declinata:

  •  per l’apprendistato di alta formazione è pari alla durata ordinamentale dei relativi percorsi;
  •  per l’apprendistato per attività di ricerca non può essere superiore a tre anni, salva la facoltà delle regioni e delle province autonome di prevedere ipotesi di proroga del contratto fino ad un anno in presenza di particolari esigenze legate al progetto di ricerca;
  • per l’apprendistato, per il praticantato, per l'accesso alle professioni ordinistiche è definita in rapporto al conseguimento dell'attestato di compiuta pratica per l'ammissione all'esame di Stato.

Se le Regioni o Province Autonome non adotteranno una propria regolamentazione, si applicheranno in via diretta le disposizioni contenute nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015.
Con le nuove disposizioni introdotte dal D. Lgs. 185 del 24 settembre 2016, è consentito alle Regioni e alle Provincie Autonome di regolamentare l’attivazione di questi percorsi formativi dopo aver sentito le associazioni territoriali dei datori di lavoro più rappresentative, le Università e gli altri Istituti di formazione e ricerca, senza la necessità di dover raggiungere un accordo con le stesse.

In caso di mancata adozione da parte delle Regioni o Province Autonome di una propria regolamentazione, l’attivazione dei percorsi di apprendistato è regolamentata in via diretta dalle disposizioni contenute nel Decreto Interministeriale del 12 ottobre 2015. Sono fatte salve le convenzioni stipulate dai datori di lavoro e dalle loro associazioni con le università, gli ITS e le altre istituzioni formative e di ricerca.

Sotto il versante retributivo, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo per le ore di formazione svolte nella istituzione formativa. Mentre per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta.

Tutele per gli apprendisti

Per evitare un abuso e l’uso improprio del contratto di apprendistato, il legislatore ha introdotto maggiori tutele per gli apprendisti, in particolare, in termini di stabilità.
Con decorrenza dal 1° gennaio 2013, il datore di lavoro, anche per il tramite di un'agenzia di somministrazione di lavoro, può assumere 3 apprendisti ogni 2 dipendenti. Per i datori di lavoro con meno di 10 dipendenti, rimane il rapporto numerico di 1/1 e pertanto non si può superare il limite del 100% di assunzioni di apprendisti rispetto alle maestranze specializzate e qualificate.

Il datore di lavoro senza dipendenti specializzati o qualificati oppure che ne abbia meno di 3, può comunque assumere fino a 3 apprendisti. Alle imprese artigiane si applicano i limiti dimensionali previsti dalla legge-quadro sull'artigianato.
I vincoli di stabilizzazione, invece, prevedono che debba essere confermati a tempo indeterminato un numero di apprendisti pari al 20% di quelli assunti nei 36 mesi precedenti nelle aziende con più di 50 dipendenti (salva diversa indicazione dei contratti collettivi). I vincoli di stabilizzazione sono previsti solo per le nuove assunzioni con contratto di apprendistato professionalizzante e non per le altre due tipologie di apprendistato.
È esclusa la possibilità di assumere apprendisti con un contratto di somministrazione a termine. È invece possibile somministrare a tempo indeterminato, in tutti i settori produttivi, uno o più lavoratori in apprendistato.
A tutela dell’apprendista, sono previste inoltre delle garanzie retributive: il divieto di retribuzione a cottimo e l’introduzione di limiti alla possibilità di inquadramento. È ammessa, infatti, la possibilità di sotto-inquadramento del lavoratore solo fino a due livelli inferiore rispetto alla qualifica spettante o, in alternativa, di stabilire una retribuzione percentualmente ridotta e gradualmente crescente con l’anzianità di servizio.
Agli apprendisti sono estese, sempre in un’ottica di protezione del lavoratore, le tutele previdenziali in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, malattia, invalidità e vecchiaia, maternità e assegno familiare. L’apprendista rientra nell'ambito di applicazione della Nuova Assicurazione sociale per l'impiego. È previsto, come per la precedente ASpI, il contributo di finanziamento pari all'1,31% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Tale percentuale è incrementata del contributo dello 0,30% destinato al finanziamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua.
Anche per gli apprendisti, in caso di interruzione del rapporto di lavoro per cause diverse dalle dimissioni, ivi compreso il recesso al termine del periodo formativo comunicato dal datore di lavoro, è dovuto a carico di quest'ultimo il contributo pari al 50% del trattamento mensile iniziale della NASpI, per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.
Che cosa succede se non vengono rispettati gli obblighi formativi? Scatta una sanzione economica in capo al datore di lavoro, che dovrà versare la differenza tra la contribuzione erogata e quella dovuta, con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento.

fondi interprofessionali costituiscono un’opportunità di crescita per tutte le imprese che vogliono puntare sulla formazione e l’aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti per implementare il proprio business. 

Ma cosa sono i fondi interprofessionali e come funzionano?

Cosa sono i fondi interprofessionali

I fondi interprofessionali sono organismi di natura associativa, promossi dalle organizzazioni sindacali, che hanno lo scopo di promuovere attività di formazione continua per i dipendenti delle aziende. 

Tramite questi fondi, infatti, i datori di lavoro possono coinvolgere i dipendenti in percorsi di formazione in modo gratuito

I fondi paritetici interprofessionali sono finanziati dal “contributo obbligatorio per la disoccupazione volontaria“.

Questo contributo deve essere versato obbligatoriamente da tutti i datori di lavoro e per ciascun dipendente; è pari allo 0,30% della retribuzione dei lavoratori

L’unico modo che hanno le aziende per recuperare e gestire tale contributo è di destinarlo ad un fondo interprofessionale. 

L’adesione ai fondi non comporta alcun costo per le imprese, che potranno aderire o rinunciarvi in qualsiasi momento. 

Come funzionano

Ma come funzionano i fondi interprofessionali? In che modo finanziano la formazione continua dei dipendenti?

Come anticipato, l’attività dei fondi è finanziata dal contributo dello 0,30% che ogni datore di lavoro deve versare per ciascuno dei dipendenti. 

Le risorse accumulate sono diversificate a seconda degli strumenti messi a disposizione dal Fondo. 

Generalmente, le aziende che aderiscono ai fondi interprofessionali hanno a propria disposizione:

  • un conto individuale, dove confluisce la maggior parte delle risorse accumulate
  • conti di sistema e avvisi finanziati dalla restante parte delle risorse e a disposizione di tutte le imprese aderenti a quel fondo. 

Come aderire ad un fondo

L’adesione ai fondi interprofessionali è volontaria e gratuita. 

Le imprese interessate all’adesione dovranno utilizzare il modello di denuncia contributiva del flusso UNIEMENS. 

La procedura da seguire è la seguente:

  • accedere alla sezione “Gestione Denuncia Aziendale”
  • accedere al flusso UNIEMENS
  • selezionare anno e mese di contribuzione
  • inserire nome e matricola INPS dell’azienda
  • indicare, nella sezione Fondi Interprof, il codice del Fondo
  • indicare il numero dei lavoratori dipendenti interessati all’obbligo contributivo. 

L’adesione ai Fondi interporfessionali permette alle imprese di destinare una quota fissa pari allo 0,30% dei contributi versati all’INPS (anche detto “contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria”) alla formazione e quindi alla crescita professionale dei propri dipendenti. I datori di lavoro avranno quindi la possibilità, tramite l’INPS, di trasferire tale contributo ad uno dei Fondi Paritetici Interprofessionali. L’INPS provvederà dunque a finanziare le attività di formazione rivolte ai lavoratori delle imprese che hanno aderito in modo spontaneo.
Avviene spesso che, una parte di quanto accantonato tramite i fondi interprofessionali (parte denominata solitamente Conto Azienda e/o Conto Formazione) viene messa a disposizione delle peculiari esigenze dell’azienda medesima, mentre un’altra parte (denominata solitamente Conto Sistema)

Codici Fondi Interprofessionali

  • FIMA – Fondimpresa
  • FARC – Fonarcom
  • FDIR – Fondirigenti
  • FEMI – Fonditalia
  • FPRO – Fondprofessionio
  • FITE – For.te
  • FART – Fondartigianato
  • FAGR – Foragri
  • FORM – Formazienda

I fondi interprofessionali oggi

Stando ai dati del rapporto OCSE “Adult Learning in Italy:what role for Training Funds?” e del XIX Rapporto sulla formazione continua di ANPAL, i fondi rappresentano più di 900 mila aziende e 10 milioni di lavoratori. 

Gestiscono circa 660 milioni ogni anno e stanziano, tramite avvisi pubblici annuali, circa 357 milioni di euro.

Costituiscono, pertanto, uno dei principali strumenti per il finanziamento della formazione continua in Italia. 

Una formazione che fino al 2019 era per lo più in presenza. Ma i fondi si sono adeguati anche all’emergenza sanitaria, garantendo la formazione continua mediante modalità di formazione a distanza ed e-learning. 

La percentuale di formazione a distanza, sul totale della formazione finanziata dai fondi interprofessionali, si attestava nel 2019 ad una media del 6,5%.

Nel 2020, la percentuale si attesta al 38,5%. 

Sulla base di quanto rilevato dalle interviste ai fondi, la formazione a distanza potrebbe attestarsi in una media del 27% a fine emergenza. 

Per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai sensi dell'art. 93 del Decreto Legge n. 34 del 19 maggio 2020, convertito in Legge 17 luglio 2020, n. 77 (come modificato dal Decreto Legge 22 marzo 2021, n. 41, c.d. Decreto Sostegni), in deroga all'art. 21 del D.lgs. n. 81/2015 e fino al 31 dicembre 2021, ferma restando la durata massima complessiva di 24 mesi è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di 12 mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all'art. 19, comma 1, del D.lgs. n. 81/2015.

Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato nel quale è prevista una durata predeterminata, attraverso l’apposizione di un termine.
E’ disciplinato dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (articoli 19-29).
La forma ordinaria del rapporto di lavoro subordinato risiede è il contratto a tempo indeterminato, pertanto l’apposizione di un termine - sebbene consentita - è subordinata al rispetto di determinate condizioni.
In primo luogo, l’apposizione del termine, è priva di effetto, se non risulta da atto scritto, fatta eccezione per i rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni.
In secondo luogo, a seguito delle modifiche apportate dal Decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (convertito con modificazioni in Legge 9 agosto 2018, n. 96), la durata massima del contratto a tempo determinato è attualmente fissata in 12 mesi, con possibilità di estensione a 24 mesi, ma solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni (art. 19):

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività;
  • esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.

Il contratto a termine non può, quindi, avere una durata superiore a 24 mesi, comprensiva di proroghe o per successione di più contratti, fatte salve previsioni diverse dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Ai fini del computo dei 24 mesi sono considerati anche i periodi relativi a missioni in somministrazione eseguite dal lavoratore presso lo stesso datore di lavoro/utilizzatore, aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale.
Fermi restando i limiti di durata previsti dalla legge, fra gli stessi soggetti può essere concluso un ulteriore contratto a tempo determinato della durata massima di 12 mesi a condizione che la sottoscrizione avvenga presso la competente sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro (c.d. deroga assistita).
Qualora sia superato il limite di durata dei 12 mesi, in assenza delle condizioni che legittimano l’estensione a 24 mesi, oppure sia superato il limite dei 24 mesi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine.
Sul punto, si segnala la Circolare ministeriale n. 17 del 31 ottobre 2018 con la quale sono stati resi chiarimenti con riguardo alle disposizioni sulla durata massima, applicabili ai contratti a tempo determinato conclusi a far data dal 14 luglio 2018, nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti a far data dal 31 ottobre 2018.

Proroga e rinnovo

Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a 24 mesi e, comunque, per un massimo di 4 volte nell'arco di 24 mesi, a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga (art. 21).
La proroga può avvenire però liberamente nei primi 12 mesi e, successivamente, solo in presenza delle c.d. causali che legittimano la sottoscrizione di un contratto a termine (di cui all’art. 19, comma 1).
Il contratto a tempo determinato può essere rinnovato esclusivamente a fronte dell’esistenza delle circostanze previste dalle causali (di cui all’art. 19, comma 1).
Tuttavia, ai fini del rinnovo, è necessario che sia rispettato un intervallo temporale tra la sottoscrizione dei due contratti a termine:

  • 10 giorni per i contratti fino a 6 mesi;
  • 20 giorni per i contratti di durata superiore a 6 mesi.

Qualora siano violate le disposizioni su tali interruzioni temporali, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Peraltro, nell’ipotesi di rinnovo l'atto scritto deve contenere la specificazione delle esigenze in base alle quali viene sottoscritto.
Si segnala che nei casi di rinnovo del contratto a termine, è stato previsto un incremento del contributo addizionale NASpI (per le relative istruzioni operative è possibile consultare la circolare INPS n. 121/2019).
I limiti previsti in relazione alle proroghe e rinnovi dei contratti a termine non si applicano alle imprese start up innovative (di cui all’art. 25, commi 2 e 3, del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni, in Legge 17 dicembre 2012, n. 221) per 4 anni dalla costituzione della società, oppure per il più limitato periodo previsto per le società già costituite.
Anche i contratti per attività stagionali possono essere rinnovati o prorogati in assenza delle causali necessarie con riferimento alla generalità delle attività.

Prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine

La normativa vigente regola altresì le ipotesi di prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine, prevedendo che in tali casi il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo e al 40% per ogni giorno ulteriore (art. 22).
Inoltre, è prevista la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato nel caso in cui il rapporto di lavoro continui:

  •  oltre il 30° giorno per i contratti di durata inferiore a 6 mesi;
  •  oltre il 50° giorno negli altri casi.

Numero complessivo di contratti a tempo determinato

La disciplina vigente pone un limite percentuale di ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato.
Infatti, i datori di lavoro possono assumere lavoratori a termine in misura non superiore al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione (con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia uguale o superiore a 0,5), salvo diversa disposizione dei contratti collettivi (art. 23). Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione. Invece, per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.
In caso di violazione del limite percentuale, è prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa, restando espressamente esclusa la trasformazione dei contratti a tempo determinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In particolare, per ciascun lavoratore si applica a carico del datore di lavoro una sanzione pari:

  •  al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è superiore a uno;
  •  al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno.

Rimangono esenti dal limite percentuale tutti casi elencati all’art. 23, commi 2 e 3, ovverosia: i contratti a termine conclusi nella fase di avvio di nuove attività per i periodi individuati dalla contrattazione collettiva; per le startup innovative; per sostituzione di personale assente; per attività stagionali; per spettacoli; programmi radiofonici o televisivi o per la produzione di specifiche opere audiovisive; i contratti conclusi con lavoratori di età superiore a 50 anni; i contratti sottoscritti tra enti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica o di coordinamento e direzione della stessa.

Diritto di precedenza

Il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato per almeno 6 mesi può far valere il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato eseguite dal datore di lavoro, entro i successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni svolte (art. 24). I periodi di astensione obbligatoria per le lavoratrici in congedo per maternità devono computarsi per la maturazione del diritto di precedenza. Le medesime lavoratrici avranno diritto di precedenza anche nelle assunzioni a termine per le stesse mansioni che avvengano nei 12 mesi successivi alla conclusione del loro contratto. Anche il lavoratore assunto a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali ha diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a tempo determinato da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali.

Divieto del contratto a termine

L’apposizione del termine ad un contratto di lavoro subordinato è espressamente vietata (art. 20):

  • per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
  •  presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, a meno che il contratto venga concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi;
  • presso unità produttive nelle quali sono operanti la sospensione del lavoro o la riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato;
  •  da parte di datori di lavoro che non hanno eseguito la valutazione dei rischi in applicazione della normativa a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Qualora vengano violati i divieti il contratto a termine è trasformato in contratto a tempo indeterminato.

Impugnazione del contratto a termine

L'eventuale impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire entro 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto (art. 28).
Qualora sia accertata l’illegittimità del contratto a termine, oltre alla trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno in favore del lavoratore mediante la corresponsione di un'indennità onnicomprensiva calcolata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. In proposito, la disciplina vigente dispone espressamente che tale indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
I contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, anche nell’ambito della P.A., sono disciplinati dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (artt. 30 e seguenti), fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

Nel rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato, la prestazione di lavoro può essere svolta a tempo pieno o a tempo parziale (c.d. part time).

Non si tratta di una tipologia contrattuale a sé stante, ma di una forma di occupazione flessibile con un particolare regime dell’orario di lavoro, inferiore rispetto a quello ordinario a tempo pieno (c.d. full-time) pari, di regola, a 40 ore settimanali o a quello comunque determinato dalla contrattazione collettiva.

La disciplina del contratto part-time è contenuta nel Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (articoli 4-12).

  • La riduzione dell'orario di lavoro può essere:
  • di tipo orizzontale, quando il dipendente lavora tutti i giorni per un orario inferiore rispetto all’orario normale giornaliero;
  • di tipo verticale, quando il dipendente lavora a tempo pieno, soltanto alcuni giorni della settimana, del mese o dell’anno;
  • di tipo misto che contempla una combinazione delle due forme precedenti.

 

Il contratto di lavoro part-time richiede la forma scritta ai fini della prova e deve contenere la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno (art. 5).

La modulazione dell’orario può essere modificato mediante l’apposizione nel contratto di apposite clausole (art. 6):

  •  le clausole flessibili prevedono la possibilità di modificare la collocazione temporale della prestazione di lavoro e possono essere contenute in tutte e tre le tipologie di contratto part-time;
  •  le clausole elastiche prevedono la possibilità di aumentare il numero delle ore della prestazione di lavoro rispetto a quanto fissato originariamente e possono essere previste nei rapporti di part-time di tipo verticale o misto.

In tali ipotesi, il lavoratore ha diritto ad un preavviso di 2 giorni lavorativi, fatte salve le diverse intese tra le parti, nonché a specifiche compensazioni nella misura o nelle forme determinate dai contratti collettivi.

Nel caso in cui la contrattazione collettiva non disciplini le clausole flessibili ed elastiche, queste possono essere pattuite per iscritto dalle parti dinanzi le commissioni di certificazione, fermo restando che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Le clausole devono prevedere a pena di nullità:

  • le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di 2 giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata;
  • la misura massima dell'aumento della durata, che non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale.

In caso di modifiche dell’orario è, peraltro, previsto il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale.

Ai lavoratori che versano in particolari condizioni di salute o familiari (come specificate all’art. 8, commi 3-5, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81) oppure ai lavoratori studenti (art. 10, comma 1, Legge 20 maggio 1970, n. 300) è riconosciuta la facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola elastica.
Nell’ambito del part-time è prevista la possibilità di svolgimento di lavoro supplementare, retribuito con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale. Infatti, nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere, entro i limiti di legge, lo svolgimento di prestazioni supplementari, intendendosi per tali quelle svolte oltre l'orario concordato fra le parti, anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi.
Qualora il contratto collettivo non disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni supplementari in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi, è ammesso il rifiuto del lavoratore ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.
Anche nel rapporto di lavoro a tempo parziale è, poi, consentito lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario.

La trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale è ammessa su accordo delle parti risultante da atto scritto (art. 8).

Peraltro, in talune ipotesi, la trasformazione da full-time a part-time, sia nel settore pubblico che privato, è espressamente prevista dalla legge al ricorrere di determinate condizioni, cioè:

  •  casi in cui i lavoratori sono affetti da patologie oncologiche, nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa; a richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo parziale è trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno;
  • in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice, nonché nel caso in cui il lavoratore o la lavoratrice assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa con connotazione di gravità (art. 3, comma 3, Legge 5 febbraio 1992, n. 104) che abbia necessità di assistenza continua;
  • in caso di richiesta del lavoratore o della lavoratrice con figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con figlio convivente con disabilità grave (art. 3 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104).


Inoltre, nel caso in cui il rapporto sia stato trasformato da tempo pieno in tempo parziale, il lavoratore ha diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno per l'espletamento delle stesse mansioni o di mansioni di pari livello e categoria legale rispetto a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale.
In un’ottica di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, il lavoratore può chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale o entro i limiti del congedo ancora spettante ai sensi Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Capo V), la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d'orario non superiore al 50%.

Da ultimo, la normativa vigente prevede una serie di conseguenze qualora non siano state rispettate talune disposizioni (art. 10).
Nello specifico, in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su domanda del lavoratore viene dichiarato il rapporto di lavoro a tempo pieno.
Se nel contratto scritto non venga determinata la durata della prestazione lavorativa, su domanda del lavoratore viene dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla pronuncia giurisdizionale. Per il periodo antecedente alla pronuncia, il lavoratore ha diritto, oltre alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese, a un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.

Infine, lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi comporta il diritto del lavoratore ad un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno, oltre alla retribuzione dovuta.

Il Decreto Legislativo n. 81/2015, come da ultimo modificato dal Decreto-legge n.101/2019 (convertito con modificazioni in L. n. 128/2019), dispone che, dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzino in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente. Ciò vale anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme, comprese quelle digitali (art. 2, comma 1).

Le parti possono richiedere alle commissioni di certificazione di attestare l'assenza dei requisiti ostativi suddetti. Il lavoratore, in questa fase, può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro (art. 2, comma 3).

L’estensione della disciplina propria del rapporto di lavoro subordinato non opera, tuttavia, nei seguenti casi (art. 2, comma 2):

  • per le collaborazioni individuate dalla contrattazione collettiva nazionale, siglata dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, anche per venire incontro a particolari esigenze produttive ed organizzative del settore di riferimento;
  • per le prestazioni intellettuali rese da soggetti iscritti ad Albi professionali;
  • per le attività prestate dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dei partecipanti ai collegi ed alle commissioni, esclusivamente in relazioni alle loro funzioni;
  • per le prestazioni rese a fini istituzionali nelle associazioni sportive e dilettantistiche riconosciute dal Coni;
  • per le collaborazioni prestate nell'ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al Decreto Legislativo 29 giugno 1996, n. 367;
  • per le collaborazioni degli operatori che prestano le attività di cui alla Legge 21 marzo 2001, n. 74 recante disposizioni in materia di attività svolta dal Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico (CNSAS).

Inoltre, al fine di promuovere la stabilizzazione dell’occupazione, i datori di lavoro che assumono con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato coloro con cui hanno avuto un precedente rapporto di collaborazione, anche a progetto, o i titolari di partita IVA con cui hanno intrattenuto un rapporto di lavoro autonomo, godono del beneficio dell’estinzione degli eventuali illeciti amministrativi, contributivi e fiscali legati all'erronea qualificazione dei rapporti di lavoro precedenti (art. 54, commi 1 e 2).
I datori di lavoro che intendono beneficiare di questa “sanatoria” devono sottoscrivere con il lavoratore dei verbali di conciliazione stragiudiziale – in una delle sedi di cui all'art. 2113, quarto comma, del Codice civile, o presso le commissioni di certificazione – e non potranno recedere dal rapporto di lavoro nei dodici mesi successivi all’assunzione, salvo che non si configuri un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo (art. 54 comma 1, lett. a e b).

Nelle pubbliche amministrazioni il divieto di stipulare collaborazioni coordinate e continuative con le caratteristiche suddette è scattato il 1° luglio 2019.

Infine, si ricorda che, con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 81/2015 (25 giugno 2015), non è stato più ammesso stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, essendo intervenuta l’abrogazione degli articoli 61-69bis del Decreto Legislativo n. 276/2003 che hanno continuato ad essere applicabili solo ai contratti ancora in essere a tale data (art. 52).

Co.co.pro. fino al 24 giugno 2015

Il cosiddetto co.co.pro. costituisce quindi una forma di lavoro non subordinato per la cui instaurazione è tassativamente necessaria la forma scritta, secondo quanto chiarito a seguito dell'entrata in vigore della L.99/2013, di conversione del D.L. 76/2013; in assenza di un progetto specifico, il rapporto sarà considerato un rapporto di lavoro subordinato, salvo la prova contraria fornita dal committente. Tale legge ha altresì previsto che, se l'oggetto del contratto è un'attività scientifica, che necessita di ampliamento di contenuti o di tempo, il progetto si può prorogare automaticamente.

Sono sottratte alla disciplina delle co.co.pro. le prestazioni intellettuali professionali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione ad albi o ordini professionali, nonché le collaborazioni coordinate e continuative utilizzate a fini istituzionali a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate a federazioni sportive nazionali, quelle rese da soggetti che percepiscono la pensione di vecchiaia e per i componenti di organi di governance delle società.
Sono escluse dal campo di applicazione della disciplina del co.co.pro. le prestazioni lavorative occasionali di durata non superiori alle 30 giornate nel corso dell'anno solare (ovvero 240 ore nell'anno solare nell'ambito dei servizi di cura ed assistenza alla persona), definendosi così il concetto di collaborazione occasionale.
LaL. 92/2012 ha introdotto sostanziali novità relative a questo contratto, con l’intento di contrastare l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità che sono stati progressivamente introdotti nell’ordinamento. Così ha previsto disincentivi normativi e contributivi, nonché una definizione più stringente del progetto o dei progetti che costituiscono l'oggetto della collaborazione coordinata e continuativa:

  • è stato abolito dal concetto di progetto il riferimento al programma di lavoro o alla fase di esso;
  • il progetto deve essere funzionalmente connesso al conseguimento di un risultato finale e non può più consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa committente, né in compiti meramente esecutivi e ripetitivi, secondo quanto chiarito a seguito dell'entrata in vigore della L.99/2013, di conversione del D.L. 76/2013;
  • quando l’attività del collaboratore a progetto sia analoga a quella svolta da lavoratori subordinati, salvo prova contraria del committente, la collaborazione viene considerata un rapporto di lavoro subordinato fin dall'inizio.

A questo proposito, si precisa che il contratto a progetto non prevede un orario rigido o un monte ore predeterminato ma l’assolvimento del progetto nei tempi e modi indicati al momento della stipula del contratto.

Le parti possono risolvere per giusta causa la collaborazione prima della scadenza del termine, mentre il committente potrà recedere anche quando il collaboratore non risulti professionalmente idoneo per realizzare il progetto, così come il collaboratore potrà recedere con preavviso nel caso in cui tale facoltà sia prevista nel contratto. La L. 99/2013, di conversione del D.L. 76/2013, ha esteso anche alle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, la disciplina della convalida delle risoluzioni consensuali e delle dimissioni.

Il compenso del collaboratore, proporzionato alla qualità e quantità di lavoro prestato, non potrà essere inferiore ai minimi contrattuali previsti per mansioni equiparabili a quelle svolte dal collaboratore e calcolate sulla media dei contratti collettivi di riferimento.
Le aliquote contributive sui contratti a progetto aumentano progressivamente di un punto percentuale a partire dal 2013 e fino al 2018. Per gli iscritti alla Gestione separata Inps nel 2013, la contribuzione rimane al 27% e raggiungerà il 33% nel 2018. Per gli iscritti ad altra gestione, la contribuzione già dal 2013 aumenta al 20% e raggiungerà il 24% a partire dal 2016.

La L. 99/2013, di conversione del D.L. 76/2013, interviene anche sul Decreto sviluppo (convertito nella L. 134/2012) che aveva specificato che il ricorso al contratto a progetto è ammissibile anche per le “attività di vendita diretta di beni e di servizi, realizzate attraverso call center outbound, purché sia definito un corrispettivo congruo dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento", chiarendo che il ricorso al lavoro a progetto è ammesso sia per le attività di vendita diretta di beni e servizi sia per le attività di servizi.

Il contratto di lavoro intermittente è disciplinato dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015,n. 81.

Si tratta del contratto, a tempo determinato o indeterminato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 13).

Quanto all’ambito oggettivo delle attività a carattere discontinuo, come confermato nella risposta ad Interpello n. 10/2016, è possibile riferirsi alle attività elencate nella tabella allegata al R.D. n. 2657/1923.

Peraltro, con riferimento al ruolo rivestito dalla contrattazione collettiva nell’individuazione delle esigenze sottese al ricorso al lavoro intermittente, si segnala la recente circolare dell’INL n. 1/2021 secondo cui – sulla scorta dell’orientamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – alle parti sociali è affidata l’individuazione delle sole “esigenze”, non essendo loro riconosciuto il potere di interdire l’utilizzo di tale tipologia contrattuale nel settore regolato.

In merito all’ambito soggettivo, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso (art. 13, comma 2):

  • con soggetti di età inferiore ai 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il 25° anno;
  • con soggetti di età superiore ai 55 anni.

Ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. In caso di superamento di tale periodo, il rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. In proposito, si segnala che nella Circolare MLPS n. 35/2013 vengono riportate le indicazioni operative riguardo al calcolo delle giornate.

La Legge richiede la forma scritta del contratto ai fini della prova dei seguenti elementi (art. 15):

  • durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto di lavoro intermittente;
  • luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non può essere inferiore a un giorno lavorativo;
  • trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, ove prevista;
  • forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione di lavoro nonché le modalità di rilevazione della stessa;
  • tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità;
  • misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto.

Si evidenzia che, nei periodi in cui non ne viene utilizzata la prestazione, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia garantito contrattualmente al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate (Art. 13, comma 4). In quest’ultima ipotesi al lavoratore spetta l'indennità di disponibilità il cui importo è determinato dai contratti collettivi e, comunque, non può essere inferiore all'importo fissato con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, sentite le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Peraltro, il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto (art. 16).

Sul punto, l’Interpello n. 15/2015 chiarisce che il lavoratore iscritto nella lista di mobilità e assunto con contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato, senza obbligo di risposta alla chiamata, conserva comunque l'iscrizione nella lista.

Si prevede poi il divieto al ricorso al lavoro intermittente nelle ipotesi di seguito riportate (art. 14):

  • per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
  • presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi (articoli 4 e 24 della Legge 23 luglio 1991, n. 223) che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente, oppure presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente;
  • ai datori di lavoro che non hanno svolto la valutazione dei rischi in applicazione della normativa a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Infine, ai sensi della normativa vigente, il datore di lavoro - oltre alla comunicazione obbligatoria di assunzione - deve provvedere alla comunicazione prima dell'inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni (art. 15, comma 3).

Le modalità operative, attualmente in vigore, per eseguire tale comunicazione sono state definite dal Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 e dalla Circolare MLPS n. 27/2013.

La Circolare MLPS del 12 febbraio 2020 fornisce, inoltre, alcuni chiarimenti sulle modalità di comunicazione con riferimento ai lavoratori dello spettacolo.

Consulta le istruzioni operative per la comunicazione della chiamata del lavoro intermittente. 

Il Decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni in Legge 21 giugno 2017, n. 96, disciplina le prestazioni occasionali (art. 54 bis).
In particolare, la normativa vigente ammette la possibilità di svolgere prestazioni di lavoro occasionali, intendendosi per tali le attività lavorative che danno luogo nel corso di un anno civile (1° gennaio – 31 dicembre di ciascun anno):

  • per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;
  • per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;
  • per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore a 2.500 euro;
  • per ciascun prestatore, per le attività di "steward" negli impianti sportivi di cui Decreto del Ministro dell'Interno 8 agosto 2007, a compensi di importo complessivo non superiore a 5.000 euro.

Si precisa, tuttavia, che sono computati in misura pari al 75% del loro importo i compensi per prestazioni di lavoro occasionali rese dai titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità, dai giovani con meno di 25 anni di età, dai disoccupati (art. 19 del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 150), nonché dai percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

Il prestatore ha diritto all'assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come regolati dal Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (articoli 7, 8 e 9), nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (art. 3, comma 8, del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81).
I compensi percepiti dal prestatore sono esenti da imposizione fiscale, non incidono sullo stato di disoccupato e sono computabili ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.
Il ricorso alle prestazioni di lavoro occasionali è, però, vietato rispetto a soggetti con i quali l'utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa.

L’art. 54 bis distingue, poi, le prestazioni occasionali rese mediante il sistema del “Libretto Famiglia” dai contratti di prestazione occasionale.
Per quanto attiene al Libretto Famiglia, l’utilizzatore può acquistare, attraverso la piattaforma informatica dedicata dell’INPS, un libretto nominativo prefinanziato per il pagamento delle prestazioni occasionali rese a suo favore da uno o più prestatori nell'ambito di: piccoli lavori domestici, compresi lavori di giardinaggio, di pulizia o di manutenzione; assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità; insegnamento privato supplementare; le attività svolte "steward" negli impianti sportivi, come da Decreto del Ministro dell'Interno 8 agosto 2007, limitatamente alle società sportive. Inoltre, mediante il Libretto Famiglia viene anche erogato il contributo per l'acquisto di servizi di baby-sitting, oppure per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati.
Ciascun Libretto Famiglia contiene titoli di pagamento, il cui valore nominale è pari a 10 euro, utilizzabili per compensare prestazioni di durata non superiore a un'ora. I contributi previdenziali e assicurativi, per ciascun titolo di pagamento erogato, sono interamente a carico dell'utilizzatore.

Il contratto di prestazione occasionale è il contratto mediante il quale un utilizzatore acquisisce con modalità semplificate prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità, entro i limiti di importo sopra indicati.

Possono fare ricorso a tale contratto: professionisti, lavoratori autonomi, imprenditori, associazioni, fondazioni ed altri enti di natura privata, nonché le amministrazioni pubbliche e le imprese agricole, sebbene con specifiche regolamentazioni.

È vietato il ricorso al contratto di prestazione occasionale:

  • da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato, ad eccezione delle aziende alberghiere e delle strutture ricettive che operano nel settore del turismo che hanno alle proprie dipendenze fino a 8 lavoratori per le attività lavorative rese dai pensionati, giovani con meno di 25 anni di età, disoccupati, percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito;
  • da parte delle imprese del settore agricolo, salvo che per le attività lavorative rese dai pensionati, giovani con meno di 25 anni di età, disoccupati, percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI) ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito;
  • da parte delle imprese dell'edilizia e di settori affini, delle imprese esercenti l'attività di escavazione o lavorazione di materiale lapideo, delle imprese del settore delle miniere, cave e torbiere;
  • nell'ambito dell'esecuzione di appalti di opere o servizi.

Ai fini dell'attivazione del contratto di prestazione occasionale, ciascun utilizzatore deve versare attraverso la piattaforma informatica dell’INPS le somme utilizzabili per compensare le prestazioni.

Quanto al compenso, la misura minima oraria è pari a 9 euro, ad eccezione del settore agricolo per il quale il compenso minimo corrisponde all'importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dalla contrattazione collettiva.
Anche per il contratto di prestazione occasionale gli oneri contributivi previdenziali e assicurativi sono interamente a carico dell'utilizzatore.
Qualora non vengano rispettati il limite economico annuale di 2.500 euro in favore del medesimo utilizzatore oppure la durata complessiva della prestazione di 280 ore nell’arco dello stesso anno civile, salvo che per le pubbliche amministrazioni, il contratto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.
In caso di violazione dell'obbligo di comunicazione all’INPS oppure delle disposizioni che vietano il ricorso al contratto di prestazione occasionale è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 500 a euro 2.500 per ogni prestazione lavorativa giornaliera per cui risulta accertata la violazione.
Si evidenzia, infine, che entro il 31 marzo di ogni anno il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, previo confronto con le parti sociali, trasmette alle Camere una relazione sullo sviluppo delle attività lavorative in questione.

In merito ai presupposti e alle modalità operative di fruizione del Libretto Famiglia e di ricorso al contratto di prestazione occasionale, si segnalano la circolare dell’INPS n. 107/2017, nonché la circolare dell’INPS n. 103/2018

Con l’espressione lavoro autonomo si intendono quelle prestazioni che si concretizzano nel compimento di un’opera o un servizio nei confronti di un committente, dietro corrispettivo e senza vincolo di subordinazione (ad esempio, artigiani, professionisti, consulenti, agenti e rappresentanti di commercio).
L’attuale disciplina è contenuta nella Legge 22 maggio 2017 n. 81 che è intervenuta delineando un quadro definito di tutele e diritti relativi ai rapporti di lavoro autonomo di cui al Titolo III del Codice Civile (articoli 2222-2238), con espressa esclusione degli imprenditori e piccoli imprenditori (art. 2083 codice civile).
Nel prevedere la forma scritta del contratto, la Legge n. 81/2017 disciplina le condotte abusive del committente che rendono inefficaci determinate clausole (art. 3).

In particolare, sono considerate clausole abusive e, quindi, prive di efficacia:

  • quelle che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto;
  • quelle che consentono al committente di recedere dal contratto senza congruo preavviso nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa;
  • quelle mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a 60 giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento.

Parimenti, è ritenuto abusivo il rifiuto da parte del committente di stipulare il contratto in forma scritta.
Al verificarsi di tali condotte o in presenza delle clausole abusive il lavoratore autonomo ha diritto al risarcimento dei danni, anche promuovendo un tentativo di conciliazione mediante gli organismi abilitati.

Si evidenzia, inoltre, l’estensione ai rapporti di lavoro autonomo:

  • del principio del divieto dell’abuso di dipendenza economica (art. 9, Legge 18 giugno 1998, n. 192) da parte del committente, al fine di contrastare uno squilibrio dei diritti e degli obblighi tra le parti del rapporto;
  • delle norme volte al contrasto dei ritardi nel pagamento nelle transazioni commerciali (Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231) che, infatti, trovano applicazione in quanto compatibili anche ai rapporti tra lavoratori autonomi e imprese, tra lavoratori autonomi e pubbliche amministrazioni, nonché tra gli stessi lavoratori autonomi (art. 2).

Quanto agli apporti originali e alle invenzioni del lavoratore autonomo, si ne prevede che quest’ultimo abbia il diritto di utilizzazione economica, salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata (art. 4).

Nell’ottica di favorire i processi di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro, i genitori lavoratori autonomi, anche adottivi o affidatari, iscritti alla Gestione separata, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie possono fruire del congedo parentale per un periodo massimo di 6 mesi entro i primi 3 anni di vita del bambino (art. 8).
Con la Legge 22 maggio 2017, n. 81 è divenuta una misura strutturale la DIS-COLL (Indennità di disoccupazione mensile di cui all’art. 15 del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22), la prestazione erogata dall’INPS a sostegno dei collaboratori coordinati e continuativi, degli assegnisti di ricerca e dottorandi di ricerca con borsa di studio – iscritti in via esclusiva alla Gestione separata, non pensionati e privi di partita IVA – che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione (art. 7).

Infine, dal punto di vista delle politiche attive, è prevista la costituzione di uno sportello unico per il lavoro autonomo presso i centri per l’impiego e gli operatori accreditati all’intermediazione presso cui sono disponibili informazioni sulle opportunità di lavoro nel settore privato e pubblico, nonché sulle agevolazioni di livello nazionale o locale (art 10).
Da ultimo, laLegge di Bilancio 2021 (art. 1, commi 386- 401) ha istituito in via sperimentale, per il triennio 2021-2023, l’indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa (ISCRO), erogata dall’INPS, in favore dei soggetti iscritti alla Gestione separata che esercitano per professione abituale attività di lavoro autonomo.

Il Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, come modificato dal Decreto-legge 3 settembre 2019, n. 101, convertito con modificazioni in Legge 2 novembre 2019, n. 128 prevede norme specifiche a tutela del lavoro svolto mediante piattaforme digitali e in particolare dell’attività lavorativa dei ciclo-fattorini (c.d. riders).
L’attuale disciplina attribuisce ai riders tutele differenziate a seconda che la loro attività sia riconducibile alla nozione generale di etero-organizzazione, di cui all'art. 2 del D.lgs. n. 81/2015, ovvero a quella di lavoro autonomo di cui all'art. 47 bis del medesimo Decreto Legislativo, ferma restando la possibilità che l’attività sia invece qualificabile quale prestazione di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094 del codice civile.

L’ambito applicativo dei due diversi regimi - l’etero organizzazione (art. 2) oppure il lavoro autonomo (art. 47 bis) - viene, peraltro, delineato nella Circolare n. 17 del 19 novembre 2020 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

In particolare, l’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015 definisce come etero-organizzazione quei rapporti di collaborazione che si concretizzano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità esecutive siano organizzate dal committente, anche mediante piattaforme digitali. In tal caso, si estende ai riders la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, salvo che esistano accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che prevedano discipline specifiche sul trattamento economico e normativo.

Tuttavia, il ricorrere degli elementi caratterizzanti l’etero-organizzazione non determina di per sé una riqualificazione del rapporto in termini di lavoro subordinato.

Sul punto, la Circolare n. 7 del 30 ottobre 2020 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha provveduto a chiarire la portata dell’intervento ispettivo con riferimento alle ipotesi di etero-organizzazione, escludendo l’applicazione delle sanzioni previste per la violazione degli obblighi connessi all’instaurazione dei rapporti di lavoro subordinato (ad esempio, la comunicazione preventiva e la consegna della dichiarazione di assunzione).

Qualora, invece, i riders svolgano una prestazione di carattere occasionale, priva dei caratteri richiesti dall'art. 2, si verte nell’ambito del lavoro autonomo e, pertanto, la disciplina di riferimento è quella contenuta negli articoli 47 bis e seguenti del D.lgs. n. 81/2015 (Capo V bis).

Ai lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui attraverso piattaforme digitali il Capo V bis riconosce una serie di diritti, quale livello minimo di tutela.
In tema di compenso, viene demandata alla contrattazione collettiva la definizione di criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell'organizzazione del committente e, in mancanza, la retribuzione non può comunque essere parametrata sulle consegne effettuate, ma deve essere garantito un compenso minimo orario sulla base dei minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti (art. 47 quater, commi 1 e 2).

In ogni caso, ai riders autonomi deve essere garantita un’indennità integrativa, non inferiore al 10%, per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli, come determinata dalla contrattazione collettiva o, in difetto, con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 47 quater, comma 3).

Da ultimo, il Capo V bis del D.lgs. n. 81/2015 riconosce ai riders autonomi:

  • il diritto alla stipula di un contratto formale, posto che le condizioni contrattuali devono essere provate per iscritto (conformemente a quanto stabilito dalla Direttiva UE 2019/1152) (art. 47 ter, comma 1);
  • il diritto a ricevere ogni informazione utile sulle condizioni applicabili al contratto per la tutela dei loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza, con facoltà di rivolgersi alla Direzione Territoriale del Lavoro affinché intimi al committente di fornire le informazioni entro 15 giorni, nonché il diritto a ricevere un’indennità risarcitoria in caso di violazione del requisito di forma (art. 47 ter, comma 2);
  • l’applicazione della disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e della dignità del lavoratore prevista per i lavoratori subordinati, con espressa previsione del divieto di esclusione dalla piattaforma o di riduzione delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione (art. 47 quinquies);
  • la tutela della privacy in conformità a quanto previsto dal Regolamento UE 2016/679 e dal D.lgs. n. 196/2003, come successivamente modificato (art. 47 sexies);
  • la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, con conseguente obbligo della piattaforma a provvedere a tutti gli adempimenti del datore di lavoro previsti dal D.P.R. n. 1124/1965 e a garantire il rispetto delle norme in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro di cui al D.lgs. n. 81/2008 (art. 47 septies).

Il Decreto Legislativo istituisce, infine, un osservatorio permanente presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, presieduto dal Ministro o da un suo delegato e composto da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (art. 47 octies).

Come previsto dall’art. 11 del D.L. 22 aprile 2021, n. 52 (c.d. Decreto Riaperture), fino al 31 luglio 2021, le modalità di comunicazione del lavoro agile restano quelle previste dall'art. 90, commi 3 e 4, del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in L. n. 77 del 17 luglio 2020, n. 77, utilizzando la procedura semplificata già in uso (per la quale non è necessario allegare alcun accordo con il lavoratore), con modulistica e applicativo informatico resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Ed infatti, deve essere richiamato che, nell’ambito delle misure adottate dal Governo per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha emanato il 1° marzo 2020 il Decreto che interviene sulle modalità di accesso allo smart working, confermate poi dalle successive disposizioni introdotte per far fronte all'emergenza.
Anche il DPCM del 2 marzo 2021 raccomanda il massimo utilizzo della modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza.

Accedi alla procedura telematica semplificata per il caricamento massivo delle comunicazioni di smart working ai sensi del DPCM del primo marzo 2020.
Conciliare, innovare e competere.
Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all’organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.
Il concetto di lavoro agile – o smart working - ricomprende molteplici aspetti. Si passa dalla flessibilità dell’orario e del luogo della prestazione lavorativa fino a forme di welfare aziendale per facilitare i lavoratori genitori o impegnati in forme di assistenza parentale.

Con la Legge n. 81/2017 c’è per la prima volta un quadro normativo definito.
La norma fornisce una definizione del lavoro agile nell’ambito del lavoro subordinato, che comprende tutte le forme di svolgimento della prestazione flessibili rispetto all’orario e al luogo. Parte integrante del lavoro agile sono gli strumenti tecnologici che vengono forniti dal datore di lavoro, il quale ne garantisce anche il buon funzionamento.

Per l’adozione dello smart working è necessario un accordo scritto tra datore di lavoro e dipendente, il quale dovrà essere inviato telematicamente a partire dal 15 novembre 2017.
La Legge n. 81/2017 conferma quindi l’elemento della volontarietà tra le parti e stabilisce i suoi contenuti minimi:

  • Durata. L’accordo può essere a tempo indeterminato o determinato.
  • Preavviso. Il recesso è possibile con un preavviso di almeno 30 giorni (90 per i lavoratori disabili) per gli accordi a tempo indeterminato o in presenza di un giustificato motivo.
  • Come e quando. L’accordo deve contenere la disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, con particolare riguardo agli strumenti tecnologici utilizzati e al rispetto del diritto alla disconnessione per il lavoratore.
  • Potere di controllo e disciplinare. Nell’accordo devono essere illustrate le modalità di controllo della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, tenendo conto dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Un elemento essenziale della norma è la parità di trattamento degli smart workers rispetto ai loro colleghi. Il trattamento normativo e retributivo deve essere il medesimo, come l’adozione delle adeguate norme di sicurezza.
In particolare, per quanto riguardo l’orario di lavoro, di fianco al riconoscimento del diritto alla disconnessione, la norma riconosce come inviolabili i limiti di orario previsti dalla normativa vigente e dalla contrattazione collettiva.
I lavoratori “agili” hanno, inoltre, diritto alla tutela prevista in caso di infortuni e malattie professionali anche per quelle prestazioni rese all’esterno dei locali aziendali e nel tragitto tra l’abitazione ed il luogo prescelto per svolgere la propria attività. Su questi aspetti, l'INAIL ha fornito le prime istruzioni operative nella circolare n.48/2017.
Dopo la Legge di Bilancio 2019, è riconosciuta una priorità alle richieste di lavoro agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità e dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità.
Come anticipato, dal 15 novembre 2017 i datori di lavoro che stipulano intese per il lavoro agile devono inviare telematicamente l’accordo individuale.

Pausa pranzo: cosa dice la normativa

La pausa pranzo è stata un’importante conquista nella storia del welfare aziendale e continua a rappresentare un aspetto particolarmente rilevante per il benessere e la soddisfazione generale dei lavoratori di piccole e grandi imprese.

Quali sono le alternative previste dalla legge per la pausa pranzo? E come vengono trattate fiscalmente?

 

Le alternative in pausa pranzo previste dalla normativa

La disciplina della pausa pranzo aziendale è regolata dall’articolo 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) e prevede diverse tipologie e relativi trattamenti fiscali.
Da un punto di vista operativo il datore di lavoro può organizzare la somministrazione della pausa pranzo dei propri dipendenti secondo le seguenti modalità:

  • Gestione diretta o tramite terzi di una mensa aziendale
  • Stipula di convenzioni con pubblici esercizi attraverso la mensa diffusa
  • Buoni Pasto (o Ticket Restaurant®) come servizi sostitutivi di mense aziendali
  • Indennità sostitutiva di mensa.

Scegliere una tipologia piuttosto che un’altra comporta sostanziali differenze da un punto di vista gestionale, amministrativo e soprattutto fiscale. E’ importante ricordare, inoltre, che il datore di lavoro può scegliere di adottare contemporaneamente più sistemi, a condizione che la prestazione in questione interessi la generalità dei lavoratori o categorie omogenee di essi.

 

Mensa aziendale o interaziendale

L’azienda può decidere di erogare il servizio mensa:

  • in maniera diretta
  • con l’affidamento in appalto a terzi della gestione della mensa aziendale
  • attraverso l’organizzazione di mense interaziendali.

Infatti, sulla base di quanto espresso dall’Agenzia delle Entrate con le circolari n. 3 del 19 gennaio 1980, n. 9 del 14 febbraio 1980 e n. 25 del 13 giugno 1980, e come richiamate nella Risoluzione della stessa amministrazione n. 202 /E del 20 giugno 2002, per mense aziendali si intendono sia quelle effettuate direttamente dall’azienda che quelle la cui gestione è data in appalto ad un’impresa specializzata, con “l’obbligo assunto dall’appaltatore di fornire la prestazione esclusivamente a dipendenti del soggetto appaltante.”

La mensa aziendale non concorre in alcun modo alla formazione di reddito da lavoro dipendente.

 

Mensa diffusa

La mensa diffusa è un servizio a disposizione delle aziende che si basa, come suggerisce il nome stesso, sul concetto di mensa aziendale che però avviene in modo diffuso, ovvero tramite una rete di ristoranti e locali convenzionati.

La Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 63 /E del 17 maggio 2005 ha specificato che anche gli esercizi pubblici sono qualificati come mense aziendali limitatamente alle prestazioni di somministrazione di alimenti e bevande realizzate sulla base di specifiche convenzioni con i datori di lavoro. Essendo, quindi, il concetto di mensa diffusa assimilabile a quello di mensa aziendale, ne garantisce anche lo stesso trattamento fiscalenon concorre alla formazione di reddito, senza alcuna soglia di esenzione.

 

Buoni Pasto come sostitutivi di mensa

Il buono pasto o Ticket Restaurant (marchio registrato) è un titolo di pagamento dal valore predeterminato (stabilito dal datore di lavoro) che l’azienda consegna ai propri dipendenti come servizio sostitutivo della mensa. I buoni pasto devono essere utilizzati per le  somministrazioni di alimenti e bevande effettuate da pubblici esercizi o per l’acquisto di prodotti di gastronomia presso attività autorizzate.

Come spiegato dal TUIR e a seguito della nuova Legge di Bilancio 2020, i buoni pasto non concorrono alla formazione del reddito sino alla soglia di esenzione di 4€ per i buoni cartacei, di 8€ per i buoni elettronici.

 

Indennità sostitutiva di mensa

L’indennità sostitutiva di mensa è un corrispettivo in denaro integrato nella busta paga ordinaria dovuta al collaboratore part-time e a tempo pieno.

L’indennità sostitutiva di mensa, essendo erogata in busta paga a integrazione della retribuzione dovuta al collaboratore, è interamente soggetta a tassazione e va a costituire l’imponibile contributivo e fiscale. Come previsto dal TUIR, fanno eccezione solamente le indennità dovute agli addetti alle strutture lavorative a carattere temporaneo (come gli addetti ai cantieri edili) o ai collaboratori impiegati presso unità produttive ubicate in zone dove manchino servizi di ristorazione. Solo questi casi particolari sono esenti dalla tassazione fino ad un limite massimo di 5,29€ al giorno.

Ai sensi dell’art. 30 delDecreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il distacco del lavoratore si configura quando il datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa.

L’istituto del distacco non determina il sorgere di un nuovo rapporto con il terzo beneficiario della prestazione, ma produce l’effetto di modificare le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa rispetto a quanto convenuto dalle parti nell’originario contratto di lavoro (si veda al riguardo la risposta all’Interpello n. 1/2011).

Come precisato nella Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 15 gennaio 2004, n. 3 e nella risposta all’Interpello n. 1/2011, I requisiti di legittimità del distacco sono:

  • l'interesse del distaccante: deve essere specifico, rilevante, concreto e persistere per tutta la durata del distacco, da accertare caso per caso, in base alla natura dell’attività espletata e non semplicemente in relazione all’oggetto sociale dell’impresa. Può trattarsi di qualsiasi interesse produttivo del distaccante, anche di carattere non economico, che, tuttavia, non può consistere in un mero interesse al corrispettivo per la fornitura di lavoro altrui, che caratterizza, invece, la diversa fattispecie della somministrazione di lavoro (si veda, in proposito, anche la Circolare n. 28/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali);
  • la temporaneità: il distacco deve necessariamente essere temporaneo. Tale previsione non incide sulla durata del distacco, che può anche essere non breve, purché non coincidente con tutta la durata del rapporto di lavoro;
  • lo svolgimento di una determinata attività lavorativa: il lavoratore distaccato deve essere adibito ad attività specifiche e funzionali al soddisfacimento dell’interesse proprio del distaccante. Ne consegue che il provvedimento di distacco non può risolversi in una messa a disposizione del proprio personale in maniera generica e, quindi, senza predeterminazione di mansioni.

Qualora il distacco avvenga in violazione delle condizioni generali sopra indicate il lavoratore interessato può chiedere, con ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, il datore di lavoro presso cui è stato distaccato.

Con la risposta all’Interpello n. 1/2011 è stato, peraltro, evidenziato che il distacco è ammissibile anche quando lo svolgimento della prestazione lavorativa avvenga in un luogo diverso dalla sede del distaccatario. In altri termini, la dislocazione del lavoratore presso la sede dell’impresa distaccataria, pur rappresentando l’ipotesi statisticamente più ricorrente, non costituisce un elemento necessario per il corretto utilizzo dell’istituto.

Quanto agli oneri relativi al trattamento economico e normativo del lavoratore in distacco, la normativa prevede che questi restino, comunque, a carico del datore di lavoro distaccante. Nondimeno, nella Circolare n. 3/2004 si dà atto di come nella prassi il rimborso al distaccante della spesa del trattamento economico non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento della genuinità del distacco. In ultima analisi, posto che il lavoratore distaccato svolge la prestazione non solo nell'interesse del distaccante ma anche nell'interesse del distaccatario, la possibilità di ammettere il rimborso rende più lineare e trasparente anche l'imputazione reale dei costi sostenuti da ogni soggetto del rapporto.

Il Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 prevede, poi, determinati presupposti di validità del distacco in specifiche ipotesi, cioè:

  • il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;
  • il distacco che comporti un trasferimento ad un’unità produttiva situata a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

Inoltre, il Decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito con modificazioni in Legge 9 agosto 2013, n. 99, ha introdotto all’art. 30 una particolare previsione nel caso in cui il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di imprese ai sensi del Decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni in Legge 9 aprile 2009, n. 33.
In particolare, in tali ipotesi, la norma prevede che l'interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell'operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall'art. 2103 del codice civile. Peraltro, per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso.

A tal riguardo, la Circolare 29 agosto 2013, n. 35 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha chiarito che, ai fini della verifica dei presupposti di legittimità del distacco, è sufficiente l’esistenza di un contratto di rete tra distaccante e distaccatario. Quanto alla codatorialità, si evidenzia che, in relazione a tale personale, il potere direttivo potrà essere esercitato da ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete.
Si segnala sul punto la anche Circolare 29 marzo 2018, n. 7 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) che illustra specificatamente le caratteristiche del distacco nell’ambito del contratto di rete di imprese.

Da ultimo, per quanto attiene al distacco dell’apprendista, sebbene non vi sia un divieto normativo, si pone la necessità di contemperare l’interesse del distaccante con il prevalente interesse dell’apprendista a vedere rispettati gli impegni assunti nei suoi confronti e il suo inserimento nel contesto produttivo del datore di lavoro (si veda sul punto la Nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 17 gennaio 2019). Per tale ragione, anche nel contesto produttivo del distaccatario, deve essere prevista la presenza del tutor, verificando puntualmente l’effettivo esercizio dei compiti a lui attribuiti dalla contrattazione collettiva, per garantire che il periodo del distacco risulti utile e coerente al percorso formativo dell’apprendista definito all’atto dell’assunzione. Conseguentemente, in base al principio di temporaneità del distacco, è necessario che l’inserimento dell’apprendista distaccato in un contesto produttivo e organizzativo diverso da quello per il quale è stato assunto, abbia durata limitata e contenuta rispetto al complessivo periodo di apprendistato.

Adempimenti

Il distacco del lavoratore è oggetto di comunicazione obbligatoria online (Decreto Interministeriale 30 ottobre 2007). Deve essere comunicato dal datore di lavoro distaccante utilizzando il Modulo Unilav – quadro Trasformazione - entro 5 giorni dal verificarsi dell’evento, come indicato nella Circolare del Ministero del Lavoro 21 dicembre 2007 n.8371. La comunicazione deve essere inviata anche se si tratti di distacco parziale o distacco presso azienda estera.

La tutela previdenziale, assistenziale e sanitaria dei lavoratori è garantita anche quando la loro attività lavorativa si svolge all’estero. Ciò avviene attraverso i regolamenti dell’Unione Europea e le Convenzioni internazionali che l’Italia ha stipulato con alcuni Paesi extracomunitari, o in assenza di queste, attraverso la normativa nazionale contenuta nella legge 398/1987.

Lavorare nell’Unione Europea
In quanto cittadino europeo, hai il diritto di lavorare per un datore di lavoro o come lavoratore autonomo in qualsiasi paese dell'UE senza bisogno di un permesso di lavoro.

Lavoratori frontalieri
Se lavori in un paese dell'UE e vivi in un altro paese e ci torni ogni giorno, o almeno una volta a settimana, vieni considerato un pendolare transfrontaliero in base alla normativa europea (o frontaliero). Le prestazioni economiche ti saranno erogate dall’Istituzione del Paese dove lavori. Le prestazioni in natura possono essere erogate anche nel Paese dove risiedi.

Lavoratori marittimi
Se svolgi attività subordinata o autonoma svolta a bordo di una nave che batte bandiera di uno Stato membro sei destinatario della normativa di tale Stato.
Se eserciti un’attività su una nave battente bandiera di uno Stato membro, ma sei retribuito per la tua attività da un’impresa con sede in un altro Stato membro diverso da quello della nave battente bandiera, sarai assicurato presso lo Stato ove ha sede l’impresa se in tale Stato hai la tua residenza.

Le prestazioni per i lavoratori migranti

  • Le prestazioni economiche ai lavoratori migranti all’interno dell’Unione Europea sono pagate dall’Inail, quale istituzione competente per i lavoratori assicurati presso l’Ente (a meno che non siano stati sottoscritti accordi o convenzioni che disciplinano diversamente).
  • Le prestazioni sanitarie, sono erogate:
    • dall’istituzione dello Stato membro presso il quale il lavoratore ha la propria residenza o dimora, per cui se il lavoratore è assicurato presso l’Inail, gli accertamenti medico legali e le prestazioni sanitarie (quali protesi, ausili ortopedici e altri dispositivi particolari) sono a carico dell'Istituto in qualità di istituzione competente
    • dall’istituzione dello Stato membro di residenza o di dimora per conto dell’istituzione competente, se il lavoratore risiede o dimora in uno Stato diverso da quello presso il quale è assicurato.

Lavoratori migranti in Italia assicurati in altro Stato membro
I lavoratori che si trovano e soggiornano in Italia per motivi di lavoro e sono assicurati presso altro Stato membro, o che risiedono in Italia ma ricevono prestazioni di natura economica per infortunio sul lavoro o malattia professionale dall’Istituzione competente di altro Stato all’interno della Unione Europea, ricevono le prestazioni sanitarie e in natura, cui hanno diritto, dietro presentazione del modulo PD DA1 o modulo SED DA001 redatto dall’Istituzione del Paese all’interno dell’Unione Europea di provenienza.

Prevenzione e sicurezza

L’Inail svolge attività di prevenzione dei rischi lavorativi, di informazione, di formazione e assistenza in materia di sicurezza e salute sul lavoro. Per contribuire alla riduzione degli infortuni e per far crescere nel Paese una vera e propria cultura della sicurezza, l’Istituto realizza e promuove la costante evoluzione di un sistema integrato di tutela del lavoratore e di sostegno alle imprese, efficiente e innovativo, capace di offrire strumenti mirati e accessibili a tutti.
 
La strategia della prevenzione
La collaborazione continua tra le forze in campo insieme a una programmazione e pianificazione delle politiche di prevenzione e sicurezza sul lavoro garantisce tempestività, qualità e omogeneità dell’azione prevenzionale. L’Inail è al centro di un modello partecipativo che coinvolge le istituzioni, le parti sociali, gli altri enti e organismi operanti nel settore, opera per favorire una significativa riduzione del costo umano ed economico che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali hanno per i singoli lavoratori, per le imprese e per il sistema produttivo del Paese.
 
Informazione
L’Inail contribuisce a divulgare le conoscenze nel campo della sicurezza e salute sul lavoro anche attraverso la realizzazione di convegni, seminari e workshop su tematiche generali e specifiche, la promozione di studi e ricerche sia sulle dinamiche del fenomeno infortunistico in generale sia su specifiche aree di rischio, la realizzazione e distribuzione di pubblicazioni, audiovisivi e software disponibili gratuitamente o con il pagamento di un contributo spese per chiunque ne faccia richiesta. 
 
I sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (Sgsl)
Sono sistemi organizzativi che integrano obiettivi e politiche per la salute e sicurezza nella gestione di sistemi di lavoro e produzione di beni e servizi. Rispondono alla necessità di individuare, all’interno della struttura organizzativa aziendale, le responsabilità, le procedure, i processi e le risorse per la realizzazione della politica aziendale di prevenzione, nel rispetto delle norme di salute e sicurezza vigenti. Adottare efficacemente un Sgsl consente di accedere alla richiesta di riduzione del tasso di premio da corrispondere all’Inail e usufruire dell'esonero dalla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni (come previsto dall’art. 30 del d.lgs. 81/2008).

Attività sanitaria
Attraverso la collaborazione con i rappresentati dei lavoratori, dei datori di lavoro, dei ministeri del Lavoro e della Salute, del Servizio sanitario nazionale e delle Regioni, l'Inail promuove e gestisce direttamente le attività di formazione e aggiornamento delle varie figure professionali all'interno e all'esterno dell'Istituto.
L’Inail è, inoltre, componente del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (Sinp) e garantisce la gestione tecnica e informatica del Sinp e, a tal fine, è titolare del trattamento dei dati.
Il Sinp è costituito dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali, della Salute, dell’Interno, dalle Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, dall’Inail, con il contributo del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel).

Normativa di riferimento

Il testo di riferimento alla base della tutela della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro è il Decreto legislativo numero 81 del 9 aprile 2008 e successive modificazioni ed integrazioni.

Al fine di monitorare l’evoluzione della produzione legislativa e dell’elaborazione giurisprudenziale nazionale, comunitaria e regionale, di merito e di legittimità, in tema di sicurezza sul lavoro, nel 2006 nasce Olympus.

L'osservatorio permanente, voluto dall’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, della Regione Marche e dall’Inail - Direzione regionale per le Marche in logiche di coordinamento e sinergie ha come obiettivo non solo quello di supportare l’attività di ricerca scientifica e didattica universitaria e post-universitaria, ma anche di realizzare uno strumento particolarmente efficace e qualificato in grado di coadiuvare tutti coloro che a vario titolo operano nel settore della prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Assicurazione

L’Inail tutela il lavoratore contro i danni fisici ed economici derivanti da infortuni causati dall’attività lavorativa e malattie professionali.
Con l’assicurazione il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile conseguente all’evento lesivo subìto dai propri dipendenti, salvo i casi in cui, in sede penale o - se occorre - in sede civile, sia riconosciuta la sua responsabilità per reato commesso con violazione delle norme di prevenzione e igiene sul lavoro.
All’assicurazione sono tenuti tutti i datori di lavoro che occupano lavoratori dipendenti e lavoratori parasubordinati nelle attività che la legge individua come rischiose. Gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura sono tenuti ad assicurare anche se stessi.
Vi è obbligo assicurativo se sono compresenti due requisiti:

  • oggettivi, ossia le attività rischiose previste dall'art. 1 del testo unico (decreto del Presidente della Repubblica 1124/1965)
  • soggettivi, ossia i soggetti assicurati richiamati nell'art. 4 dello stesso testo unico

Sono tutelati dall’Inail tutti coloro che, addetti ad attività rischiose, svolgono un lavoro comunque retribuito alle dipendenze di un datore di lavoro, compresi i sovrintendenti ai lavori, i soci di società e cooperative, i medici esposti a Rx, gli apprendisti, i dipendenti che lavorano a computer e registratori di cassa e  anche i soggetti appartenenti all'area dirigenziale e gli sportivi professionisti dipendenti.
Sono inoltre tutelati gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura e i lavoratori parasubordinati che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa.
Per quanto riguarda la navigazione e la pesca, sono compresi nell'assicurazione i componenti dell'equipaggio, comunque retribuiti, delle navi o galleggianti anche se esercitati a scopo di diporto.
L’evoluzione dei processi lavorativi e la costante introduzione di tecnologie sempre più avanzate ha imposto l’estensione dell’obbligo assicurativo Inail a quasi tutte le attività della produzione e dei servizi.

Le tipologie di attività rischiose sono suddivise in due grandi gruppi:

  • le attività svolte attraverso l’utilizzo di macchine, apparecchi e impianti a pressione, elettrici e termici oppure svolte in laboratori e ambienti organizzati per lavori e per la produzione di opere e servizi che comportino l’impiego di dette macchine, apparecchi o impianti. L’obbligo sussiste anche se l’uso di macchine, apparecchi o impianti avviene in via transitoria, per dimostrazione, per esperimento o non è attinente all’attività esercitata e permane indipendentemente dalla grandezza e dalla potenza delle macchine stesse. Nell’assicurazione sono comprese le lavorazioni complementari e sussidiarie, anche se svolte in locali diversi e separati da quelli in cui si svolge la lavorazione principale.
  •  le attività elencate dall'art. 1 del testo unico che, per loro natura, presentano un elevato grado di pericolosità anche se svolte senza l’ausilio di macchine, apparecchi e impianti per le quali c'è una presunzione assoluta di rischio, ad esempio: lavori edili e stradali, esercizio di magazzini e depositi, nettezza urbana, vigilanza privata, trasporti, allestimento, prova o esecuzione di pubblici spettacoli, etc..

La trasferta consiste in uno spostamento provvisorio del lavoratore dalla normale sede di lavoro ad altro luogo di lavoro.

La trasferta differisce dal trasferimento per la temporaneità dello spostamento, legato ad un’esigenza del datore di lavoro circoscritta nel tempo.

In assenza di una disciplina legale, della trasferta si occupano solamente i contratti collettivi, regolandone, in particolare, i risvolti di carattere economico.

Al lavoratore inviato in trasferta viene riconosciuto dai contratti collettivi il diritto all’indennità di trasferta, che può avere natura retributiva, risarcitoria o “mista”: nel primo caso le somme erogate a favore del lavoratore rientrano integralmente nella base di calcolo del TFR e della tredicesima.

  

Scheda di approfondimento

Il luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere la propria prestazione è normalmente determinato dalle disposizioni del contratto individuale di lavoro, che, implicitamente o attraverso una specifica indicazione, assegnano il lavoratore ad una certa unità produttiva, territorialmente definita.

Una delle espressioni del potere direttivo del datore di lavoro è, però, la sua facoltà, a certe condizioni, di variare il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, attraverso il trasferimento del lavoratore oppure attraverso l’invio del lavoratore in trasferta.
Per questo motivo si parla di una tendenziale “mobilità del lavoratore”, non solo rispetto alle mansioni – il datore di lavoro ha, infatti, il potere di adibire il lavoratore a mansioni diverse, con l’unico limite del divieto di assegnare al lavoratore mansioni di inferiore contenuto professionale –, ma anche in senso territoriale.

Lo spostamento territoriale del lavoratore può essere temporaneo, nel caso di trasferta, e tendenzialmente definitivo, nel caso di trasferimento.

Alla luce di quanto detto circa la differenza fondamentale tra la temporaneità della trasferta e la tendenziale stabilità del trasferimento, si può capire come le maggiori esigenze di tutela del lavoratore si pongano rispetto a quest’ultimo, che non di rado viene utilizzato dal datore di lavoro quale strumento alternativo al licenziamento per liberarsi di un lavoratore non più gradito: l’art. 2103 c.c. stabilisce, infatti, che il trasferimento possa essere disposto solo a fronte di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, in assenza delle quali il provvedimento deve considerarsi, dunque, illegittimo.
Diversamente, non è dato trovare una disciplina legislativa della trasferta, di cui normalmente si occupano, però, le disposizioni dei contratti collettivi, con particolare attenzione ai suoi profili economici, legati in particolare alla natura e alla quantificazione dell’ “indennità di trasferta”.

In assenza di una definizione legale, la giurisprudenza considera trasferta (o missione) lo spostamento del lavoratore in un luogo diverso da quello dove egli esegue normalmente la propria attività. In ogni caso, si tratta di uno spostamento provvisorio e temporaneo, la cui durata dipende dall’esaurimento dello scopo per il quale lo spostamento è stato disposto da parte del datore di lavoro.
Normalmente i contratti collettivi disciplinano esaurientemente la trasferta, talvolta prevedendone anche i limiti.
In ogni caso, la giurisprudenza attribuisce fondamentale importanza all’elemento della temporaneità, che caratterizza la trasferta. Di conseguenza, il provvedimento del datore di lavoro, pur qualificandosi formalmente come “trasferta”, deve essere considerato alla stregua di un trasferimento se non contiene l’indicazione di una precisa data di rientro, o se omette del tutto tale indicazione (v. Cass. 26/1/1989, n. 475).

In ogni caso, a differenza del trasferimento, il lavoratore inviato in trasferta ha l’assoluta certezza del rientro all’unità di partenza.
Proprio per quest’ultimo aspetto, parte della giurisprudenza ritiene che, nel caso della trasferta, il lavoratore mantenga “un permanente legame con l’originario luogo di lavoro, restando irrilevanti, a tal fine, la protrazione dello spostamento per un lungo periodo di tempo e la eventuale coincidenza del luogo di trasferta con quello di un successivo trasferimento” (Cass. 21/3/2006, n. 6240, in Lav. nella giur., 2006, 912).
Secondo quest’ultimo orientamento, dunque, l’elemento essenziale della trasferta è il permanere del legame con il luogo di lavoro originario, rimanendo l’elemento temporale escluso da ogni valutazione: in un caso, la Cassazione (Cass. 19/11/2001, n. 14470), chiamata a pronunciarsi sul caso di un lavoratore inizialmente inviato in trasferta presso una diversa sede e successivamente ivi trasferito, ha escluso il diritto di quest’ultimo all’indennità di trasferta, dal momento che, già con il provvedimento iniziale di invio in trasferta, egli “aveva perso il legame funzionale con il suo normale luogo di lavoro”, aggiungendo che “non è il limite temporale a caratterizzare la trasferta”.

Essendo, come visto, la trasferta caratterizzata, ad avviso della giurisprudenza prevalente, da uno spostamento solo temporaneo, il potere del datore di lavoro di inviare il lavoratore in trasferta “prescinde dall’espressa disponibilità da parte del lavoratore, e dal fatto che, nel luogo di assegnazione, il lavoratore svolga mansioni identiche a quelle espletate presso l’abituale sede di lavoro” (Cass. 27/11/2002, n. 16812, in Lav. nella giur., 2003, 382), ben potendo, evidentemente, essere assegnato a mansioni diverse, con il solo limite dell’equivalenza delle mansioni dal punto di vista professionale, di cui si è già fatto cenno.

A tal proposito, va sottolineato che la giurisprudenza considera il rifiuto della trasferta come un atto di insubordinazione del lavoratore, cui può conseguire il licenziamento: si segnala, sul punto, quanto affermato da una pronuncia della Pretura di Milano (Pret. Milano 30 marzo 1999–Est. Atanasio, inedita; analogamente in Trib. Milano 26 marzo 1994–Pres. Mannaccio, inedita), che ha ritenuto “legittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuti la disposizione aziendale di recarsi in trasferta per un periodo di 4 mesi; tali legittimità, peraltro, esige – non potendo essere applicabile alla trasferta la norma di cui all’art. 2103 c.c. – una verifica della fondatezza delle esigenze che sono alla base di una decisione aziendale che ha immediati effetti anche sulla vita di relazione del lavoratore”.
E’, dunque, sconsigliabile che un lavoratore, in assenza di una sentenza del giudice che ne accerti la illegittimità, rifiuti di dare esecuzione al provvedimento di trasferta.

L’indennità di trasferta

I contratti collettivi normalmente prevedono il diritto del lavoratore inviato in trasferta all’indennità di trasferta.

La disciplina collettiva attribuisce a tale emolumento in alcuni casi natura retributiva, in altri risarcitoria (o di rimborso spese), o, infine, natura “mista”.
Non essendoci, come detto, una disciplina legislativa generale sulla trasferta o sulla relativa indennità, si rende necessario caso per caso vagliare ciò che le disposizioni dei singoli contratti collettivi prevedono a riguardo, prestando particolare attenzione ai principi elaborati dalla giurisprudenza.

La differenza tra la natura retributiva o risarcitoria dell’indennità di trasferta non è di poco conto, dal momento che la legge – art. 51, c. 5 e 6 del D.P.R. n. 917/86 – prevede un diverso trattamento fiscale e contributivo da applicare alle somme corrisposte ai lavoratori inviati in trasferta, a seconda che si tratti di compensi o rimborsi spese.
Infatti, nel caso in cui l’indennità in questione abbia natura retributiva, le somme erogate a favore del lavoratore andranno “incluse nella base di calcolo dell’indennità di anzianità ex artt. 2120 e 2121 c.c.” (Cass. 30/10/2002, n. 15360, in Lav. nella giur., 2003, 273): a tal proposito, la giurisprudenza ha stabilito che “l’indennità di trasferta, quando costituisce una stabile componente della retribuzione, è un elemento retributivo computabile nella retribuzione annua ai fini del TFR” (Cass. 24 febbraio 1993, n. 2255).
Inoltre, “qualora si tratti di “diaria” corrisposta in maniera fissa a fini retributivi, gli importi erogati saranno computati nel calcolo della 13ª mensilità per il 50% del loro ammontare” (Trib. Milano, 18 febbraio 1989, inedita).

Qualora le disposizioni del contratto collettivo non fossero sufficientemente precise riguardo la natura dell’indennità di trasferta, si rende necessario l’intervento del giudice, che, a titolo meramente esemplificativo, nel caso dell’indennità di trasferta prevista a favore degli ufficiali giudiziari per gli atti compiuti fuori dall’edificio ove l’ufficio ha sede, ha stabilito che tale indennità “ha natura retributiva e non di mero rimborso spese, e, pertanto, è soggetta a Irpef” (Cass. 12 marzo 2004, n. 5078, in Giust. civ., 2005, 471).

La giurisprudenza dominante ritiene che la valutazione in merito alla natura dell’indennità in questione “deve essere compiuta caso per caso, verificando in concreto la volontà delle parti” (Cass. 16 maggio 1984, n. 3012). Si segnala, sul punto, quanto affermato dal Tribunale di Genova (Trib. Genova 16 ottobre 2001, in D&L, 2002, 172), secondo cui “allorquando con il termine trasferta si intenda indicare il corrispettivo della maggiore onerosità delle prestazioni rese fuori sede, il relativo emolumento ha natura esclusivamente retributiva”, potendo ciò essere dedotto anche attraverso la presenza di “indizi, quali la determinazione a forfait o il pagamento a cadenza fissa pur in presenza di trasferte variabili ecc…; qualora, diversamente, vi siano elementi che indichino una natura parzialmente retributiva, la distinzione delle quote retributiva e risarcitoria deve essere effettuata in via equitativa, assumendo come riferimento la quota del 50%”.

Diversamente, qualora il datore di lavoro intenda solo indennizzare il lavoratore delle spese sostenute, l’indennità avrà semplice natura di rimborso spese e null’altro sarà dovuto al lavoratore se non il ristoro di quanto speso.
A tal proposito si osserva come, anche in quest’ultimo caso, “al lavoratore che sia inviato in missione in località diversa da quella in cui si trova l’abituale sede di lavoro spetta l’indennità di trasferta anche nel caso in cui detta località coincida con la sua residenza anagrafica, peraltro molto distante dal luogo di abitazione abituale effettiva” (Cass. 8 aprile 2000, n. 4482, in Riv. it. dir. lav., 2001, 59).

Un efficace esempio di come alcuni contratti collettivi abbiano attribuito all’indennità di trasferta natura di rimborso spese lo si riscontra nelle disposizioni del CCNL Metalmeccanici, fatto oggetto di rinnovo nel gennaio 2008.
Il principio fondamentale, comune alle disposizioni di tutti i contratti collettivi in materia, è che il lavoratore inviato in trasferta non debba in alcun modo subire un pregiudizio economico derivante dal solo fatto di essere inviato in trasferta; stabilisce, però, il CCNL Metalmeccanici, che il lavoratore in trasferta non ha alcun diritto a vedersi riconosciuto un compenso aggiuntivo, ma ha diritto solo al rimborso integrale delle spese sostenute.

In base alle disposizioni del CCNL Metalmeccanici, l’indennità di trasferta, calcolata forfetariamente in un importo giornaliero di euro 37,50, può essere sostituita da un rimborso integrale delle spese effettivamente sostenute (rimborso a piè di lista). A ciò va, poi, aggiunta la corresponsione, a certe condizioni, di un’indennità per i pasti e per il pernottamento presso il luogo di destinazione.
Peraltro, si segnala che, in ossequio al principio sopra enunciato, il CCNL Metalmeccanici prevede che “le spese per i mezzi di trasporto saranno anticipate dall’azienda unitamente al vitto”, e che “ai lavoratori saranno corrisposti adeguati anticipi sulle prevedibili spese di viaggio e pernottamento”.

Regime di imponibilità fiscale dell’indennità di trasferta

Per quanto riguarda gli aspetti fiscali dell’indennità di trasferta, si segnala che l’art. 51, comma 5 DPR 917/1986 stabilisce un regime diverso a seconda del luogo in cui la trasferta viene effettuata e della natura dell’indennità corrisposta al lavoratore.
Come visto, infatti, l’attività svolta in trasferta può essere compensata mediante un rimborso analitico delle spese sostenute dal lavoratore, un rimborso forfettario, o con un’indennità forfettaria alla quale si aggiunge un rimborso analitico.

  • Nel caso di rimborso analitico, qualora la trasferta avvenga nel comune della sede di lavoro i rimborsi sono imponibili salvo che si riferiscano a spese di trasporto comprovate da documenti di viaggio (es. tram, taxi ecc..); nel caso la trasferta avvenga fuori dal territorio comunale, i rimborsi sono esenti se documentati e riferiti a spese di vitto, alloggio, viaggio o di trasporto, mentre le ulteriori spese, anche se non documentate, sono esenti fino all’importo giornaliero di € 25,82, purché analiticamente attestate dal dipendente.
  • Nel caso di indennità forfettaria, i rimborsi per le trasferte all’interno del comune della sede di lavoro sono interamente imponibili, mentre le trasferte fuori dal territorio comunale sono esenti fino a € 46,48 giornalieri, al netto delle spese di viaggio e di trasporto.
  • Nel caso di indennità “mista”, infine, qualora la trasferta avvenga all’interno del territorio comunale i rimborsi sono interamente imponibili, ad eccezione dei rimborsi delle spese di viaggio comprovate da documenti rilasciati dal vettore (tram, taxi ecc…); qualora, invece, la trasferta avvenga al di fuori del territorio comunale, l’indennità rimane esente fino a € 46,48 giornalieri, salva la non imponibilità di tutte le spese documentate riferibili a spese di vitto, alloggio, viaggio o trasporto.

La trasferta all’estero

Nel caso di invio del lavoratore in trasferta all’estero, viene spesso concordato tra datore di lavoro e dipendente un particolare compenso, diretto a remunerare il particolare disagio personale e familiare che il viaggio comporta: infatti, il lavoratore all’estero deve sostenere una serie di oneri derivanti dal fatto di vivere in un Paese straniero con maggiori costi di vita, dalle difficoltà di alloggio e alimentazione, oltre che dalla necessità di mantenere un tenore di vita dignitoso.

La giurisprudenza dominante ritiene che normalmente l’indennità estero abbia natura mista, risarcitoria e retributiva: pertanto, “in mancanza di accordi occorre accertare l’entità dell’una e dell’altra componente, ricorrendo a criteri quali l’accordo tra le parti, l’esistenza di un rimborso spese, oppure la durata della prestazione. La parte retributiva è computabile nella retribuzione annua.” (Cass. 27 marzo 1996, n. 2756; v. anche Cass. 19 gennaio 1995, n. 540).

Si segnala, tuttavia, che la giurisprudenza più recente ha sostenuto che l’indennità estero ha integrale natura retributiva, anche qualora al suo interno sia ravvisabile una componente risarcitoria, e, pertanto, va computata nel calcolo del TFR (Cass. 19 febbraio 2004, n. 3278), specie nel caso in cui il dipendente ne abbia goduto in modo normale nel corso e a causa del rapporto di lavoro (Cass. 25 novembre 2005, n. 24875).

Dal punto di vista contributivo, i rimborsi analitici per la trasferta all’estero, se documentati e riferiti a spese di vitto, alloggio o trasporto, sono esenti, mentre le ulteriori spese non documentabili sono esenti fino ad un importo giornaliero di € 25,82.

In caso di rimborso forfettario, l’indennità percepita dal lavoratore inviato all’estero è esente fino a € 77,47 giornalieri al netto delle spese di viaggio e di trasporto.
Nel caso di indennità “mista”, infine, l’indennità è esente fino a € 77,47 giornalieri, salva la non imponibilità di tutte le spese documentate riferibili a spese di vitto, alloggio, viaggio o trasporto.

Lavoratori in trasferta e i trasfertisti

Dai lavoratori inviati in trasferta a seguito di una singola e contingente decisione del datore di lavoro vanno tenuti distinti i cosiddetti trasfertisti, ovvero quei lavoratori la cui prestazione è, per sua natura, itinerante, e per i quali si può dire che non vi sia neppure un normale luogo di lavoro, intendendosi come tale un luogo in cui di norma si svolge la prestazione.

La distinzione è fondamentale, dal momento che per questi ultimi la contrattazione collettiva prevede di solito la corresponsione di uno speciale emolumento, che ha la funzione di “rappresentare il corrispondente aspetto strutturale della retribuzione, in quanto diretto a compensare il particolare disagio e la gravosità connessi alla prestazione”, e che, pertanto, “ha natura retributiva” (Cass. 22/5/2005, n. 8468, in Orient. Giur. Lav., 2005, 311).

Come detto, la trasferta presuppone che “lo spostamento del lavoratore sia determinato da fatti occasionali e contingenti, implicanti singole decisioni del datore di lavoro” (Cass. 22/5/2005, cit.), ed ha come requisiti l’esistenza di un immanente legame funzionale tra il dipendente e il luogo di lavoro normale, la temporaneità dello spostamento ad altra sede e l’unilateralità dell’atto con cui viene disposta dal datore di lavoro.
Anche nel caso dei trasfertisti vi è la necessaria presenza di un ordine del datore di lavoro che indichi di volta in volta il luogo in cui il lavoratore dovrà svolgere la propria prestazione, ma ciò non avviene, diversamente dall’ipotesi della trasferta occasionale, in forza di un esercizio unilaterale di potere da parte datoriale, ma in virtù della semplice specificazione di un obbligo, quello di lavorare in modo “itinerante”, assunto dal lavoratore per contratto.

I “trasferisti” godono di uno speciale regime contributivo: ai sensi dell’art. 51, comma 6 DPR 917/1986, infatti, le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti al lavoratore dipendente tenuto per contratto a svolgere la propria attività in luoghi sempre variabili e diversi da quello della sede aziendale partecipano alla formazione del reddito imponibile nella misura del 50% del loro ammontare.

Nell’ambito del lavoro nel settore dello Spettacolo, vengono considerati “trasfertisti i lavoratori che per contratto non hanno una sede di lavoro predeterminata e cui sia attribuita una maggiorazione retributiva o un’indennità forfettaria” (Circ. ENPALS 16 novembre 1995, n. 6).

Il già citato CCNL Metalmeccanici che, come visto, non riconosce alcuna maggiorazione retributiva al lavoratore inviato in trasferta, stabilisce che “i lavoratori che vengono esplicitamente ed esclusivamente assunti per prestare la loro opera nell’effettuazione di lavori…che richiedono il successivo e continuo spostamento” hanno diritto ad una “maggiorazione del 30% del minimo di paga base contrattuale, oltre al rimborso delle spese di trasporto”, il tutto in alternativa all’indennità di trasferta, che ha, appunto, natura di rimborso spese.

Trattamento economico per il periodo di viaggio

Nel caso in cui il viaggio verso il luogo della trasferta avvenga al di fuori del normale orario di lavoro, si pone il problema di capire se al lavoratore spetti o meno la corresponsione di un compenso sostitutivo o, comunque, di una qualche forma di indennità.

La giurisprudenza ha preso espressa posizione sul punto, affermando che, laddove venga corrisposta al lavoratore un’indennità di trasferta di natura sostanzialmente retributiva, “il tempo giornalmente impiegato dal lavoratore per raggiungere la sede di lavoro resta estraneo all’attività lavorativa vera e propria, non si somma al normale orario di lavoro e non può essere qualificato come lavoro straordinario, tanto più nel caso in cui l’indennità di trasferta compensi il disagio dello spostamento” (Corte d’Appello Trento 5/11/2003, in D&L, 2004, 125).
Qualora, diversamente, l’indennità di trasferta svolga la funzione di rimborso delle spese sostenute dal lavoratore, è logico che il tempo di viaggio, qualora questo avvenga al di fuori del normale orario di lavoro, vada in qualche modo assimilato al tempo che il lavoratore impiega lavorando a servizio del proprio datore di lavoro.

Infatti, che si tratti di tempo di viaggio o di tempo di lavoro, il lavoratore comunque impiega il proprio tempo nell’interesse del datore di lavoro, essendogli, in questo modo, precluso lo svolgimento di tutte quelle attività (come stare con la propria famiglia, passare del tempo con i figli eccetera) che il lavoratore ha diritto di compiere liberamente in tutta quella parte della giornata in cui non è tenuto a svolgere la propria prestazione lavorativa per contratto.
Tuttavia, dal momento che non si tratta di lavoro effettivo, spesso i contratti collettivi stabiliscono, per il periodo di viaggio, il diritto ad un compenso di minore entità rispetto a quello previsto per il normale orario di lavoro (ad esempio nel CCNL Metalmeccanici l’85% della normale retribuzione oraria).

Questioni retributive

  1. Il trattamento economico aggiuntivo corrisposto al lavoratore inviato in missione (o trasferito) all’estero può, in base alle particolari pattuizioni che lo prevedono e alla stregua delle circostanze del caso concreto, avere sia natura riparatoria, assolvendo la funzione risarcitoria delle maggiori spese connesse alla prestazione lavorativa all’estero, sia natura retributiva, assolvendo la funzione compensativa del disagio e/o della professionalità propria di detta prestazione lavorativa, sia, infine, natura composita o mista, assolvendo sia una funzione risarcitoria che una funzione retributiva (nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto natura indennitaria – escludendone, quindi, l’incidenza nel calcolo dell’indennità di anzianità e del Tfr – alle sole spese rimborsate al lavoratore per il canone di locazione dell’immobile nel nuovo luogo di residenza sul presupposto, presunto, che il lavoratore data la temporaneità della missione all’estero, avesse continuato a sostenere spese per il mantenimento anche della casa familiare in Italia). (App. Milano 1/8/2006, Pres. D.ssa Ruiz, Rel. D.ssa Togni, in Lav. nella giur. 2007, 527)
  2. L’istituto della trasferta presuppone che lo spostamento del lavoratore sia determinato da fatti occasionali e contingenti, implicanti di volta in volta singole decisioni del datore di lavoro; la prolungata permanenza in varie sedi di cantiere e i ripetuti spostamenti dall’una all’altra sede, quale modalità immanente al lavoro, costituiscono invece un aspetto strutturale della prestazione connesso alla causa tipica del contratto, cosicché il compenso di questa specifica prestazione con somma fissa non costituisce mero rimborso spese, bensì rappresenta il corrispondente aspetto strutturale della retribuzione, in quanto diretto a compensare il particolare disagio e la gravosità connessi alla prestazione. Pertanto, lo speciale emolumento previsto dalla contrattazione collettiva per compensare la peculiare connotazione di tale prestazione lavorativa ha natura retributiva. (Cass. 22/5/2005 n. 8468, Pres. Sciarelli Est. Cuoco, in Orient. Giur. Lav. 311)
  3. L’indennità di trasferta prevista a favore degli ufficiali giudiziari dall’art. 133 d.P.R. 15 dicembre n. 1229, per gli atti compiuti fuori dell’edificio ove l’ufficio non ha sede, ha natura retributiva e non di mero rimborso spese e, pertanto, anteriormente alle modifiche (prive di efficacia retroattiva) introdotte dall’art. 3 d.lgs. n. 314 del 1997 sono soggette a Irpef nei sensi e nei limiti di cui all’art. 48 d.P.R. n. 917 del 1986. (Cass. 12/3/2004 n. 5078, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ebner, in Giust. civ. 2005, 471)
  4. La tassa del dieci per cento dovuta dagli ufficiali giudiziari sull’indennità di trasferta, ai sensi dell’art. 154, comma 1, d.P.R. n. 1229 del 1959 (come sostituito dall’art. 10 l. 15 gennaio 1991 n. 14) integra una vera e propria tassa su singoli atti compiuti dall’ufficiale giudiziario, e non già un’imposta diretta, a titolo di acconto ai fini dell’Irpef, senza che rilevi, in senso contrario, la qualificazione di acconto data a detta tassa dall’art. 35 l. 21 novembre 2000 n. 342. (Cass. 12/3/2004 n. 5078, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ebner, in Giust. civ. 2005, 471)
  5. In caso di trasferta del lavoratore, il tempo giornalmente impiegato da quest’ultimo per raggiungere la sede di lavoro resta estraneo all’attività lavorativa vera e propria, non si somma al normale orario di lavoro e non può pertanto essere qualificato come lavoro straordinario, tanto più laddove venga corrisposta l’indennità di trasferta, volta proprio a compensare il disagio dello spostamento. (Corte d’appello Trento 5/11/2003, Pres. Zanon Est. Caracciolo, in D&L 2004, 125)
  6. L’istituto della trasferta presuppone che lo spostamento del lavoratore sia determinato da fatti occasionali e contingenti, implicanti di volta in volta singole decisioni del datore di lavoro; la prolungata permanenza in varie sedi di cantiere ed i ripetuti spostamenti dall’una all’altra sede, quale modalità immanente al lavoro, costituiscono invece un aspetto strutturale della prestazione connesso alla causa tipica del contratto, cosicché il compenso di questa specifica prestazione con somma fissa non costituisce mero rimborso spese, bensì rappresenta il corrispondente aspetto strutturale della retribuzione, in quanto diretto a compensare il particolare disagio e la gravosità connessi alla prestazione. Pertanto, lo speciale emolumento previsto dalla contrattazione collettiva per compensare la peculiare connotazione di tale prestazione lavorativa ha natura retributiva, e quindi va incluso nella base di calcolo dell’indennità di anzianità ex artt. 2120 e 2121 c.c. (nel regime anteriore alla L. 29 maggio 1982, n. 297), sia pure nella misura assoggettata a contribuzione ai sensi dell’art. 9 ter, D.L. 29 marzo 1991, n. 103, convertito con modifiche nella L. 1 giugno 1991, n. 166, applicabile retroattivamente ex art. 4 quater, D.L. 15 gennaio 1993, n. 6, convertito nella L. 17 marzo 1993, n. 63. (Nella specie-concernente compensi percepiti nei tre anni anteriori alla L. n. 297/1982 ed anteriore al D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314-la S.C. ha cassato la sentenza che aveva escluso l’indennità di trasferta e l’indennità di cantiere-prevista dal contratto collettivo per i dipendenti Enel, in particolare per i cosiddetti “cantieristi”-dalla base di calcolo dell’indennità di anzianità). (Cass. 30/10/2002, n. 15360, Pres. Senese, Rel. Cuoco, in Lav. nella giur. 2003, 273)
  7. Allorquando con il termine trasferta il datore di lavoro intenda indicare il corrispettivo della maggiore onerosità delle prestazioni rese fuori sede, il relativo emolumento ha natura esclusivamente retributiva; per contro quando il datore di lavoro intenda indennizzare il lavoratore delle spese sostenute, occorrerà dunque indagare se sussistano elementi (quali la determinazione a forfait, il pagamento a cadenza fissa mensile pur in presenza di trasferte variabili ecc.) che ne indichino una natura parzialmente retributiva: in tal caso la distinzione delle due quote deve essere effettuata in via equitativa, assumendo come riferimento la quota del 50% di cui all’art. 12 L. 30/4/69 n. 153. (Trib. Genova 16/10/2001, Est. Basilico, in D&L 2002, 172)
  8. Al lavoratore che sia inviato in missione in località diversa da quella in cui si trova l’abituale sede di lavoro spetta l’indennità di trasferta anche nel caso in cui detta località coincida con la sua residenza anagrafica, peraltro molto distante dal luogo di abitazione abituale effettiva (Cass. 8/4/00, n. 4482, pres. Santojanni, est. Sciarelli, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 59, con nota di Bartalotta)

Trasferta e trasferimento

  1. Per configurarsi una trasferta, il tempo di durata dello spostamento deve essere, ancorché non determinato, determinabile. Il lasso temporale, sebbene lungo, non comporta la trasformazione della fattispecie in trasferimento. (Trib. La Spezia 20/2/2012, Giud. Panico, in Lav. nella giur. 2012, 514)
  2. Ai fini del configurarsi della trasferta del lavoratore che si distingue dal trasferimento è necessaria la sussistenza del permanente legame del prestatore con l’originario luogo di lavoro, mentre restano irrilevanti, a tal fine, la protrazione dello spostamento per un lungo periodo di tempo e la coincidenza del luogo della trasferta con quello di un successivo trasferimento, anche se disposto senza soluzione di continuità al termine della trasferta medesima. (Trib. Milano 7/5/2009, d.ssa Pattumelli, in Lav. nella giur. 2009, 847)
  3. La trasferta del lavoratore subordinato, dalla quale consegue il diritto a percepire la relativa indennità, che si caratterizza per un mutamento temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, nell’interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro, non è esclusa né dall’eventuale disponibilità manifestata dal lavoratore né dalla sua durata per un tempo apprezzabilmente lungo e neppure dalla coincidenza del luogo della trasferta con quello del successivo trasferimento, senza soluzione di continuità. (Cass. 20/7/2007 n. 16136, Pres. Mattone Est. Balletti, in D&L 2007, con nota di Marcella Mensi, “Profili debitori e retributivi del mutamento del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa”, 1161)
  4. Ai fini della configurazione della trasferta del lavoratore (da cui consegue il suo diritto a percepire la relativa indennità) che si distingue dal trasferimento (il quale comporta l’assegnazione definitiva del lavoratore ad altra sede diversa dalla precedente), è necessaria la sussistenza del permanente legame del prestatore con l’originario luogo di lavoro, mentre restano irrilevanti, a tal fine, la protrazione dello spostamento per un lungo periodo di tempo e la coincidenza del luogo della trasferta con quello di un successivo trasferimento, anche se disposto senza soluzione di continuità al termine della trasferta medesima. L’accertamento degli inerenti presupposti è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C ., sulla scorta dell’enunciato principio, ha confermato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda di un dipendente di una società autoferrotranviaria intesa a ottenere il riconoscimento dell’indennità di trasferta conseguente all’ammissione di un corso di riqualificazione presso un luogo di lavoro diverso dalla sede ordinaria di servizio, in cui aveva poi lavorato continuativamente per alcuni anno ed era stato, quindi, successivamente trasferito, rilevando l’adeguatezza della sua motivazione con la quale erano stati considerati difettanti gli elementi essenziali per la configurazione della trasferta, con particolare riguardo alla conservazione dell’originaria sede di servizio e alla certezza del futuro rientro, nel mentre la mancata adozione di un formale atto di trasferimento e di assegnazione alle nuove mansioni non era stato ritenuto sufficiente a integrare una trasferta). (Cass. 21/3/2006 n. 6240, Pres. Senese Rel. Cuoco, in Lav. Nella giur. 2006, 912)
  5. La trasferta si distingue dal trasferimento in quanto è caratterizzata dalla temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale, nell’interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro, essendo irrilevante che egli abbia manifestato la propria disponibilità e che svolga mansioni identiche a quelle espletate presso l’abituale sede di lavoro. Pertanto, al fine della sussistenza del diritto all’indennità di trasferta è irrilevante la coincidenza del luogo della trasferta con quello del successivo trasferimento, anche se disposto senza soluzione di continuità al termine di trasferta (Fattispecie concernente un dipendente della Rete Ferroviaria italiana s.p.a.). (Cass. 027/11/2002, n. 16812, Pres. Senese, Rel. Filadoro, in Lav. nella giur. 2003, 382)
  6. Il trasferimento si distingue dalla trasferta per il carattere definitivo; la trasferta infatti, consiste in uno spostamento provvisorio e temporaneo dalla normale sede di lavoro, per sopravvenute esigenze di carattere contingente, con la certezza del rientro all’unità di partenza (Trib. Milano 30/7/97, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 1998, 129).

Rimborso spese per i dipendenti

Se i lavoratori dipendenti utilizzano il proprio denaro per conto della azienda per cui lavorano, hanno diritto a un rimborso spese dipendenti che li risarcisca dei pagamenti sostenuti, a patto che questi siano stati effettuati in accordo con le policy aziendali.

In particolare, i dipendenti aziendali hanno diritto ad un rimborso spese di trasferta per quanto riguarda:

  • Spese di viaggio (carburante, pedaggi autostradali, ecc., sia con il proprio veicolo che con mezzi di terzi)
  • Spese di ristorazione (vitto)
  • Spese di pernottamento (alloggio)
  • Spese telefoniche

L’entità e la natura del rimborso variano a seconda dell’inquadramento del lavoratore.

Tipologie di rimborso

Nel caso di trasferte all’interno del territorio comunale, eventuali rimborsi o indennità concorrono a formare il reddito del dipendente (ad eccezione dei rimborsi delle spese di trasporto, quando opportunamente documentate); sono quindi sottoposti al regolare sistema di tassazione.

Tra le spese imponibili menzioniamo anche il rimborso chilometrico all’interno del comune in cui si trova la sede di lavoro. Si tratta di un costo interamente deducibile per l’azienda, che viene calcolato in base a un servizio offerto dall’ACI.

Per spostamenti al di fuori del territorio comunale – le trasferte, esistono tre principali tipologie di rimborso. Eccole spiegate:

1. Rimborso spese forfettario

Questa modalità di rimborso consiste nella restituzione al dipendente di una somma prestabilita, concordata tra lavoratore e datore di lavoro in anticipo e in via forfettaria.

Questa forma di rimborso non vincola il trasferta a giustificare le spese sostenute, e non richiede quindi la compilazione di una nota spese.

Il rimborso forfettario esclude dall’imponibile del dipendente fino a 46,48€ al giorno se la trasferta avviene in Italia, e fino a 77,47€ se avviene all’estero – escludendo le spese di trasporto che possono essere rimborsate a piè di lista, ossia fornendo all’amministrazione la documentazione relativa alla spesa.

2. Rimborso spese analitico o a piè di lista

Nell’ambito del rimborso a piè di lista o analitico, le spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto, a prescindere dal loro importo, vengono anticipate dal dipendente e non concorrono a formare il suo reddito; il rimborso viene effettuato previa presentazione da parte del dipendente della dettagliata documentazione delle spese aziendali sostenute, per compilare la nota spese.

Nel caso di in cui dovessero essere rimborsate spese al di fuori delle categorie previste, anche non documentate (per esempio cancelleria, telefono…), queste ultime sono considerate esenti da tassazione solo se inferiori a 15,49€ e 25,82€ per trasferte all’estero.

3. Rimborso spese misto

Il rimborso misto è una tipologia di compromesso tra i due sistemi sopra descritti, che associa il rimborso analitico delle spese di vitto ed alloggio al riconoscimento di un’indennità forfettaria al dipendente. In altre parole, il rimborso spese misto prevede la restituzione di una somma forfettaria concordata a priori su base giornaliera, e il rimborso analitico delle spese sostenute.

L’importo dell’indennità è definito dalla tipologia delle spese sostenute dal lavoratore in trasferta: se il rimborso analitico comprende solo il vitto o solo l’alloggio, le indennità forfettarie sono ridotte di 1/3; vengono ridotte di 2/3 qualora il rimborso analitico comprenda sia le spese di vitto che quelle di alloggio.

È quindi nuovamente necessario che il dipendente documenti le spese effettuate e compili la relativa nota spese.

Avere una visione chiara della propria attività consente di scegliere e concordare con i dipendenti il sistema di rimborso più adatto ad ogni tipologia di progetto o di spesa.

Rimborso spese professionisti

La casistica dei rimborsi che spettano ai professionisti è ampia e prevede diverse forme di tassazione.

Il rimborso spese per cui i liberi professionisti possono fare richiesta riguarda le spese di viaggio, vitto, alloggio e in generale le spese da questi sostenute per svolgere la propria attività per un cliente.

Le detrazioni per lavoro dipendente sono previste dall’art. 13 del TUIR e spettano in caso di reddito da lavoro dipendente e assimilati. Con la Legge di Bilancio 2020 la normativa sulle detrazioni Irpef non è stata modificata. Vediamo a chi spettano, come funzionano, il calcolo in busta paga mensile, le formule di calcolo in base ai giorni di detrazione spettanti e reddito complessivo, la detrazione minima di 690 o 1.380 euro, il calcolo in caso di lavoro a tempo determinato, part-time, apprendistato, tirocinio, Naspi e come funziona con il bonus di 80 euro.
Le detrazioni fiscali per lavoro dipendente previste dal Testo unico sulle imposte sui redditi (art. 13 del D.P.R. 917/1986) consentono ai lavoratori dipendenti (ma anche ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinate e continuativa co.co.co. ed ai percettori di altri redditi assimilati come ad esempio l’indennità di disoccupazione Naspi) di ridurre la pressione fiscale sul loro reddito semplicemente con lo status di lavoratore dipendente.

L'ammontare della detrazione per lavoro dipendente spettante ai lavoratori ogni mese in busta paga viene calcolato in rapporto ai giorni di detrazioni spettanti nel mese (compreso sabato e domenica). Pertanto, le detrazioni sono superiori nei mesi di:

31 giorni (gennaio, marzo, maggio, luglio, agosto, ottobre e dicembre);
rispetto ai mesi di 30 giorni di calendario (aprile, giugno, settembre, novembre);
e di 28 giorni (febbraio), anche quando l'anno è bisestile (come nel 2020, pertanto febbraio 2020 varrà 28 giorni di detrazioni e non 29).
Per quanto riguarda gli importi mensili e annuali della detrazione per lavoro dipendente, il calcolo è sempre lo stesso in quanto la Legge di Bilancio 2020, così come quella del 2016, del 2017, del 2018 e del 2019, a differenza della grande rivoluzione sulla tracciabilità delle detrazioni ai sensi dell'art. 15 del TUIR, non ha apportato modifiche all’art. 13 del TUIR. Restano quindi in vigore le detrazioni introdotte già a partire dal 1° gennaio 2014.

 

Ma a chi spettano le detrazioni per lavoro dipendente? Come si calcolano? Quanti giorni di detrazioni spettano ogni mese in busta paga?

In effetti il calcolo delle detrazioni per lavoro dipendente ogni mese in busta paga, poi il ricalcolo nel conguaglio fiscale di fine anno, possono comportare confusione nei lavoratori, sia con indeterminato che part-time e tempo determinato. Approfondiamo tutti questi aspetti in questo speciale, partendo ovviamente dagli importi delle detrazioni previsti dalla Legge.

Normativa detrazioni lavoro dipendente 2020
Ecco l’articolo 13 del TUIR, comma 1, che disciplina le detrazioni per lavoro dipendente anche per l’anno 2020:

"Se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o più redditi di cui agli articoli 49, con esclusione di quelli indicati nel comma 2, lettera a), e 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), spetta una detrazione dall'imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro nell'anno, pari a:

a) 1.880 euro (fino al 31 dicembre 2013 era 1.840), se il reddito complessivo non supera 8.000 euro. L'ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 690 euro. Per i rapporti di lavoro a tempo determinato, l'ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 1.380 euro;

b) 978 euro, aumentata del prodotto tra 902 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 20.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 28.000 euro;

c) 978 euro, se il reddito complessivo è superiore a 28.000 euro ma non a 55.000 euro; la detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 27.000 euro".

Aumento detrazione lavoro dipendente
La prima cosa da sapere è che le detrazioni per lavoro dipendente sono le stesse dall'anno 2014 in poi, pertanto non sono cambiate negli anni d'imposta dal 2014 al 2019 per effetto della varia Legge di Stabilità. Nella Legge di Bilancio 2020 non sono avvenute variazioni sulle detrazioni per lavoro dipendente per l'anno 2020.

Le detrazioni per lavoro dipendente negli ultimi 10 anni comunque non sono diminuite ma aumentate.

L'ultima variazione della detrazione per lavoro dipendente è stata introdotta dal comma 127 dell'art. 1 della Legge n. 147 del 2013 (la Legge di Stabilità 2014) e quindi a partire dall'anno d'imposta 2014, quindi anche negli anni 2015, 2016, 2017, 2018, 2019 e per l'anno 2020, le detrazioni per lavoro dipendente sono leggermente aumentate.

Detrazione per lavoro dipendente e Irpef
Tutti coloro che hanno dei dubbi su come funziona la detrazione per lavoro dipendente in busta paga ogni mese, poi in sede di calcolo del conguaglio fiscale di fine anno (sempre in busta paga) e in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi (modello 730, modello 730 precompilato o modello Redditi PF), va subito precisato che la detrazione per lavoro dipendente e assimilati è una concreta riduzione dell'importa Irpef a debito e quindi Irpef da pagare.

L'art. 13 del TUIR, infatti, disciplina le detrazioni fiscali, che hanno la funzione di ridurre l'imposta Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) per effetto delle agevolazioni di legge previste nel TUIR stesso. Tra le agevolazioni fiscali, appunto, oltre alle detrazioni per coniuge e/o figli a carico, vi è soprattutto la detrazione per lavoro dipendente.

A chi spettano le detrazioni per lavoro dipendente
L'abbiamo letto, nella normativa, il comma 1 del nuovo art. 13 del Tuir prevede che se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o più redditi di lavoro dipendente (ad esclusione dei redditi di pensione di cui all'art. 49, comma 2, lett. a) ovvero redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui all'art. 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), del Tuir, spetta una detrazione dall'imposta lorda rapportata al periodo di lavoro nell'anno e graduata in relazione all'ammontare del reddito complessivo.

Chiariamo, quindi, quali sono questi redditi che danno diritto alla detrazione per lavoro dipendente e assimilati.

Detrazioni per redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente
In particolare, per quanto riguarda i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, secondo la nuova disposizione possono fruire della detrazione per lavoro dipendente:

  • i soci di cooperative di produzione e lavoro e delle altre cooperative di cui all'articolo 50, comma 1, lett. a), (sempre che il rapporto, diverso da quello associativo, intercorrente con la cooperativa, sia di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa);
  • i lavoratori che percepiscono indennità da terzi in relazione a prestazioni rese in connessione alla loro qualità di lavoratori dipendenti (articolo 50, comma 1, lettera b);
  • i percettori di borse di studio, di premi o di sussidi corrisposti per fini di studio o di addestramento professionale (articolo 50, comma 1, lettera c);
  • i collaboratori coordinati e continuativi (articolo 50, comma 1, lettera c-bis), quindi i collaboratori con contratto a progetto o co.co.co.;
  • i sacerdoti (articolo 50, lettera d);
  • i titolari di trattamenti pensionistici erogati dalla previdenza complementare (articolo 50, lettera h-bis);
  • i lavoratori impiegati in attività socialmente utili (articolo 50, lettera l).
    Le detrazioni per lavoro dipendente spettano a tutti i lavoratori subordinati che percepiscono i redditi appena descritti. Quindi spettano con qualsiasi formula contrattuale (indeterminato, tempo determinato, part-time, full-time, apprendistato, tirocinio o state, contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ecc.).

Detrazione lavoro dipendente e licenziamento o dimissione
Il licenziamento o la dimissione rientrano sono le modalità di conclusione di un rapporto di lavoro dipendente, ossia appongono una data di fine al contratto di lavoro. Fino a quella data al lavoratore dipendente spettano in misura piena, ed a pieni diritti, le detrazioni fiscali per lavoro dipendente e per eventuali coniugi e/o figli a carico.

Nella sostanza, la detrazione fiscale per lavoro dipendente in caso di licenziamento o dimissione o cessazione del rapporto di lavoro comporta solo il calcolo delle detrazioni fiscali sulla base del reddito complessivo definitivo del lavoratore dipendente alla data della cessazione del rapporto di lavoro e il conseguente diritto ad un numero di giorni di detrazione per lavoro dipendente, nel mese di conclusione del rapporto di lavoro, pari ai giorni di detrazione spettanti dal primo giorno del mese al giorno di cessazione del rapporto di lavoro (incluso).

Esempio: se un lavoratore ha iniziato un rapporto di lavoro il 1 gennaio 2019 e viene licenziato il 20 marzo 2020, avrà diritto per il mese di marzo a 20 giorni di detrazione per lavoro dipendente. Nello stesso mese, essendo intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a ricalcolare le detrazioni per lavoro dipendente sulla base del reddito complessivo spettante per l'anno 2020.

Detrazioni lavoro dipendente: come controllarle
Il contribuente che si informa sulle detrazioni per lavoro dipendente è evidentemente interessato a capire la detrazione per lavoro dipendente a chi spetta, come funziona il calcolo, la formula, i giorni da considerare, i redditi da considerare e cosa succede in caso di contratto a tempo determinato, contratto a tempo parziale o contratto part-time, in caso di apprendistato, tirocinio, in caso di collaborazione coordinata e continuativa, ecc.

Inoltre, generalmente il lavoratore, una volta verificato il diritto alla detrazione per lavoro dipendente, è interessato a capire come funziona il calcolo della detrazione per lavoro dipendente nella busta paga mensile percepita.

Premettendo che le detrazioni per lavoro dipendente spettano al lavoratore dipendente (quindi a tutti i lavoratori dipendenti aldilà del contratto di lavoro), e quindi non c'entrano coniugi e figli a carico, così come non c'entra la pensione, le tappe per controllare le detrazioni per lavoro dipendente sono le seguenti:

  • ricavarsi il proprio reddito complessivo (presunto e definitivo);
  • ricavarsi il periodo di lavoro considerato;
  • applicare la formula prevista dalla legge;
  • confrontare il calcolo su base annua del mese di dicembre con il calcolo su base mensile da gennaio a novembre impostato su un reddito presunto.
    Coloro che intendono controllare il calcolo della detrazione per lavoro dipendente in sede di conguaglio fiscale di fine anno e nella busta paga di dicembre 2019, dovranno seguire quanto ora descriveremo ma basandosi su redditi del 2018 e redditi del 2019.

Calcolo detrazione per lavoro dipendente mensile in busta paga
Abbiamo letto sopra qual è la misura, secondo il TUIR, delle detrazioni per lavoro dipendente, anche in busta paga, per gli anni 2014-2019 e quindi anche per il 2020.

Ma per il lavoratore è importante sapere anche come si calcolano le detrazioni per lavoro dipendente in busta paga, in quanto ogni mese l’importo della detrazione per lavoro dipendente cambia in base ai giorni e reddito.

La regola principale è che la misura della detrazione fiscale è rapportata al periodo di lavoro nell’anno e al reddito complessivo (al netto dell’abitazione principale e relative pertinenze) in maniera inversamente proporzionale, pertanto maggiore sarà il reddito, minore sarà l’importo delle detrazioni per lavoro dipendente spettanti.

Normalmente tali detrazioni, se richieste nell’apposito modello detrazioni presentato al datore di lavoro, sono calcolate ed inserite, in via presuntiva, ogni mese in busta paga, pertanto il lavoratore può usufruirne mensilmente sulla base del reddito comunicato nel modello detrazioni. In mancanza, il datore di lavoro provvede al calcolo delle detrazioni fiscali, in qualità di sostituto d'imposta, sui redditi a lui conosciuti.

Per il calcolo della detrazione per lavoro dipendente in busta paga, occorre distinguere il calcolo effettuato dal datore di lavoro sostituto d'imposta nelle buste paga da gennaio a novembre, in quanto il calcolo è effettuato su un reddito da lavoro dipendente presunto (se in alternativa il lavoratore non comunica un reddito complessivo diverso e maggiore), dal calcolo effettuato dal datore di lavoro nel mese di dicembre e in occasione del conguaglio fiscale di fine anno, che è calcolato sul reddito da lavoro dipendente definitivo.

In ogni caso il lavoratore deve sapere che la detrazione per lavoro dipendente si calcola secondo la formula dell'art. 13 del TUIR sopra descritta, ma ottenendo due dati importanti:

il reddito da lavoro dipendente presunto (da gennaio a novembre) o il reddito complessivo definitivo (a dicembre in sede di conguaglio);
e rapportando il tutto, mese dopo mese, al calcolo del numero di giorni di detrazioni fiscali per lavoro dipendente spettanti durante ogni mese.

Quale è il reddito complessivo?
Nelle buste paga da gennaio a novembre, il calcolo della detrazione fiscale per reddito da lavoro dipendente, salvo comunicazioni da parte del lavoratore con il modello detrazioni, è effettuato sulla base del reddito da lavoro dipendente imponibile fiscale dell'anno precedente.

Quindi nel caso delle buste paga dell'anno 2020, da gennaio 2020 a dicembre 2020, la detrazione fiscale per reddito da lavoro dipendente viene calcolata per le prime undici mensilità dell'anno sulla base dell'imponibile Irpef dell'anno precedente, desumibile dalla busta paga di dicembre 2019 contenente il conguaglio fiscale di fine anno. Con il conguaglio infatti viene calcolata definitivamente tutta la tassazione Irpef dell'anno tenendo conto del reddito da lavoro dipendente definitivo e del conseguente ricalcolo sia dell'imposta Irpef lorda che delle detrazioni fiscali.

Un’altra modalità per ricavare il reddito complessivo, ossia il reddito da lavoro dipendente dell'anno 2019, che poi è posto a base di calcolo delle detrazioni per lavoro dipendente da gennaio a novembre 2020, è quello di controllare quanto dichiarato dal datore di lavoro nel modello di Certificazione unica 2020, ex CUD. Il punto 1 della parte relativa ai dati fiscali accoglie l'indicazione dell'imponibile Irpef annuale 2019, o reddito imponibile fiscale anno 2019, che è lo stesso indicato nella busta paga di dicembre 2019, se contenente il conguaglio fiscale di fine anno.

Per analogo motivo, nella busta paga di dicembre 2020 vi è il ricalcolo della tassazione e quindi l'ultimo mese di detrazione per lavoro dipendente contiene la differenza tra la detrazione per lavoro dipendente definitiva per tutto l'anno 2020 e le undici rate di detrazione fiscale trattenute durante l'anno da gennaio a novembre.

Come si calcola il reddito complessivo?
Ai fini del calcolo dell'ammontare della detrazione per lavoro dipendente spettante, la norma fa riferimento al reddito complessivo del contribuente che richiede le detrazioni.

Si ricorda che il reddito complessivo è costituito dalla somma dei redditi percepiti dalla persona, al lordo degli oneri deducibili, compreso il reddito imputabile all'unità immobiliare adibita ad abitazione principale alle relative pertinenze.

Si ricorda che il reddito (rendita catastale) della casa adibita ad abitazione principale e delle sue pertinenze, va dichiarato tra i redditi dei fabbricati e sommato agli altri redditi eventualmente posseduti dal contribuente per la determinazione del reddito complessivo; quindi, ai sensi dell'articolo 10, comma 3-bis, del Tuir, dal reddito complessivo si sottrae l'importo della rendita catastale dell'abitazione principale e delle sue pertinenze, al fine di escludere detto reddito dalla base imponibile Irpef.

Calcolo giorni di detrazione lavoro dipendente
Con riferimento alla previsione del nuovo articolo 13, comma 1 già sopra descritta, in base alla quale le detrazioni per redditi di lavoro dipendente e assimilati vanno rapportate al periodo di lavoro nell'anno, secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle entrate con la circolare del 16/03/2007 n. 15 le circolari n. 326 del 1997 e n. 3 del 1998, relativamente sia ai rapporti di lavoro indeterminato che a quelli a tempo determinato, i giorni per i quali spetta la detrazione coincidono con quelli che hanno dato diritto alla retribuzione che è stata assoggettata a ritenuta.

Pertanto, nel numero di giorni relativamente ai quali va calcolata la detrazione si devono in ogni caso comprendere le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, mentre vanno sottratti i giorni per i quali non spetta alcuna retribuzione. Ai fini dell'attribuzione delle detrazioni per lavoro dipendente, l'anno deve essere sempre assunto come composto di 365 giorni, anche quando è bisestile.

Per quanto riguarda i giorni (gg) di detrazioni per lavoro dipendente in busta paga, bisogna considerare il numero di giorni del mese nel quale il lavoratore è stato in forza durante il mese.

Se il lavoratore ha lavorato tutto l’anno:

a gennaio, marzo, maggio, luglio, agosto, ottobre e dicembre spettano 31 giorni di detrazioni,
a febbraio spettano 28 giorni di detrazioni per lavoro dipendente,
mentre ad aprile, giugno, settembre e novembre spettano 30 giorni di detrazioni.
Il totale annuo di gg di detrazioni spettanti è 365 giorni (nell’anno bisestile spettano sempre 365 giorni di detrazioni per lavoro dipendente). Ovviamente laddove i giorni di detrazioni sono 28 o 29 o 30 giorni, le detrazioni per lavoro dipendente spettanti in busta paga saranno di importo inferiore rispetto ai mesi di 31 giorni.

La detrazione annua spettante in base al reddito presunto infatti viene divisa per 365 e moltiplicata per i giorni di detrazione nel mese.

Per chi vuole entrare nel dettaglio, ecco esempi e formule calcolo detrazione lavoro dipendente.

Calcolo detrazione lavoro dipendente mensile: buste paga da gennaio a novembre
Poniamo il caso di un lavoratore dipendente che ha un reddito imponibile Irpef annuale relativo al 2019 di 19.000 euro, frutto di stipendi per quattordici mensilità. Poniamo altresì il caso che il lavoratore dal 1° gennaio percepisca 1.400 euro lordi come imponibile Irpef (quindi al netto dei contributi previdenziali a carico del lavoratore trattenuti in busta paga generalmente nella misura del 9,19%) e che non abbia presentato moduli detrazioni o richieste al datore di lavoro sostituto d'imposta. In questo caso, quest'ultimo calcola tutte le detrazioni dei primi undici mesi dell'anno sulla base del reddito annuale Irpef dell'anno precedente (nel caso in esempio è 19.000 euro).

La formula di calcolo della detrazione fiscale in questa fascia di reddito è quella del punto b) del comma 1 dell'art. 13 del TUIR, ossia questa "b) 978 euro, aumentata del prodotto tra 902 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 20.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 28.000 euro;".

Pertanto il lavoratore avrà diritto a 1.383,90 euro di detrazione per reddito da lavoro dipendente annua. Ossia ha diritto a 978 euro più il 45% di 902 euro (questo in quanto con il reddito di 19 mila euro la formale è uguale a 28.000 meno 19.000 euro = 9.000, che diviso 20.000, fa 0,45). Si tratta di una detrazione fiscale calcolata su base annua su un reddito fiscale presunto. Il reddito fiscale anno del 2020 sarà conosciuto solo in occasione della busta paga di dicembre contenente il conguaglio fiscale di fine anno.

A quel punto al lavoratore dipendente spetta come contribuente, sostanzialmente una cifra per giorni di rapporto di lavoro computato come detrazione per lavoro dipendente, la cifra di 1.383,90 euro diviso 365, ossia 3.791506 euro al giorno.

A quel punto la detrazione per lavoro dipendente nella busta paga del mese di gennaio 2020, che è di 31 giorni, sarà pari a 1.383,90 diviso 365 per 31 = 117,54 euro.

La detrazione spettante nella busta paga del mese di febbraio 2020 che è bisestile e quindi 29 giorni, sarà pari a 1.383,90 euro diviso 365 per 28 (e non 29) = 106,16 euro,

La detrazione spettante a marzo 2020, che è di 31 giorni, è uguale a gennaio, ad aprile 2020 così come tutti gli altri mesi di 30 giorni è pari a 1.383,90 euro diviso 365 per 30 = 113,74 euro.

La particolarità è che nel mese di giugno, se arriva anche la quattordicesima, in quest'ultima il contribuente non ha diritto alla detrazione fiscale per reddito da lavoro dipendente, in quanto la detrazione già goduta nella mensilità di giugno 2020. E per questo motivo la tassazione Irpef della quattordicesima è più alta, in quanto il lavoratore paga la tassazione Irpef lorda senza alcuna detrazione.

Calcolo detrazione lavoro dipendente mensile: busta paga di dicembre con conguaglio Irpef
Anche per la tredicesima vale lo stesso discorso della quattordicesima. Al lavoratore non spetta la detrazione fiscale per lavoro dipendente, in quanto già riconosciuta nella busta paga di dicembre 2020.

Il calcolo della detrazione fiscale nella busta paga del mese di dicembre 2020 è diverso da quello delle buste paga da gennaio a novembre 2019, in quanto la busta paga di dicembre 2020 tiene conto del ricalcolo del reddito complessivo, che per i primi nove mesi dell'anno è stato effettuato secondo l'imponibile fiscale annuo del 2019 contenuto nella busta paga di dicembre 2019, in altre parole il reddito imponibile Irpef dell'anno prima.

Pertanto nelle busta paga di dicembre 2020, il datore di lavoro sostituto d'imposta, calcola il reddito da lavoro dipendente del lavoratore relativo all'intero anno 2020 e poi va a ricalcolare tutta la detrazione fiscale per lavoro dipendente dell'anno 2020 e accredita in busta paga al lavoratore una detrazione per lavoro dipendente pari alla differenza tra la detrazione per lavoro dipendente annuale 2020 al netto della sommatoria delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente già accreditata al lavoratore nelle buste paga da gennaio a novembre 2020.

Nel caso in esempio, abbiamo un lavoratore che dal 2020 percepisce un imponibile Irpef mensile di 1.400 euro, quindi ha un reddito complessivo annuo da lavoro dipendente di 1.400 euro per 14 mensilità = 19.600 euro. Pertanto, nelle buste paga da gennaio a novembre ha ricevuto una detrazione per lavoro dipendente di 1.383,90 euro su base annua calcolata su un reddito inferiore, ossia 19.000 euro.

Il reddito effettivo di 19.600 euro fa scendere il diritto alla detrazione fiscale per lavoro dipendente per l'anno 2020 alla formula: 978 euro più il 42% di 902 euro ( questo in quanto con il reddito di 19 mila euro la formale è uguale a 28.000 meno 19.000 euro = 9.000, che diviso 20.000, fa 0,42). Il contribuente, quindi, non ha diritto a 1.383,90 euro, ma in sede di conguaglio fiscale di fine anno ha diritto ad una detrazione per reddito da lavoro dipendente anno 2020 pari a 1.356,84 euro.

Pertanto, a quel punto il sostituto d'imposta eroga nel mese di dicembre una detrazione fiscale pari a 1.356,84 euro meno le undici rate di detrazione per reddito da lavoro dipendente erogate da gennaio a novembre, con la conseguenza che probabilmente nell'ultimo mese il contribuente percepirà una detrazione fiscale per lavoro dipendente più bassa. Se si aggiunge che l'imposta Irpef lorda del mese comprende anche la tredicesima, il lavoratore dipendente nella sua qualità di contribuente verserà una imposta Irpef alta, al netto della ridotta detrazione fiscale percepita nel mese di dicembre. Quindi in general eun conguaglio fiscale di fine anno con imposta Irpef a debito più alta.

Esempi e formule calcolo detrazione per lavoro dipendente
Vediamo ora di individuare la formula per il calcolo delle detrazioni per lavoro dipendente.

Da 8.000,01 euro a 28.000 euro spetta la seguente detrazione: euro 978, aumentata del prodotto tra euro 902 e l'importo corrispondente al rapporto tra euro 28.000, diminuito del reddito complessivo, ed euro 20.000. Pertanto, il calcolo è:

978 + [902 x (28.000 – RC) : 20.000];

L'importo della parentesi quadra, da aggiungere a euro 978, decresce al crescere del reddito. Il comma 6 del nuovo art. 13 stabilisce che se il risultato del rapporto è maggiore di zero, lo stesso si assume nelle prime quattro cifre decimali. Gli importi fissati dalla norma di euro 978 ed euro 902 devono essere rapportati al periodo di lavoro nell'anno.

Per esempio, in caso di rapporto di lavoro di durata di 306 giornate, dal 1° marzo al 31 dicembre, a fronte di un reddito di euro 10.000, la detrazione spettante sarà espressa dalla seguente formula:

(978 : 365 x 306) + [(902 : 365 x 306) x (28.000 – 10.000) : 20.000];= 964,60 + [756,19 x 0,9] = 1.645,16.

Da 28.000,01 al 55.000 euro spetta la seguente detrazione: euro 978. In tal caso, la detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di euro 55.000, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di euro 27.000.

La formula da calcolare sarà la seguente:

978 x [(55.000 – RC) : 27.000];

Il comma 6 del nuovo art. 13 stabilisce che se il risultato del rapporto indicato dalla norma è maggiore di zero, lo stesso si assume nelle prime quattro cifre decimali. L'importo di euro 1.338 deve essere rapportato al periodo di lavoro nell'anno.

La detrazione minima di 690 euro o 1.380 euro
Molti lavoratori, molti giovani apprendisti, molti tirocinanti e lavoratori precari che hanno due o più contratti di lavoro nell'anno solare tendono ad informarsi sui propri diritti alle detrazioni per lavoro dipendente, essendo difficoltoso interpretare nella propria busta paga o comunque nella Certificazione unica (CU ex modello CUD) il diritto alle detrazioni fiscali per lavoro dipendente e come funziona il relativo calcolo.

È importante sapere che proprio i contratti inferiori all'anno d'imposta (si pensi a chi ha avuto un contratto a tempo determinato o anche un contratto a tempo indeterminato iniziato o finito in corso d'anno) nonché la pluralità di contratti di lavoro nell'anno (due contratti a tempo determinato, due part-time nell'anno o contemporanei, un contratto di lavoro e la Naspi, ecc.), possono creare non pochi problemi ai lavoratori in qualità di contribuenti.

Partiamo dal concetto principale. L’art. 13 co. 1 del TUIR stabilisce una detrazione minima spettante annuale:

690 euro per i contratti a tempo indeterminato;
e 1380 euro per i contratti a tempo determinato.
Tale detrazione è ovviamente spettante per coloro che hanno un reddito da lavoro dipendente su base annua pari o inferiore a 8.000 euro.

Ciò significa che se un lavoratore ha lavorato per alcuni mesi nell’anno, può chiedere al datore di lavoro l’applicazione della detrazione minima di 1.380 euro e quindi, nella maggior parte dei casi, non pagare l’Irpef. Analogo discorso per coloro che hanno stipulato un contratto a tempo indeterminato negli ultimi mesi dell’anno: siccome nell’anno in corso hanno lavorato pochi mesi, possono chiedere l’applicazione della detrazione minima di 690 euro e quindi pagare un’imposta Irpef inferiore oppure non pagare proprio l’Irpef.

Come richiedere la detrazione minima?
Attraverso il modulo detrazioni fiscali. In ogni caso spetta a prescindere dal risultato del calcolo di ragguaglio al periodo di spettanza nell'anno. Vi deve essere comunque almeno un giorno di lavoro.

Va precisato che, secondo quando stabilito dalla circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 15 del 2007, queste detrazioni spettanti in caso di reddito complessivo non superiore a euro 8.000 nella misura di 690 euro per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e di 1.380 euro per i rapporti a tempo determinato non devono essere rapportate al periodo di lavoro. Ne discende che le stesse non sono cumulabili tra loro né con quelle minime previste per i pensionati di cui ai commi 3 e 4 del nuovo articolo 12 né con quelle previste per i redditi diversi di cui al comma 5 dello stesso articolo 12 del Tuir.

La circolare precisa una cosa importante, che è anche in linea con il principio costituzionale contenuto nell'art. 53 della Costituzione ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività"): Il contribuente che si trova nella possibilità astratta di fruire di più di una delle menzionate detrazioni minime, potrà scegliere di applicare quella favorevole.

Detrazione minima e rapporti inferiori all'anno. L'Agenzia delle entrate, con circ. n. 15/E/2007, precisa gli obblighi del sostituto d'imposta in relazione ai rapporti di lavoro inferiori all'anno. In particolare, l'Agenzia delle entrate ritiene che anche le detrazioni per i redditi non superiori ad euro 8.000, fissate nella misura minima di euro 690 e di euro 1380, rispettivamente, per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato, in via generale, debbano essere rapportate dal sostituto al periodo di lavoro nell'anno, in applicazione dell'art. 23 comma 2, lett. a), D.P.R. 600/1973. Naturalmente il percipiente potrà fruire della parte di detrazione eventualmente non goduta in sede di dichiarazione dei redditi ovvero, su richiesta, in sede di conguaglio.

Indennità sostitutive Inps e detrazioni: l'Agenzia delle Entrate, con circ. n. 34/e/2008 ha precisato che le indennità sostitutive di reddito erogate dall'inps costituiscono reddito di lavoro dipendente se percepite in sostituzione di detto reddito. Poiché tali indennità sono erogate limitatamente al periodo di inattività del lavoratore e hanno, quindi, carattere temporaneo, si ritiene che, ai fini della determinazione dell'importo della detrazione minima spettante le stesse possano essere considerate come redditi inerenti a “rapporti di lavoro a tempo determinato”; conseguentemente, se il reddito complessivo non supera euro 8.000 la detrazione minima spettante non potrà essere inferiore a euro 1.380.

Detrazioni produzione reddito e collaborazioni cococo o a progetto: l'Agenzia delle Entrate, con circolare n. 58 del 18 giugno 2001 (par. 1.5) ha chiarito che ai fini del calcolo delle detrazioni fiscali per la produzione del reddito, quando si eroga il compenso al collaboratore nel periodo di imposta successivo a quello di maturazione occorre avere riguardo al periodo di lavoro cui il corrispettivo si riferisce ancorché quest'ultimo ricada in un periodo di imposta precedente.

Pertanto, ipotizzando un contratto di collaborazione a progetto con inizio il 1° giugno e termine il 31 dicembre: qualora il committente eroghi il compenso nel corso dell'anno d'imposta, egli è tenuto a riconoscere le detrazioni di imposta in relazione al periodo di maturazione (ossia, 214 giorni relativi al periodo giugno-dicembre) ma nella misura vigente al momento dell'erogazione medesima (quindi, detrazioni vigenti nel 2015); resta fermo il principio secondo cui, comunque, le detrazioni possono spettare nella misura massima di 365 giorni per ogni periodo d'imposta.

Sul punto l'agenzia delle entrate ha inoltre precisato che tra i giorni relativi ad anni precedenti per i quali spettano le detrazioni fiscali non vanno considerati quelli compresi in periodi di lavoro per i quali si è già fruito, in precedenza, delle medesime detrazioni.

Detrazione minima e bonus Renzi 80 euro
Come abbiamo già detto, secondo quanto disciplinato dalla circolare n. 15 del 2007, "Le detrazioni spettanti in caso di reddito complessivo non superiore a euro 8.000 nella misura di 690 euro per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e di 1.380 euro per i rapporti a tempo determinato non devono essere rapportate al periodo di lavoro. Ne discende che le stesse non sono cumulabili tra loro ne' con quelle minime previste per i pensionati di cui ai commi 3 e 4 del nuovo articolo 12 ne' con quelle previste per i redditi diversi di cui al comma 5 dello stesso articolo 12 del Tuir. Il contribuente che si trova nella possibilità astratta di fruire di più di una delle menzionate detrazioni minime, potrà scegliere di applicare quella favorevole".

Da qualche anno è stato approvato un comma 1-bis all'art. 13 – Altre detrazioni del TUIR, che affianca alle detrazioni per lavoro dipendente di cui al comma 1 dell'art. 13, il cosiddetto e famoso Bonus Renzi di 80 euro, che si concretizza in un bonus di 960 euro annuali, da riparametrare su base mensile in base al numero di giorni di detrazioni per lavoro dipendente.

Ebbene, la normativa sul bonus di 80 euro contiene come requisito essenziale per il diritto al bonus di 80 euro, anche per un solo giorno di spettanza, che "l'imposta lorda superi la detrazione per lavoro dipendente".

Come abbiamo visto nel caso dei rapporti di lavoro a tempo determinato, per legge spetta il diritto ad una detrazione minima di 1.380 euro, in luogo della detrazione minima di 690 euro prevista per i contratti a tempo indeterminato.

Possono quindi capitare dei casi di contribuenti che hanno una detrazione minima che può innalzarsi a 1.380 euro in luogo di 690 euro, determinato un non superamento dell'imposta lorda sulla detrazione per lavoro dipendente, con la conseguenza di perdita del diritto al bonus Renzi.

Ebbene, quanto precisato dalla circolare n. 15 del 2007 (Il contribuente che si trova nella possibilità astratta di fruire di più di una delle menzionate detrazioni minime, potrà scegliere di applicare quella favorevole"), in linea con l'art. 53 della Costituzione, consente al contribuente di scegliere tra la detrazione di 690 euro e quella 1.380 euro. Ovviamente nel caso in cui, nell'anno d'imposta considerato, il contribuente abbia avuto un contratto a tempo indeterminato (in essere o ultimato).

Quindi se il contribuente ha avuto nell'anno d'imposta un tirocinio (o stage), trasformatosi in un apprendistato o indeterminato, oppure ha avuto un contratto a tempo determinato con trasformazione a tempo indeterminato, oppure ha avuto un periodo in Naspi seguito o preceduto da un contratto a tempo indeterminato, egli potrà scegliere, anche in ottica di diritto al bonus Renzi, la detrazione minima a lui più favorevole tra 690 e 1380 euro.

Il discorso non può essere esteso a coloro che hanno avuto due o più contratti a tempo determinato. Trattiamo ora questi casi.

Detrazioni lavoro dipendente e tempo determinato
Moltissimi lavoratori hanno avuto nell'anno d'imposta uno o più contratti di lavoro a tempo determinato. Si pone il problema, in questi casi, di determinare l'esatto ammontare della detrazione per lavoro dipendente spettante.

Come abbiamo ampiamente visto, nel caso di un rapporto a tempo determinato la detrazione minima spettante è di 1.380 euro, essendo previsto che nel TUIR all'art. 13, comma 1, in caso di reddito complessivo inferiore a 8.000 euro viene ben precisato che "L'ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 1.380 per i rapporti a tempo determinato". E questo va considerato anche ai fini del riconoscimento del bonus Renzi, senza possibilità di optare per la detrazione minima di 690 euro, che è per i contratti a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda l'ammontare effettivo della detrazione per lavoro dipendente, anche e soprattutto per coloro che superano la detrazione minima di 1.380 euro, il calcolo della detrazione dipende dal numero di giorni di lavoro dipendente del rapporto a termine.

Se nel mese è avvenuto la conclusione del rapporto di lavoro (esempio contratto a tempo determinato in scadenza il 15 dicembre), al lavoratore spetteranno tanti giorni di detrazioni per lavoro dipendente per quanti giorni è stato in forza nel mese (nel caso in esempio, 15 giorni di detrazioni per lavoro dipendente).

Detrazione lavoro dipendente e part-time
In caso di contratto di lavoro part-time, la detrazione per lavoro dipendente spettante invece è sempre la stessa, ossia è di ammontare pari al full-time, solo che ovviamente sarà rapportata al minor reddito da lavoro dipendente percepito per effetto dell’orario di lavoro ridotto.

In altre parole, una persona che ha un contratto di lavoro part-time al 50% e lavora per 31 giorni in un mese, avrà diritto alla detrazione per lavoro dipendente per 31 giorni, ma essa sarà calcolata sul reddito complessivo percepito che nel caso del part-time a 20 ore settimanali è ovviamente della metà di un collega che lavora full-time, a parità di CCNL e livello di inquadramento.

In ogni caso, nessuna riduzione delle detrazioni va effettuata in caso di particolari modalità di articolazione dell'orario di lavoro (ad esempio, il contratto part-time orizzontale, verticale o ciclico), né in caso di giornate di sciopero.

Due contratti di lavoro part-time: spettano sempre 365 giorni di detrazioni. In presenza di più redditi di lavoro dipendente, nel calcolare il numero dei giorni per i quali spettano le detrazioni, i giorni compresi in periodi contemporanei devono essere computati una sola volta. Quindi se il lavoratore è in possesso di due CUD (ora Certificazione Unica) in quanto negli stessi mesi ha avuto due rapporti di lavoro, è bene considerare che la detrazione per lavoro dipendente spetta una sola volta e quindi va ricalcolata la tassazione, presentando la dichiarazione dei redditi, se entrambi i datori di lavoro hanno applicato la detrazione per lavoro dipendente in busta paga.

Detrazione lavoro dipendente e apprendistato
A tutti gli effetti di legge, il contratto di apprendistato (es. apprendistato professionalizzante) viene considerato un rapporto a tempo indeterminato. Il Ministero del lavoro, con la risposta all'interpello n. 79 del 12 novembre 2009, riassume infatti tutte le tesi dottrinali e giurisprudenziali volte a ritenere il rapporto di apprendistato un contratto a tempo indeterminato.

La conseguenza di questa equiparazione del contratto di apprendistato al contratto a tempo indeterminato (ricordiamo che c'è la facoltà delle parti di recedere dal contratto di apprendistato al termine del periodo formativo), è che dal punto di vista fiscale sia in termini di rapporto tra detrazione per lavoro dipendente e apprendistato, tra detrazione minima e apprendisti, il rapporto di apprendistato beneficia delle stesse agevolazioni fiscali riferibili all'indeterminato. Ad esempio, spetta la detrazione minima di 690 euro.

Per quanto riguarda il calcolo della detrazione fiscale per lavoro dipendente agli apprendisti, va sottolineato che agli stessi spettano le detrazioni per un numero di giorni pari ai giorni lavoratori, come tutti gli altri lavoratori qualificati. La detrazione, come nel caso del part-time, è calcolata sulla base del reddito da lavoro dipendente ridotto che l'apprendista percepisce per effetto del sottoinquadramento contrattuale o per effetto della percezione di una percentuale ridotta della retribuzione riferibile al livello finale di destinazione al termine dell'apprendistato.

In termini di detrazioni fiscali per lavoro dipendente, quindi, nessun minor diritto spetta agli apprendisti.

Detrazione lavoro dipendente e tirocinio (stage)
Per quanto riguarda il diritto alla detrazione per lavoro dipendente dei tirocinanti o stagisti, va detto che dal punto di vista fiscale, a norma dell'art. 50 del TUIR e più precisamente della lettera c), sono considerate equiparate a reddito da lavoro dipendente “le somme da chiunque corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale se il beneficiario non è legato da rapporti di lavoro dipendente nei confronti del soggetto erogante.”.

E più precisamente le borse di studio, essendo percepite con riferimento al risultato conseguito in un anno scolastico, sono equiparate alla tipologia dei rapporti di lavoro a tempo determinato (Agenzia delle Entrate, risoluzione n. 156/e/2009). E pertanto spetta anche la detrazione minima di 1.380 euro.

Come confermato dalla risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 95/E/2012, anche l'indennità di partecipazione erogata agli stagisti o tirocinanti, come previsto dalla normativa regionale, è da considerarsi reddito assimilato a quello di lavoro dipendente e quindi a tale indennità saranno applicate le aliquote Irpef a scaglioni di reddito del TUIR al fine della determinazione dell'imposta lorda. Ai fini della determinazione dell'imposta netta da trattenere e versare saranno riconosciute le detrazioni di imposta per produzione del reddito (art. 13, DPR n. 917/1986 TUIR) ragguagliate alla durata del periodo di tirocinio a cui il reddito corrisposto è riferito. Potranno essere riconosciute anche le detrazioni per familiari a carico (art. 12, DPR n. 917/1986 TUIR) ove richieste dal tirocinante.

Essendo la detrazione minima di 1.380 euro, va da sé che il bonus Renzi potrà essere riconosciuto allo stagista solo se l'indennità di partecipazione percepita nell'anno solare superi i 6.005 euro circa, perché in tal caso l'imposta lorda supera i 1.380 euro di detrazione minima.

Il discorso cambia se subito dopo il tirocinio, lo stagista stipula nell'anno d'imposta un contratto di apprendistato o indeterminato, che essendo appunto a tempo indeterminato, consentono la scelta della detrazione minima tra 690 e 1.380 euro, con la conseguenza di poter scegliere la più favorevole ai fini della tassazione e del bonus Renzi.

Detrazione lavoro dipendente e contratto a chiamata
Per quanto riguarda le detrazioni fiscali per lavoro intermittente (contratto a chiamata), l’indennità di disponibilità, in quanto somma percepita in relazione al rapporto di lavoro, è considerata reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51, c. 1 del Tuir.

INDICAZIONI PRESENTI NELLA CIRCOLARE DEL MINISTERO DELLE FINANZE N. 3/1998

“Le detrazioni per lavoro dipendente vanno rapportate al periodo di lavoro o di pensione nell'anno e cioè al numero dei giorni compresi nel periodo di durata del rapporto di lavoro per i quali il lavoratore ha diritto alle detrazioni per lavoro dipendente. Si tratta del numero di giorni che hanno dato diritto al reddito di lavoro dipendente (compresi i trattamenti pensionistici) soggetti a tassazione, a fronte del quale è concessa la detrazione. In tale numero di giorni vanno in ogni caso compresi le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi e vanno sottratti i giorni per i quali non spetta alcun reddito, neppure sotto forma di retribuzione differita, quali le mensilità aggiuntive etc. (ad esempio, in caso di assenza per aspettativa senza corresponsione di assegni). Nessuna riduzione delle detrazioni va effettuata in caso di particolari modalità di articolazione dell'orario di lavoro, quali il part-time verticale o orizzontale, né in presenza di giornate di sciopero. Analogo criterio deve essere adottato per i contratti a tempo determinato, per i quali, partendo dal numero dei giorni compresi nel periodo di durata del rapporto, vanno sottratti quelli per i quali non compete il diritto alla retribuzione.

In presenza di contratti di lavoro dipendente a tempo determinato caratterizzati dalla effettuazione di prestazioni “a giornata” (per esempio, per i lavoratori edili e i braccianti agricoli) la detrazione spettante per le festività, i giorni di riposo settimanale e i giorni non lavorativi compresi nel periodo che intercorre tra la data d'inizio e quella di fine di tali rapporti di lavoro deve essere determinata proporzionalmente al rapporto esistente tra le giornate effettivamente lavorate e quelle previste come lavorative dai contratti collettivi nazionali di lavoro e dai contratti collettivi territoriali applicabili per i contratti a tempo indeterminato delle medesime categorie. Il risultato del rapporto, se decimale, va arrotondato all'unità successiva.

Si ricorda che ai fini dell'attribuzione delle detrazioni, l'anno deve intendersi composto al massimo di 365 giorni, anche negli anni bisestili.

Si precisa, altresì, che le detrazioni competono nell'anno in cui i redditi per i quali sono concesse sono assoggettati a tassazione, ciò anche con riferimento ai redditi sostitutivi di quelli di lavoro dipendente, quali, a esempio, le indennità e somme erogate dall'INPS o da altri Enti, per le quali le detrazioni spettano in relazione ai giorni che danno diritto all'indennità (per esempio, per l'indennità di disoccupazione, con riferimento ai giorni di disoccupazione che hanno dato diritto alla corresponsione dell'indennità) e alle borse di studio. In merito a queste ultime si conferma che le detrazioni spettano con riferimento ai giorni compresi nel periodo assunto ai fini dell'erogazione della borsa di studio (anche se relativo ad anni precedenti). Pertanto, se la borsa di studio è stata erogata per il rendimento dell'anno scolastico o accademico, la detrazione spetta per l'intero anno; se, invece, è stata corrisposta in relazione alla frequenza di un particolare corso, spetta per il periodo di durata del corso stesso. Infine, si ricorda che, in presenza di più redditi di lavoro dipendente, nell'individuare il numero di giorni per i quali spettano le detrazioni, quelli compresi in periodi contemporanei vanno computati una volta soltanto e che, tra i giorni relativi ad anni precedenti, per i quali spetta il diritto alle detrazioni, non vanno considerati quelli compresi in periodi di lavoro per i quali si è già fruito in precedenza delle detrazioni”.

Detrazione lavoro dipendente e Naspi
L’ indennità di disoccupazione NASpI, percepita in sostituzione del reddito di lavoro dipendente, in forza di quanto disposto dall’art. 6, comma 2 del Tuir, costituisce reddito della stessa categoria di quello perduto o sostituito. Quindi è un reddito assimilabile al lavoro dipendente, pertanto al lavoratore disoccupato che percepisce la Naspi, l’Inps, in qualità di sostituto di imposta ai sensi dell’art. 64 del DPR n. 600/73, sulle somme erogate a titolo di indennità NASpI applica le ritenute Irpef e riconosce anche, se richieste nella domanda Naspi, le eventuali detrazioni fiscali per reddito (art. 13 del Tuir) e per carichi di famiglia (art. 12 del Tuir). Pertanto, al lavoratore in Naspi spetta la detrazione per lavoro dipendente.

A quanto ammonta la detrazione per lavoro dipendente in Naspi? Viene calcolata considerando il periodo di Naspi come numero di giorni di detrazione spettante, considerando il reddito come un tempo determinato con applicazione della detrazione minima di 690 euro.

Modulo richiesta detrazione per lavoro dipendente
Come precisato dalla circolare dell'Agenzia delle entrate n. 15/E/2008, il sostituto d'imposta (datore di lavoro, Inps, ecc.) dovrà riconoscere le detrazioni per lavoro dipendente di cui all’art. 13 del TUIR a prescindere dalla dichiarazione di richiesta di fruizione presentata dal lavoratore (ciò a differenza di quanto avviene per le detrazioni per carichi familiari) in quanto a conoscenza di tutti gli elementi per riconoscerle.

Generalmente il datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, applica la detrazione per lavoro dipendente in via automatica, ma secondo il reddito presunto nell’anno. Il lavoratore che ha interesse a comunicare un reddito complessivo annuo diverso, per evitare brutte sorprese in sede di conguaglio fiscale di fine anno, può presentare al datore di lavoro il modulo o modello detrazioni fiscali nel quale indicare il maggiore reddito sul quale intende farsi applicare la tassazione in busta paga.

Ricordiamo che in caso di reddito annuo effettivo superiore a quello presunto applicato dal datore di lavoro in busta paga, il lavoratore ha diritto ad un importo minore di detrazioni fiscali e di conseguenza, anche per il maggior reddito percepito, ha l’obbligo di pagare una maggiore imposta Irpef. Pertanto, conviene al lavoratore modificare il proprio calcolo della tassazione in busta paga, evitando così un conguaglio Irpef a debito a dicembre oppure un conguaglio fiscale a debito presentando il 730.

Detrazioni per lavoro dipendente in vigore fino al 2013
Vediamo ora le detrazioni per lavoro dipendente fino all’anno 2013, quindi le parti abrogate e valide fino al 31 dicembre 2013. La formulazione abrogata in vigore fino al 31 dicembre 2013 delle lettere b) e c) del comma 1 dell’art. 13 erano le seguenti:

b) 1.338 euro, aumentata del prodotto tra 502 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 15.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 7.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 15.000 euro;

c) 1.338 euro, se il reddito complessivo è superiore a 15.000 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 40.000 euro.

Abrogata la detrazione di cui al comma 2 dell’art. 14, che era la seguente: “La detrazione spettante ai sensi del comma 1, lettera c), è aumentata di un importo pari a:

a) 10 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 23.000 euro ma non a 24.000 euro;

b) 20 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 24.000 euro ma non a 25.000 euro;

c) 30 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 25.000 euro ma non a 26.000 euro;

d) 40 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 26.000 euro ma non a 27.700 euro;

e) 25 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 27.700 euro ma non a 28.000 euro.

Vediamo ora nel dettaglio la misura delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente in vigore fino all’anno 2013 in base agli scaglioni di reddito previsti:

Se il reddito complessivo non è superiore a € 8.000, la detrazione, rapportata al periodo di lavoro svolto nell’anno oggetto del calcolo d’imposta, può raggiungere la cifra di € 1840 rapportata ai mesi lavorati nell’anno. Nel caso quest’ultimi siano pochi (o perché il contratto è tempo determinato oppure perché il contratto a tempo indeterminato è iniziato negli ultimi mesi dell’anno solare), il Fisco ha previsto una misura minima della detrazione effettivamente spettante, infatti quest’ultima non può essere inferiore a € 690 per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato o a € 1380 per i rapporti di lavoro a tempo determinato.

Se il reddito complessivo, invece, è una cifra tra gli € 8.000 ed i € 15.000, la misura della detrazione è di € 1.338, aumentata di una ulteriore cifra che va da zero fino ad un massimo di € 502. Tale cifra ulteriore, nello specifico, si calcola moltiplicano € 502 per il rapporto tra la cifra ottenuta con la sottrazione € 15.000 meno il proprio reddito complessivo, e la cifra di € 7.000 (es. se il reddito è € 12.000, avremo la detrazione di € 1.338 aumentata della cifra di € 215,10, risultato della moltiplicazione di € 502 per 0,42857 che è il risultato del rapporto € 15.000-€12000/€ 7.000. Detrazione totale € 1.553,10).

Se invece il reddito è superiore a € 15.000 ma non a € 55.000, la detrazione di € 1.338 è ridotta proporzionalmente in base al rapporto tra la cifra ottenuta con la sottrazione tra € 55.000 e il proprio reddito complessivo, e la cifra di € 40.000 (es. se il reddito è € 30.000, avremo la detrazione di € 836,25 ottenuta moltiplicando € 1.338 per 0,625 risultato del rapporto € 55.000-€30.000 / € 40.000. Detrazione totale € 836,25).

Inoltre, la detrazione calcolata, nei casi in cui il reddito complessivo è compreso tra € 23.000 ed € 28.000, è aumentata di una cifra che va dai € 10 ad € 40.

Cosa cambia, quali sono le differenze
Il confronto tra la detrazione fiscale per lavoro dipendente fino al 2013 e la nuova formulazione delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente per gli anni 2014, 2015, 2016, 2017 e 2018 è facile per coloro che hanno un reddito complessivo non superiore a 8.000 euro. In questi casi, sempre rapportando la detrazione al periodo di lavoro svolto nell’anno oggetto del calcolo d’imposta, c’è un aumento di 40 euro annui. In sostanza, l’Irpef lorda viene ridotta fino a tale cifra.

Resta confermata, o meglio non modificata, la disposizione che prevede una detrazione non inferiore a 690 euro per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato o a 1.380 euro per i rapporti di lavoro a termine.

Le modifiche riguardano i redditi oltre gli 8.000 euro, che appunto interessano le lettere b) e c) del comma 1 dell’art. 13 radicalmente modificati dalla Legge di Stabilità 2014. Per effettuare un confronto calcoliamo, a titolo di esempio, la detrazione spettante in caso di un reddito di 12.000 euro, di 25.000 euro e di 40.000 euro. E verifichiamo l’ammontare della detrazione stessa nel 2014 e quanto invece era spettante nel 2013.

Calcolo detrazioni per lavoro dipendente con un reddito di 12.000 euro
Fino al 2013, quindi prima dell’entrata in vigore delle modifiche della Legge di Stabilità 2014, essendo il reddito di 12.000 euro una cifra rientrante tra gli 8.000 ed i 15.000 euro della vecchia formulazione dell’art. 13, la misura della detrazione era di 1.338 euro, aumentata di una ulteriore cifra che va da zero fino ad un massimo di € 502. Tale cifra ulteriore, nello specifico, si calcolava moltiplicano € 502 per il rapporto tra la cifra ottenuta con la sottrazione € 15.000 meno il proprio reddito complessivo, e la cifra di € 7.000. Quindi con un reddito di 12.000 euro, avevamo una detrazione di € 1.338 aumentata della cifra di € 215,10, risultato della moltiplicazione di € 502 per 0,42857 che è il risultato del rapporto € 15.000-€12000/€ 7.000. Detrazione totale 2013: € 1.553,10.

Con la nuova formulazione (978 euro, aumentata del prodotto tra 902 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 20.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 28.000 euro), dal 1 gennaio 2014 con un reddito di 12.000 euro abbiamo una detrazione fiscale spettante pari alla cifra di 978 euro aumentata della cifra di 721,60 euro, risultato della moltiplicazione di 902 euro per 0,8 che è il risultato del rapporto €28.000-12.000 e diviso 20.000). Detrazione lavoro dipendente 2014-2019 spettante pari a € 1.699,60.

Calcolo detrazioni con un reddito di lavoro dipendente di 25.000 euro
Nel caso di un reddito di 25.000 euro, la formulazione fino al 2013 cambia. Si applicava la seguente: “c) 1.338 euro, se il reddito complessivo è superiore a 15.000 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 40.000 euro”. Mentre dal 2014, con un reddito di 25.000 euro resta confermata la formulazione dell’esempio di 12.000 euro quindi “978 euro, aumentata del prodotto tra 902 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 20.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 28.000 euro”.

Procedendo ai calcoli, fino al 2013, con un reddito di 25.000 euro la detrazione spettante era quindi di 1.003,50 euro, cifra ottenuta moltiplicando € 1.338 per 0,75 risultato del rapporto € 55.000 -€25.000 / € 40.000. A questa cifra vanno aggiunte le detrazioni del comma 2 poi abrogato dalla Legge di Stabilità 2014, che prevedeva un aumento di 20 euro “se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 24.000 euro ma non a 25.000 euro”. Detrazione spettante 2013 pari a 1.023,50 euro.

Applicando la nuova formulazione a partire dal 2014 (e in vigore per le detrazioni per lavoro dipendente 2016 e 2017) il calcolo su un reddito di 25.000 euro è pari alla cifra di 978 euro aumentata della cifra di 108,24 euro, risultato della moltiplicazione di 902 euro per 0,12 che è il risultato del rapporto 28.000-25.000 diviso 20.000. Detrazione lavoro dipendente 2014-2019 spettante pari a 1.086,24 euro.

Calcolo detrazioni con un reddito da lavoro dipendente di 40.000 euro
Nel caso di un reddito complessivo ai fini Irpef di 40.000 euro, la formulazione fino al 2013 resta la stessa del precedente esempio su 25.000 euro. Ossia si applicava sempre la lettera “c) 1.338 euro, se il reddito complessivo è superiore a 15.000 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 40.000 euro”. Mentre dal 2014 per le detrazioni per lavoro dipendente per gli anni 2014, 2015, 2016 e 2017, con un reddito di 40.000 euro, la formulazione cambia e si applica la nuova lettera “c) 978 euro, se il reddito complessivo è superiore a 28.000 euro ma non a 55.000 euro; la detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 27.000 euro”.

Procedendo nuovamente ai calcoli, fino al 2013, con un reddito di 40.000 euro la detrazione spettante era quindi di 501,75 euro, cifra ottenuta moltiplicando € 1.338 per 0,375 risultato del rapporto € 55.000 -€40.000 / € 40.000. Detrazione spettante 2013 pari a 501,75 euro.

Applicando la nuova formulazione a partire dal 2014 per le detrazioni per lavoro dipendente per gli anni 2014, 2015, 2016 e 2017, il calcolo su un reddito di 40.000 euro è pari alla cifra di 543,33 euro, risultato della moltiplicazione di 978 euro per 0,555555, che è il risultato del rapporto 55.000-40.000 diviso 27.000. Detrazione lavoro dipendente 2014-2019 spettante pari a 543,33 euro.

Art. 13 TUIR aggiornato al 2020
Altre detrazioni

Se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o piu' redditi di cui agli articoli 49, con esclusione di quelli indicati nel comma 2, lettera a), e 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), spetta una detrazione dall'imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro nell'anno, pari a:

a) 1.880 euro, se il reddito complessivo non supera 8.000 euro. L’ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 690 euro. Per i rapporti di lavoro a tempo determinato, l’ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 1.380 euro;(1)
b) 978 euro, aumentata del prodotto tra 902 euro e l'importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 20.000 euro, se l'ammontare del reddito complessivo è superiore a 8.000 euro ma non a 28.000 euro;(2)
c) 978 euro, se il reddito complessivo è superiore a 28.000 euro ma non a 55.000 euro; la detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 27.000 euro(2).

BONUS RENZI

1-bis. Qualora l'imposta lorda determinata sui redditi di cui agli articoli 49, con esclusione di quelli indicati nel comma 2, lettera a), e 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), sia di importo superiore a quello della detrazione spettante ai sensi del comma 1, compete un credito rapportato al periodo di lavoro nell'anno, che non concorre alla formazione del reddito, di importo pari a:
1) 960 euro, se il reddito complessivo non è superiore a 24.000 euro;
2) 960 euro, se il reddito complessivo è superiore a 24.000 euro ma non a 26.000 euro. Il credito spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 26.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 2.000 euro. (4)

 

DETRAZIONI PER REDDITI DA PENSIONE

Se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o piu' redditi di pensione di cui all'articolo 49, comma 2, lettera a), spetta una detrazione dall'imposta lorda, non cumulabile con quella di cui al comma 1 del presente articolo, rapportata al periodo di pensione nell'anno, pari a:

a) 1.783 euro (e non più 1.725 euro), se il reddito complessivo non supera 7.500 euro. L'ammontare della detrazione effettivamente spettante non puo' essere inferiore a 690 euro;
b) 1.255 euro, aumentata del prodotto tra 528 euro (e non più 470 euro) e l'importo corrispondente al rapporto tra 15.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 7.500 euro, se l'ammontare del reddito complessivo e' superiore a 7.500 euro ma non a 15.000 euro;
c) 1.255 euro, se il reddito complessivo e' superiore a 15.000 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 40.000 euro.

Se alla formazione del reddito complessivo dei soggetti di eta' non inferiore a 75 anni concorrono uno o piu' redditi di pensione di cui all'articolo 49, comma 2, lettera a), spetta una detrazione dall'imposta lorda, in luogo di quella di cui al comma 3 del presente articolo, rapportata al periodo di pensione nell'anno e non cumulabile con quella prevista al comma 1, pari a:

a) 1.880 euro (e non più 1.783 euro), se il reddito complessivo non supera 7.750 euro. L'ammontare della detrazione effettivamente spettante non può essere inferiore a 713 euro;
b) 1.297 euro, aumentata del prodotto tra 583 euro (e non più 486 euro) e l'importo corrispondente al rapporto tra 15.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 7.250 euro, se l'ammontare del reddito complessivo e' superiore a 7.750 euro ma non a 15.000 euro;
c) 1.297 euro, se il reddito complessivo e' superiore a 15.000 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 40.000 euro. Se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o più redditi di cui agli articoli 50, comma 1, lettere e), f), g), h) e i), ad esclusione di quelli derivanti dagli assegni periodici indicati nell'articolo 10, comma 1, lettera c), fra gli oneri deducibili, (1)53, 66 e 67, comma 1, lettere i) e l), spetta una detrazione dall'imposta lorda, non cumulabile con quelle previste ai commi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, pari a:
a) 1.104 euro, se il reddito complessivo non supera 4.800 euro;
b) 1.104 euro, se il reddito complessivo è superiore a 4.800 euro ma non a 55.000 euro. La detrazione spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l'importo di 55.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l'importo di 50.200 euro.

5-bis. Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi derivanti dagli assegni periodici indicati fra gli oneri deducibili nell'articolo 10, comma 1, lettera c), spetta una detrazione dall'imposta lorda, non cumulabile con quelle previste dai commi 1, 2, 3, 4 e 5, in misura pari a quelle di cui al comma 3, non rapportate ad alcun periodo nell'anno.

Se il risultato dei rapporti indicati nei commi 1, 3, 4 e 5 è maggiore di zero, lo stesso si assume nelle prime quattro cifre decimali.

6-bis. Ai fini del presente articolo il reddito complessivo è assunto al netto del reddito dell'unità immobiliare adibita ad abitazione principale e di quello delle relative pertinenze di cui all'articolo 10, comma 3-bis.

Per collocamento mirato si intende il complesso degli “strumenti che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione”.

Dal collocamento mirato deriva l’istituto delle assunzioni obbligatorie. Le aziende con più di 14 dipendenti devono riservare una quota destinata a: invalidi civili con percentuale di invalidità dal 46 al 100%, invalidi del lavoro con percentuale di invalidità superiore al 33%, gli invalidi per servizio (ex dipendenti pubblici , compresi i militari), invalidi di guerra e civili di guerra con minorazioni dalla prima all’ottava categoria, i non vedenti e i sordomuti; categorie protette: profughi italiani, orfani e vedove/i di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio ed equiparati (sono equiparati alle vedove/i e agli orfani i coniugi e i figli di grandi invalidi del lavoro dichiarati incollocabili, dei grandi invalidi per servizio o di guerra con pensione di prima categoria), vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità organizzata.

I datori di lavoro che impiegano un numero di dipendenti:

  • Dai 15 ai 35, sono obbligati ad assumere un disabile
  • Dai 36 ai 50, devono assumere 2 disabili
  • oltre i 50, devono riservare il 7% dei posti a favore dei disabili più l’1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati

I datori di lavoro presentano la richiesta di assunzione entro sessanta giorni dal momento in cui sono obbligati all’assunzione. A seguito delle novità introdotte dal Decreto Legislativo n.151/2015, è intervenuta la nota direttoriale del 23 gennaio 2017 fornendo dei chiarimenti sugli obblighi assuntivi per i datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti, nonché dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni che, senza scopo di lucro, operano nel campo della solidarietà sociale, dell’assistenza e della riabilitazione.
La determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere è data dal computo, tra i dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

Non sono computabili: i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato di durata inferiore a 6 mesi, i disabili, i soci di cooperative di produzione e lavoro, i dirigenti, i lavoratori assunti con contratto di inserimento, i lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore (salvo quanto disposto dall'articolo 34, comma 3 del Decreto Legislativo n.81/2015), i lavoratori assunti per attività da svolgersi all’estero per la durata di tale attività, i soggetti impegnati in lavori socialmente utili, i lavoratori a domicilio e i lavoratori che aderiscono al “programma di emersione”, gli apprendisti, i lavoratori con contratto di formazione-lavoro, i lavoratori con contratto di reinserimento.
Le modalità attraverso le quali si procede all’assunzione del lavoratore appartenente a categorie protette sono di due tipi: la chiamata nominativa, la convenzione e l’avviamento per graduatoria.

Con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo n.185/2016, di modifica della Legge 68/99, i lavoratori già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio, sono computati nella quota di riserva ma devono avere una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60 per cento oppure superiore al 45 per cento nel caso di disabilità intellettiva e psichica.
Il decreto-legge 28 giugno 2013 n.76, convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 99, per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, ha previsto poi l’obbligo per i datori di lavoro pubblici e privati di adottare degli “aggiustamenti” ragionevoli (definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità) nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

Il potere disciplinare permette al datore di lavoro di punire comportamenti dei dipendenti che siano contrari agli obblighi di diligenza e di obbedienza attraverso la procedura di richiamo disciplinare. Questo potere è giustificato dall’esigenza di garantire uno svolgimento corretto e ordinato dell’attività lavorativa.

Le condotte vietate e le corrispondenti sanzioni sono raccolte in un apposito documento, il cosiddetto codice disciplinare aziendale. A seconda della gravità della condotta le sanzioni disciplinari a disposizione dell’azienda sono:

  • Rimprovero verbale;
  • Ammonizione scritta;
  • Multa;
  • Sospensione;
  • Trasferimento;

Ad eccezione del rimprovero verbale, le altre misure devono rispettare precisi requisiti formali e di procedura, per consentire al dipendente di difendersi ed evitare così che la sanzione venga adottata.

Di seguito si analizzeranno nel dettaglio forma e contenuto della lettera di richiamo disciplinare e quali strumenti di tutela ha a sua disposizione il lavoratore.

Richiamo disciplinare sul lavoro: cosa dice la legge

La legge di riferimento è lo Statuto dei lavoratori, l’art. 7 Legge n. 300/70 prevede che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del dipendente senza:

  • Avergli prima fatto presente che il comportamento tenuto da quest’ultimo è una violazione del codice disciplinare;
  • Aver sentito le sue giustificazioni.

La contestazione dev’essere:

  • Immediata, da intendersi come tempestiva rispetto al momento in cui il datore ha avuto completa conoscenza del fatto;
  • Specifica, nel senso di riportare dettagliatamente il comportamento incriminato, in modo tale da consentire al dipendente di difendersi.

Fin qui le regole generali valevoli per tutte le tipologie di sanzioni. Tuttavia, ogni qual volta il codice disciplinare preveda l’applicazione di misure che non siano il rimprovero verbale il datore deve rispettare precisi requisiti formali e di procedura.

Richiamo disciplinare scritto

Dal punto di vista formale la contestazione della condotta vietata deve avvenire in forma scritta. La forma scritta serve a garanzia del diritto di difesa del lavoratore.

La forma non verbale è finalizzata ad assicurare l’immutabilità dei fatti oggetto di contestazione, impedendo al datore di sollevare circostanze nuove.

Contestazione disciplinare: come funziona

La legge impone un’apposita procedura per l’adozione di tutte quelle sanzioni che non siano il rimprovero verbale (sempre l’art. 7 Legge n. 300/70).

  1. Il primo passo è la consegna della lettera di richiamo al lavoratore. Sul punto non ci sono indicazioni normative tuttavia è bene che il documento venga consegnato a mani del lavoratore e dallo stesso firmato per ricevuta. In alternativa, raccomandata con ricevuta di ritorno.
  2. Entro cinque giorni dalla consegna della contestazione il lavoratore può presentare le proprie giustificazioni, in forma scritta o orale. E’ fatta salva la possibilità per i contratti collettivi di prevedere un termine più ampio. I cinque giorni sono da intendersi di calendario (si considerano anche i festivi). Il dipendente può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. La giurisprudenza (sentenza Cassazione n. 5057/2016) ha escluso l’ausilio di un legale.

Se il lavoratore presenta le sue giustificazioni senza riservarsi di integrarle entro i cinque giorni, secondo la giurisprudenza (Cassazione sentenza n. 1884/2012) è possibile sanzionarlo prima della scadenza del termine. Per altro orientamento (sempre Cassazione sentenza n. 2610/2012) il datore deve comunque attendere che siano passati i cinque giorni per adottare i provvedimenti.

Qualora il dipendente non ne faccia richiesta, il datore non è obbligato a sentire la sua difesa e trascorsi cinque giorni dalla contestazione può decidere se irrogare o meno la sanzione.

Lettera di richiamo disciplinare: cosa deve contenere

La lettera di richiamo disciplinare sul lavoro deve prevedere essenzialmente:

  • In oggetto la dicitura “procedimento di contestazione disciplinare”;
  • Nella prima parte la formula “con la presente si comunica l’apertura della procedura di contestazione disciplinare ai sensi dell’articolo 7 Legge n. 300/70, del CCNL applicato e del codice disciplinare”;
  • Nella seconda parte dev’essere riportato in dettaglio il fatto contestato al dipendente;
  • Infine, l’invito a “presentare le argomentazioni a difesa in qualsiasi forma entro il termine di 5 giorni” o l’eventuale maggior termine previsto dal CCNL;
  • Firma del lavoratore per ricevuta (qualora venga consegnata a mani del dipendente).

In merito alla fase finale del procedimento disciplinare, le generiche indicazioni dello Statuto dei lavoratori sollevano alcune questioni di ordine pratico. Facciamo un esempio. Per le sanzioni più gravi rispetto al rimprovero verbale, il datore di lavoro è tenuto ad irrogare il provvedimento disciplinare non prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione (per iscritto) al lavoratore. La materiale esecuzione della sanzione, invece, può essere successiva: entro quali termini? La legge non lo prevede. Cosa è consigliabile che faccia il datore di lavoro?

Con il comma 5 dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) si entra nella fase finale del procedimento disciplinare, ben definito dalla Cassazione come " fattispecie complessa integrata da più atti giuridici successivi..... posti in legale sequenza ".

Sanzioni disciplinari: problemi interpretativi

La scarna dizione contenuta nella norma ha posto alcuni problemi che si possono così sintetizzare:

1) applicazione anticipata della sanzione;

2) termine entro cui il datore di lavoro può applicare la sanzione;

3) irrogazione della sanzione prima della scadenza del termine (venti giorni) utile per la richiesta del collegio di conciliazione ed arbitrato;

4) motivazione del provvedimento disciplinare;

5) nullità del provvedimento disciplinare per vizio procedurale e sua eventuale rinnovazione.

Applicazione anticipata della sanzione

La disposizione stabilisce unicamente che le sanzioni più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicate prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto degli addebiti. E' appena il caso di ricordare come avendo quest'ultima natura recettizia il termine decorra dal momento in cui il dipendente ha avuto cognizione della volontà sanzionatoria del proprio datore. Recentemente, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare come una eventuale consegna a mano del provvedimento, rifiutata dall’interessato, per essere valida, deve essere accompagnata dalla lettura della lettera di adozione (o, almeno, del tentativo) alla presenza di testimoni (Cass. 14 marzo 2019 n. 7306).

In dottrina ed in giurisprudenza si è, da subito, fatta una chiara distinzione tra applicazione ed esecuzione della sanzione: per applicazione si intende la formale irrogazione del provvedimento e non la materiale esecuzione che può essere successiva.

La questione prospettata sub 1) riguarda l'eventuale possibilità che l'imprenditore, esaurita velocemente la fase del contraddittorio, proceda ad applicare la sanzione (il momento va, comunque, tenuto distinto da quello della materiale esecuzione) prima che sia scaduto il termine di 5 giorni. Il termine ha natura perentoria e deve essere considerato come un lasso di tempo tutto a disposizione del dipendente per produrre ed integrare per iscritto, od oralmente, le proprie giustificazioni.

II termine svolge anche un'altra funzione: assicura un periodo temporale necessario per far decantare la situazione e per far adottare una soluzione più meditata, non condizionata (per quanto possibile) dalla impulsività.

In giurisprudenza non si è avuto un atteggiamento uniforme, tanto è vero che è dovuta intervenire, in passato, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U., 26 aprile 1994, n. 3965) per dirimere il contrasto. Essa ha affermato che il termine di 5 giorni ha la funzione esclusiva di assicurare al lavoratore il tempo necessario per approntare la propria linea difensiva, per cui, ove ciò sia avvenuto, il provvedimento disciplinare può essere immediatamente adottato, senza che sia necessario attendere il decorso del tempo previsto dal comma 5.

Una questione che, talora, si presenta nel corso dell'esame degli atti relativi al provvedimento disciplinare, è rappresentato dalla circostanza che sovente, irrogando la sanzione, si adoperi un'espressione diversa (ma equivalente) rispetto a quella adoperata dal contratto collettivo.

E' stata invocata, chiedendo l'annullamento per vizio procedurale, la tipicità della sanzione: le decisioni arbitrali hanno ritenuto che tale principio non escluda che una sanzione prevista nel CCNL (ad esempio, biasimo scritto) possa essere legittimamente applicata da parte di un imprenditore che ha adottato una espressione lessicale diversa (ammonizione scritta, deplorazione, diffida), in quanto tipicità della sanzione non significa " carattere sacramentale " delle formule utilizzate per irrogarla, purché sia stato rispettato I ‘iter procedurale di garanzia.

Termine entro cui il datore di lavoro può applicare la sanzione

La risposta al secondo problema l'hanno, in parte, offerta alcuni contratti collettivi che hanno condizionato l'esercizio del potere dell'imprenditore ad un termine breve e perentorio (ad esempio, 5 o 6 giorni) dalla presentazione delle giustificazioni, pena l'accoglimento per "facta concludentia" delle stesse. La natura perentoria delle disposizioni contrattuali ha fatto sì che sia a livello di lodi arbitrali che di decisioni di diritto e di merito, i provvedimenti adottati oltre il termine perentorio previsto dal contratto collettivo ed impugnati fossero annullati per vizio procedurale. E' evidente come, qualora siano stati concessi al lavoratore "termini a difesa" più lunghi di quelli previsti dalla norma legislativa, il termine per l'applicazione della sanzione si sposti avanti per un uguale periodo.

Una carenza che si riscontra nel dettato normativo è che non è fissato alcun termine per l'esecuzione. Personalmente si ritiene che, una volta applicato il provvedimento, esso possa essere procrastinato "ad libitum": occorre far riferimento a regole di buon senso in quanto la sanzione non può rimanere sospesa come una " spada di Damocle "sulla testa del dipendente oltre un tempo ragionevole, comunque correlato alla struttura ed alle esigenze aziendali.

Irrogazione della sanzione prima della scadenza del termine per la richiesta del collegio di conciliazione ed arbitrato

Si pone, a questo punto, il problema relativo alla circostanza che, una volta completato l'iter disciplinare, il datore di lavoro possa procedere alla materiale esecuzione del provvedimento senza attendere il decorso dei 20 giorni concesso dalla norma per il ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, cosa che ne provoca la temporanea sospensione.

Da più parti si è sostenuto che non si può mettere il lavoratore nelle condizioni di ricorrere con il provvedimento già scontato, in quanto se così fosse verrebbe palesemente violata la norma, con la conseguente insignificante funzionalità dell'effetto sospensivo; pertanto, il provvedimento così irrogato sarebbe affetto da nullità procedurale.

Per contro, la stessa Corte di Cassazione, già da tempo (Cass.; 19 ottobre 1983, n. 6133), supportata anche da parte della dottrina e da giudici di merito, ha sostenuto che, una volta applicata la sanzione, l'iter disciplinare è completo e l'imprenditore non ha alcun obbligo di attendere il decorso dei 20 giorni prima di procedere alla naturale irrogazione: il principio invocato è che la legge non prevede assolutamente che occorra attendere questo termine per l'esecuzione.

C'è un obbligo che grava sul datore di lavoro: una volta venuto a conoscenza che il dipendente ha iniziato la procedura arbitrale si deve attivare immediatamente perchè non si verifichino gli effetti sanzionatori non ancora maturati (ad esempio, se si tratta di sospensione ed alcuni giorni non sono stati ancora scontati, il lavoratore deve essere invitato a riprendere servizio, se sì tratta di multa non si deve procedere alla trattenuta in busta paga, ecc.). Se la decisione arbitrale sarà quella di "assolvere" in tutto o in parte il dipendente, l'imprenditore dovrà ripetere le somme dovute per le giornate di sospensione ingiustamente "scontate". Tra le due tesi prospettate, la seconda appare quella praticabile, in quanto più consona allo svolgimento di un rapporto di lavoro non legato soltanto ad aspetti formalistici.

Motivazione del provvedimento disciplinare

Un ulteriore problema riguarda, nel silenzio della norma, l'eventuale obbligo di motivazione delle sanzioni disciplinari: esso non è di secondaria importanza se si pensa, ad esempio, alla stessa normativa sui licenziamenti che postula sempre (sia pure, in taluni casi, a richiesta, come nelle imprese sottodimensionate alle sedici unità) un motivo. La questione non è tanto se il provvedimento debba, di per sè, essere motivato (cosa scontata) ma se le ragioni che hanno portato alla adozione della sanzione debbano esser esplicitate direttamente nella lettera di comminazione o indicate "per relationem" facendo riferimento alla precedente corrispondenza contestativa. E,' come si vede, un problema di carattere rituale che ha avuto dalla Corte di Cassazione (Cass., 5 maggio 1987, n. 4170; Cass., 20 marzo 1991, n. 2963) una precisa soluzione: è sufficiente fare esplicito richiamo agli addebiti già contestati.

Alla motivazione del provvedimento disciplinare è legata, ad avviso di chi scrive, una ulteriore riflessione che riguarda la possibile “natura esemplare” della sanzione, quando la stessa è inflitta, a mo’ di esempio, ad un lavoratore o ad un gruppo di lavoratori, alfine di contrastare una crescente consuetudine. La Corte di Cassazione (Cass., 25 luglio 1984, n. 4382; Cass., 19 febbraio 1983, n. 6912) ebbe da dire la sua, affermando che la legittimità dell’atto imprenditoriale viene meno quando il motivo determinante si traduca nel proposito di far conseguire all’atto stesso un risultato vietato dalla norma imperativa (ad esempio, contestazione del divieto di fumo al solo rappresentante sindacale, con un nutrito contenzioso aziendale, e non ad altri dipendenti).

Alcune considerazioni sono necessarie circa la “tipicità” delle sanzioni relative a determinate mancanze: se le parti hanno prefigurato un determinato provvedimento (sia pure entro limiti minimi e massimi) per un illecito disciplinare, il datore di lavoro non può derogare. Particolarmente significativa è la procedura e la declaratoria delle sanzioni nel settore pubblico, per effetto del D. Lgs. n. 150/2009 che agli articoli 68 e 69 ha modificato, con particolare puntigliosità, l’art. 55 del D. Lgs. n. 165/2001, introducendo anche i successivi articoli 55 –bis, ter, e quater: soffermandoci sull’argomento sopra nominato, va sottolineato come il comma 3 del nuovo art. 55 non abbia lasciato alcun potere discrezionale al Dirigente non potendo essere la sanzione diversa da quella prevista per legge o per contratto collettivo per quella specifica infrazione. Le “maglie normative” si sono ancora più strette in caso di licenziamento disciplinare di un dipendente pubblico per effetto dei Decreti Legislativi n. 116/2016 e n. 118/2017.

Nullità del provvedimento disciplinare per vizio procedurale

Si è detto, più volte, che il procedimento disciplinare è composto da più atti tra loro correlati posti in maniera tale che il vizio di uno può determinare la nullità dello stesso; tuttavia, è stata sollevata la questione se il datore di lavoro possa rinnovare il procedimento nullo per vizio procedurale. Ad avviso di chi scrive, se la nullità scaturisce, ad esempio, dalla mancata affissione del codice disciplinare (che deve sussistere sia al momento in cui si è verificato il fatto che allorquando è stata contestata la mancanza) non è possibile rinnovare la procedura, trattandosi di una nullità insanabile. Se, invece, il vizio riguarda altri momenti della procedura e non vi siano ostacoli posti dalla contrattazione collettiva (ad esempio, termine entro cui adottare la sanzione), ciò è possibile: la Corte di Cassazione (Cass., 24 luglio 1978, n. 3692) ha affermato che "fa corretto uso del potere disciplinare l'imprenditore che, preso atto della nullità per vizio procedurale della precedente sanzione, ne applichi un'altra formalmente valida".

L'ammissibilità di una nuova azione disciplinare, possibile da un punto di vista teorico e con i limiti dinanzi evidenziati, trova un ulteriore ostacolo nella circostanza che essa deve avvenire entro limiti di tempo tali da lasciare in oggettiva evidenza il nesso causale tra l'infrazione commessa ed il provvedimento validamente applicato. Vale la pena di sottolineare, infine, come il principio del “ne bis in idem” non possa trovare applicazione nel caso in cui l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro riguardi fatti che, sebbene della stessa indole di quelli che hanno formato oggetto di precedente provvedimento, siano tuttavia diversi per le particolari circostanze di tempi e di luogo che li contraddistinguono e come tali siano stati contestati nella loro specifica individualità.

Sapere qual è il giusto preavviso quando si rassegnano le dimissioni è molto importante, altrimenti c’è il rischio di conseguenze economiche rilevanti in quanto bisognerà farsi carico della relativa indennità di mancato preavviso.

Una conseguenza spiacevole per il lavoratore che rassegna le dimissioni ed è per questo che quando si decide d’interrompere il rapporto di lavoro si vuole prima capire quanti sono i giorni di preavviso da rispettare.

E attenzione: perché l’obbligo del preavviso vale anche per il datore di lavoro, il quale deve dare al dipendente la comunicazione con largo anticipo se non vuole rischiare di dovergli pagare la relativa indennità. Ma di questo ne parliamo nella nostra guida dedicata al preavviso di licenziamento, mentre di seguito ci concentreremo sulle dimissioni.

In entrambi i casi, comunque, con il termine preavviso si intende quel tempo che decorre dal momento in cui la volontà d’interrompere unilateralmente il rapporto di lavoro viene comunicata all’altra parte e il giorno in cui avviene l’effettiva risoluzione del contratto.

Vediamo attraverso una dettagliata guida quanto preavviso in caso di dimissioni il lavoratore deve dare al datore di lavoro a seconda del CCNL di riferimento e cosa fare per non incorrere in una decurtazione dello stipendio.

Perché è previsto e come si comunica?

Il periodo di preavviso è quel periodo di tempo successivo alla presentazione delle dimissioni in cui il lavoratore continua a svolgere la propria attività lavorativa.

Grazie a questo strumento il datore di lavoro è tutelato, poiché ha a disposizione un periodo di tempo sufficiente per individuare, assumere e formare un nuovo dipendente che prenderà posto e mansioni del dimissionario.

Come si presenta il preavviso? Una delle novità del Jobs Act è quella per cui, a partire dal 12 marzo 2016, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del contratto di lavoro vanno effettuate esclusivamente per via telematica.

Per le informazioni e le istruzioni operative su come fare vi consigliamo di leggere la nostra guida alle dimissioni online con tutti gli approfondimenti di cui avete bisogno.

Attenzione, però: ci sono dei lavoratori, come ad esempio quelli con figli minori di tre anni, che sono esclusi dall’obbligo delle dimissioni online. Questi, quindi, dovranno comunicare il preavviso inviando una lettera di dimissioni al datore di lavoro, con le dimissioni che poi andranno convalidate dall’Ispettorato territoriale del lavoro.

Quanti sono i giorni di preavviso da rispettare?

Mentre il licenziamento da parte del datore di lavoro può avvenire solo in caso di determinate condizioni fissate dalla legge, il nostro ordinamento consente al dipendente di presentare le dimissioni senza giustificarne il motivo; l’importante è farlo rispettando il periodo del preavviso.

Prima di vedere nel dettaglio quanti sono i giorni di preavviso in caso di dimissioni bisogna ricordare che nella maggior parte dei CCNL viene stabilito che il periodo del preavviso decorra dal  o dal 16° giorno di ogni mese.

Quindi, se il dipendente dimissionario invia la comunicazione della propria volontà di recedere il contratto in un momento diverso, il calcolo della data del termine del rapporto di lavoro comincia nel momento di decorrenza più prossimo.

Ad esempio, per una comunicazione inviata il 18 giugno, il periodo di decorrenza scatterà dal 1° luglio dello stesso anno.

Il numero di giorni di preavviso da rispettare in caso di dimissioni dipende da diversi fattori e, in particolar modo, da:

  • tipologia di contratto di lavoro;
  • livello d’inquadramento;
  • anzianità di servizio;
  • qualifica.

Sia per il contratto di apprendistato e sia per il contratto a tempo indeterminato qualora si decida di dare le dimissioni è opportuno consultare il CCNL con cui si è stati assunti per determinare il periodo di preavviso obbligatorio.

Nel caso di contratto a tempo indeterminato, inoltre, giocano un ruolo fondamentale anche l’anzianità e la qualifica. Generalmente i tempi per il preavviso delle dimissioni sono la metà di quelli previsti per il licenziamento, quindi:

  • lavoro full time e massimo 5 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 8 giorni di calendario;
  • lavoro full time e più di 5 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 15 giorni di calendario;
  • lavoro part-time e massimo 2 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 4 giorni di calendario;
  • lavoro part-time e più di 2 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 8 giorni di calendario.

I singoli CCNL, però, potrebbero prevedere dei termini differenti; ecco una tabella dove sono indicati i termini del preavviso per alcune tipologie di contratto.

Cosa succede se non si rispettano i giorni del preavviso?

Nel caso in cui il lavoratore non rispetti il periodo di preavviso previsto per legge il datore di lavoro ha diritto a richiedere un’indennità di mancato preavviso; tale indennità è pari all’importo delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso non lavorato, come stabilito dall’articolo 2118 del Codice Civile.

Pensiamo, ad esempio, ad un lavoratore che dovrebbe dare preavviso di 30 giorni. Non lo fa: al momento della liquidazione delle ultime competenze a questo verrà sottratto un importo pari allo stipendio che sarebbe stato percepito in quei 30 giorni nel caso in cui fossero stati lavorati.

Quando non serve dare il preavviso

Nel contratto a tempo determinato non è previsto il recesso anticipato e di conseguenza non è previsto nemmeno il preavviso: il rapporto di lavoro può concludersi prima della data di scadenza del contratto solo in caso di accordo di entrambe le parti o in caso di recesso per giusta causa (art. 2119 Codice Civile).

Se quindi il lavoratore decide di presentare le dimissioni, in mancanza di giusta causa, il datore di lavoro potrà chiedere un risarcimento pari al periodo mancante alla conclusione del contratto.

In questi casi cosa fare? Essendo riconosciuta la possibilità di recesso anticipato in caso di accordo di entrambe le parti, il lavoratore dovrà accordarsi con il datore di lavoro.

Il preavviso non è dovuto neppure per il recesso di un contratto a progetto, di uno stage o per la fine di una collaborazione coordinata continuativa. In caso di dimissioni per giusta causa non è dovuto nessun preavviso e l’effetto del licenziamento è dunque immediato.

Altra situazione in cui il preavviso non è necessario è quella della lavoratrice che rassegna le dimissioni nel periodo di maternità, ossia dal momento in cui viene a conoscenza della gravidanza e fino al compimento dell’anno di vita del figlio.

Giorni di assenza non conteggiati

La regola vuole che il preavviso debba essere lavorato. Non si può, ad esempio, approfittare di questo periodo per smaltire le ferie residue. A tal proposito, è opportuno sapere che tra i giorni di preavviso non vengono conteggiati eventuali giorni di assenza del lavoratore per:

  • malattia
  • infortunio
  • ferie
  • maternità

Il periodo di preavviso riparte, dunque, dal giorno di rientro del lavoratore.

Rinuncia del preavviso

È comunque facoltà del datore di lavoro rinunciare al preavviso di dimissioni, consentendo dunque al lavoratore di cambiare immediatamente lavoro. Si tratta, comunque, di un accordo tra le parti che va messo per iscritto, con sottoscrizione di entrambi.

Sconsigliamo assolutamente di credere alla rinuncia del preavviso semplicemente dichiarata per voce; in questo caso sarebbe la parola del datore di lavoro contro la vostra, con il rischio che questo pretenda - con tutto il diritto di farlo - il pagamento della suddetta indennità di mancato preavviso

Il licenziamento è l’atto con cui, il datore di lavoro recede unilateralmente dal contratto di lavoro. Sulla base di quanto disposto dalla L. n. 604 del 15 luglio 1996, dello Statuto dei lavoratori e della L. n. 108 del 11 maggio 1990, il datore di lavoro può licenziare un dipendente soltanto per giusta causa, per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) oppure un licenziamento collettivo. Il rapporto di lavoro può estinguersi, alla pari degli altri rapporti di durata, per recesso delle parti.

In particolare, licenziamento è l’atto con il quale l’azienda, pone fine, unilateralmente, dal rapporto di lavoro, a prescindere dalla volontà del dipendente.

Viceversa, in caso di dimissioni, la volontà di interrompere il rapporto di rapporto è del soltanto dipendente.

Lo scopo di questo articolo è capire la differenza tra il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo oggettivo o soggettivo nel licenziamento individuale.

Il licenziamento, essendo un recesso unilaterale dal contratto di lavoro, deve trovare fondamento:

  • Nella condotta del dipendente;
  • Attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Nel primo gruppo rientrano i licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, mentre rientrano nei licenziamenti legati all’attività produttiva o all’organizzazione di lavoro, ovvero i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

Licenziamento per giusta causa

Con il termine giusta causa, si intende una trasgressione o una inadempienza da parte del lavoratore, tale da compromettere il rapporto di fiducia instauratosi con il suo datore.

In questo caso, data la gravità della motivazione, è possibile recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro, senza preavviso.

La nozione di giusta causa è riscontrabile nell’art. 2119 c.c., il quale prevede che, le parti (datore di lavoro e lavoratore) possono recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato senza la necessità di preavviso, qualora si verifichi una causa che non permetta, la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, la giusta causa si sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro (Cass. 24/7/03, n. 11516).

Inoltre, è rinvenibile la giusta causa non soltanto a causa di inadempienze contrattuali, ma anche in caso di comportamenti estranei alla sfera del contratto e diversi dall’inadempimento, purché idonei a riflettersi nell’ambiente di lavoro e a far venire meno la fiducia che impronta di sé il rapporto.

La giusta causa, pertanto comporta il recesso immediato dal rapporto di lavoro, senza neppure erogazione, da parte del datore di lavoro, dell’indennità di preavviso.

Procedimento disciplinare

Il licenziamento per giusta causa, in quanto sanzione disciplinare, deve essere preceduta dall’attivazione di un procedimento disciplinare, in particolare dalla preventiva comunicazione della contestazione di addebito, in modo da consentire al lavoratore di difendersi dall’accusa a suo carico.

contratti collettivi, solitamente, prevedono i casi e le ipotesi idonei ad integrare la giusta causa di licenziamento.

In primo luogo, quindi, deve essere contestato l’illecito disciplinare, tramite una lettera formale e scritta, recapitata con raccomandata a.r. o con consegna a mano.

Il lavoratore ha 5 giorni di tempo per presentare le sue difese, opponendo le proprie ragioni.

Egli può richiedere di essere ascoltato personalmente. Trascorsi i 5 giorni o, se richiesta, dopo l’audizione del lavoratore, il datore di lavoro deve, in tempi altrettanto celeri, comunicare il provvedimento finale, ossia la lettera di licenziamento. 

Il licenziamento per giusta causa può essere, a sua volta, impugnato dal dipendente con una comunicazione scritta da inviare tramite lettera entro 60 giorni dalla ricezione. Nei successivi 180 giorni, decorrenti dall’invio, egli dovrà, a mezzo del suo avvocato, presentare ricorso in tribunale.

Esempi

A titoli esemplificativo, il licenziamento per giusta causa può essere integrato in caso di:

  • Assenza ingiustificata del dipendente oltre i termini contrattuali;
  • Furto di beni aziendali, quindi commessi nell’esercizio delle mansioni lavorative, danneggiamenti e o fatti criminosi al di fuori del rapporto lavorativo, tali da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro;
  • Lavorare per un altro datore di lavoro nei periodi coperti da indennità di malattia;
  • Ritardi ripetuti sul posto di lavoro;
  • Minacce o percosse;
  • Rifiuto di svolgere trasferte;
  • Rifiuto del trasferimento in altra sede o di cambiare mansioni, purché equivalenti e non dequalificanti….

Il licenziamento per giustificato motivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, trova il suo fondamento in ragioni di ordine economico o organizzativo.

L’art. 3 della Legge 604/1966 sancisce che, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può essere intimato per:

“Per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si distingue dai licenziamenti disciplinari per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, causati da comportamenti colpevoli o negligenti del dipendente.

La legge esige che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia adottato, al verificarsi di circostanze oggettive e verificabili, in mancanza delle quali il provvedimento può essere impugnato.

Costituiscono, in particolare, cause idonee a giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività o anche solo il venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore, senza la possibilità di un suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento.

La riforma del 2012 ha ricondotto all’area del licenziamento per motivi oggettivi anche le ipotesi del licenziamento per superamento del periodo di comporto e del licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore.

Occorre prestare particolare attenzione, prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto, i limiti entro i quali si può dire integrato sono particolarmente rilevanti.

In quanto, qualora, venga accertata l’insussistenza dei motivi, il licenziamento comminato risulta illegittimo ed il lavoratore ha diritto a ottenere le tutele offertegli dalla legge.

Esempi

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere integrato in caso di:

  • Chiusura dell’attività produttiva;
  • Soppressione posto di lavoro;
  • Outsourcingo affidamento di servizi a imprese esterne;
  • Carcerazione preventiva del dipendente;
  • Detenzione per condanna passata in giudicato;
  • Assenza per malattia prolungata o superamento del comporto (cioè il periodo in cui non si può licenziare un lavoratore assente per malattia per un periodo massimo stabilito dal CCNL, “eccessiva morbilità o superamento del periodo di comporto”);
  • Inidoneità fisica del lavoratore…

Obbligo di repêchage

La giurisprudenza ha elaborato un’ulteriore forma di tutela del dipendente, nota con il nome di repêchage, ovvero la preventiva valutazione, all’adozione del provvedimento, della possibilità di ricollocare il dipendente nella stessa azienda, ma ad esempio in un diverso settore produttivo, anche con mansioni diverse e di minore rilevanza.

La ricollocazione costituisce, in sostanza, un obbligo per il datore di lavoro ogni qual volta sia possibile effettuarla, al fine di evitare la conclusione del rapporto.

Tentativo di conciliazione e preavviso

Come abbiamo detto sopra, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere preceduto da un idoneo periodo di preavviso.

Nelle aziende con requisiti dimensionali maggiori, è obbligatorio esperire anche un tentativo preventivo di conciliazione presso la competente Direzione Territoriale del Lavoro.

Impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il dipendente può impugnare il licenziamento entro 60 giorni e conseguentemente adire gli uffici del Giudice del Lavoro competente entro i 180 giorni successivi.

In tale sede, sarà il datore di lavoro ad avere l’onere della prova, ovvero provare la sussistenza delle ragioni che hanno comportato il licenziamento del dipendente.

Il datore dovrà dimostrare il nesso di causalità, tra le motivazioni adottate ed il licenziamento del dipendente, le motivazioni sulla scelta del dipendete, la sua impossibilità del suo ricollocamento in ambito aziendale etc..

Illegittimità

Ai fini della disciplina prevista in caso di illegittimità del licenziamento, occorre effettuare una distinzione.

In particolare, i dipendenti assunti dopo l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act (7 marzo 2015) in aziende con più di 60 dipendenti o unità operative con più di 15 dipendenti, l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può condurre, alla reintegrazione del dipendente, quando il licenziamento era stato motivato con la disabilità fisica o psichica del lavoratore.

Al dipendente spetta anche il risarcimento del danno.

L’art. 3 del decreto attuativo del Jobs Act, dispone che, quando venga accertato che non ricorrono gli estremi per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità economica.

Il reintegro del dipendente è previsto, per i casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in cui sia accertata la manifesta insussistenza del fatto materiale contestato.

L’importo è compreso tra le 6 e le 36 mensilità.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sussiste nel caso in cui, il lavoratore compia, dei comportamenti disciplinarmente rilevanti.

Anche il giustificato motivo soggettivo, rientra, pertanto, nell’ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare.

All’interno dell’ambito applicativo del giustificato motivo soggettivo, rientrano, lo scarso rendimento ed anche il comportamento negligente del dipendente.

A differenza del licenziamento per giusta causa il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, soggiace all’obbligo di preavviso, la cui durata è disciplinata dalla contrattazione collettiva.

Sia il licenziamento per giusta causa che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo si configurano come licenziamenti disciplinari, con la conseguenza che ad essi deve applicarsi la procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.

Pertanto, il datore di lavoro deve effettuare, una preventiva e specifica contestazione dell’addebito e garantire la difesa del lavoratore.

Per potersi irrogare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è comunque necessario che il lavoratore abbia compiuto una violazione di rilevante gravità.

Tuttavia, la violazione degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore non deve essere così grave da legittimare l’applicazione del licenziamento disciplinare senza preavviso (c.d. per giusta causa).

Tuttavia, così come per la giusta causa, il presupposto necessario è il venir meno del vincolo fiduciario.

Ricapitolando, per giustificare un licenziamento per giustificato motivo soggettivo:

  • L’inadempimento deve essere non di scarsa importanza;
  • Inadempimento di un obbligo contrattuale, e non extracontrattuale.
  • Lesione di un interesse rilevante per il datore di lavoro.

Esempi

A titolo esemplificativo, possono giustificare un licenziamento per giustificato motivo soggettivo:

  • Licenziamento per negligenza;
  • Scarso rendimento;
  • Omissione di informazioni…

Differenza fra licenziamento per giusta causa e giustificato motivo

Le differenze tra il licenziamento per giusta causa e quello per giustificato motivo consistono nella gravità del fatto che lo giustifica.

Per poter intimare un licenziamento per giusta causa, la condotta posta in essere dal dipendente deve essere talmente grave da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, pertanto, il contratto si risolve immediatamente.

Nei licenziamenti per giustificato motivo, la motivazione alla base del recesso del rapporto di lavoro, non è di gravità tale da interrompere immediatamente il rapporto.

Pertanto, l’azienda deve concedere al dipendente, idoneo periodo di preavviso, stabilito dai contratti collettivi, ovvero il periodo di attività lavorativa nel periodo che intercorre tra la data di comunicazione del licenziamento e l’ultimo giorno effettivo di lavoro.

Qualora l’azienda, non intenda concedere il periodo di preavviso è tenuta a corrispondere l’indennità sostitutiva, pari alla retribuzione cui avrebbe avuto diritto il dipendente se avesse lavorato durante il preavviso.

Unilav

La distinzione tra licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo deve caratterizzare anche la comunicazione al Centro per l’impiego.

Nel modello Unilav deve essere indicata la casistica corretta, distinguendo tra licenziamento per giusta causa, giustificato motivo (soggettivo o oggettivo).

Ticket licenziamento

Inoltre, sia nei casi di licenziamento per giusta causa che nei casi di licenziamento per giustificato motivo, il datore di lavoro deve, ( se il dipendente licenziamento sia a tempo indeterminato), versare il contributo di licenziamento a mezzo modello F24 insieme ai contributi ordinari INPS.

L’importo dev’essere versato entro e non oltre i termini previsti per il mese successivo quello di risoluzione del rapporto di lavoro.

Requisiti formali del licenziamento

I requisiti formali riguardano, la forma e il contenuto dell’atto di recesso.

L’art. 2 della Legge n. 604/1966, il datore di lavoro, deve comunicare il licenziamento al prestatore di lavoro per iscritto e contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.

In mancanza di tali requisiti, il recesso è inefficace.

Termini per impugnare il licenziamento

Il lavoratore può impugnare, il licenziamento entro 60 giorni, a pena di decadenza, dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta. Essa può manifestarsi con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale.

L’impugnazione è inefficace se nei 180 giorni successivi non è seguita dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale.

Come abbiamo detto in precedenza, l’onere della prova, della sussistenza dei motivi posti a fondamento del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, è in capo al datore di lavoro.

Revoca del licenziamento

La riforma Fornero del 2012 ha introdotto la possibilità di revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro.

La revoca, in particolare, deve essere effettuata entro 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del licenziamento e produce l’effetto di ripristinare il rapporto di lavoro senza soluzione di continuità.

Licenziamento illegittimo

Si può parlare di illegittimità del licenziamento, nel caso in cui, sia posto in essere da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore e non sussista nè la giusta causa nè un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo).

A seguito dell’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 23/2015, sussistono due regimi di tutela diversi a seconda che il lavoratore licenziato sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015.

Assunti prima del 7 marzo 2015

In particolare, per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015:

  • In caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio, oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge) o inefficace (perché intimato in forma orale), a tutti i lavoratori, a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, è riconosciuto il diritto a essere reintegrati nel posto di lavoro e a vedersi corrisposta un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (tutela reintegratoria piena);
  • Al di fuori di queste ipotesi:
    • Se il licenziamento viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste di cui all’art. 18 della Legge n. 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), si applicano i regimi di tutela previsti da tale norma, così come modificata dalla riforma del mercato del lavoro del 2012, regimi che, in talune specifiche ipotesi, contemplano la possibilità che il datore di lavoro sia condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
    • Al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il solo diritto a percepire un indennizzo economico.

Ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in poi trovano applicazione le tutele previste dal Decreto legislativo n. 23/2015, in tema di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Assunti dopo il 7 marzo 2015

Nel caso in cui, il datore di lavoro abbia licenziato un dipendente per ragioni discriminatorie ovvero se il licenziamento sia stato intimato in forma orale, nonché gli altri casi di nullità stabiliti espressamente dalla legge, oltre al licenziamento illegittimo per difetto del motivo della disabilità psico-fisica del lavoratore, è prevista la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro disposta dal giudice e nella condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno.

La tutela reintegratoria piena si applica anche ai lavoratori licenziati da datori di lavoro che occupano meno di 15 dipendenti.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa

Per quanto riguarda i licenziamenti per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo) sia per quelli per giusta causa, nei casi di illegittimità è previsto un indennizzo economico legato all’anzianità di servizio.

Sussistono, tuttavia, due eccezioni:

  • Se il fatto materiale alla base del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa risulta insussistente, si applica il regime delle reintegrazione sul posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria;
  • Qualora l’illegittimità sia determinata da difetto di motivazione o da vizi procedurali, il giudice dichiara comunque estinto il rapporto alla data del licenziamento e l’indennità risarcitoria.

Impugnazione stragiudiziale del licenziamento

Il licenziamento deve essere impugnato entro il termine perentorio di 60 giorni dalla ricezione della notifica o lettera di licenziamento.

La seconda scadenza da ricordare è il deposito del ricorso in tribunale, entro 180 giorni dalla data di impugnazione del licenziamento, questa deve essere seguita dal deposito del ricorso giudiziale.

Il termine dei 180 giorni decorre dalla data di invio della lettera di impugnazione, non conta quando il datore di lavoro ne è venuto a conoscenza.

Tentativo di conciliazione e arbitrato

In alternativa al ricorso in Tribunale il lavoratore può esperire nei termini, un tentativo di conciliazione e arbitrato.

Nel caso in cui la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non venisse raggiunto l’accordo, il ricordo al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro 60 giorni decorrenti dal rifiuto o dal mancato accordo.

Qualora il datore di lavoro risponda al tentativo di conciliazione e arbitrato, occorre distinguere:

  • Il datore di lavoro accetta il tentativo di conciliazione e arbitrato, ma si conclude con un mancato accordo. Il termine di 60 giorni non opera. Resta efficace unicamente il termine di 180 giorni, al quale si aggiunge il periodo di sospensione dei 20 giorni previsto dal codice di procedura civile.
  • Il datore di lavoro rifiuta la richiesta di conciliazione e arbitrato. Si applica il termine di 60 giorni per il deposito del ricorso al giudice del lavoro (ma non si applicano i 20 giorni di sospensione del termine di decadenza.
  • Infine, il datore di lavoro accetta il tentativo di conciliazione a arbitrato, ma non deposita la propria memoria di difesa entro 20 giorni. Occorre conteggiare sia il termine di sospensione di 20 giorni, sia il successivo termine di 60 giorni per il deposito del ricorso in Tribunale.

Indennizzo da licenziamento

Nel caso di datori di lavoro fino a 15 dipendenti nell’unità produttiva, o nel comune o 60 dipendenti in tutto il territorio, l’ammontare dell’importo è pari a mezza mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 1,5 e non superiore a 6 mensilità.

Negli altri casi, in riferimento a requisiti dimensionali superiori, la legge n. 96/2018, di conversione del Dl 87/2018, entrata in vigore il 12 agosto 2018, ha disposto che tale importo non può mai essere inferiore a 3 (prima solo 2) e superiore a 27 (prima solo 18) mensilità.

Tra le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro l’istituto del licenziamento individuale riveste un ruolo di primaria importanza e di maggior peso sia per la sua rilevanza sociale sia per le conseguenze che esso ha sulla sfera personale e patrimoniale del lavoratore licenziato.

1. La cessazione del rapporto di lavoro. Nozioni generali

Come ogni vicenda collegata alla vita umana, anche il rapporto di lavoro ha un suo termine nel tempo, viene cioè ad un certo momento a cessare.

Nel concetto di cessazione si fanno normalmente rientrare tutte le ipotesi alle quali l’ordinamento collega l’effetto estintivo del vincolo contrattuale, che la specificità del rapporto di lavoro, che ruota come ormai noto sull’implicazione della persona del lavoratore e sulla natura di “durata” del vincolo stesso, assoggetta a discipline e modalità tipiche di estinzione dell’obbligazione, anche in deroga alle ordinarie regole dettate per i rapporti obbligatori in generale, e contrattuali in particolare.

Tra queste è indubbio che l’istituto del licenziamento individuale rivesta un ruolo di primaria importanza e di maggior peso sia per la sua rilevanza sociale che per le conseguenze che esso ha sulla sfera personale e patrimoniale del lavoratore licenziato e per questo, e non a caso, attorno ad esso si è andata sviluppando, nel corso del tempo, una fitta trama normativa e giurisprudenziale.

Ma il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al quale è dedicata la presente indagine, può normalmente estinguersi anche per altre vicende tra loro molto diverse, alle quali va comunque dedicato un cenno.

Una vicenda estintiva del vincolo contrattuale, di natura biologica, è la morte di uno dei due contraenti. Nel caso del lavoratore, trattandosi di prestazione personale infungibile, la morte determina automaticamente l’estinzione del contratto, seppur con la maturazione del diritto all’indennità di preavviso; nel caso di morte del datore di lavoro, si ha estinzione automatica del contratto se si tratta di datore di lavoro persona fisica, priva di qualsiasi organizzazione compreso l’imprenditore individuale, ovvero in tutti quei casi in cui l’intuitus personae rivesta rilievo assorbente (si pensi all’esempio classico di un segretaria di uno studio professionale), mentre negli altri casi il rapporto il lavoro può proseguire con l’organizzazione imprenditoriale, fermo restando che occorrerà tener conto delle regole sulla successione mortis causa.

La cessazione del rapporto di lavoro può, altresì, derivare dalla comune volontà dei contraenti di porre termine al rapporto stesso, ossia per risoluzione consensuale secondo la regola comune del mutuo consenso dettata dall’art. 1372, 1° co., c.c., pienamente legittima se frutto di una genuina volontà di entrambe le parti. Proprio, però, la difficoltà di verificare tale genuinità, e l’utilizzo spesso fraudolento dell’istituto per aggirare gli stringenti limiti posti dalla legislazione al licenziamento individuale del lavoratore, hanno condotto di recente il legislatore a circondarlo di cautele, ribaltando in un primo momento il precedente assetto fondato sul principio di libertà di forme, seppur limitatamente ad un momento logicamente successivo al manifestarsi della volontà di sciogliere il rapporto di lavoro (Legge n. 92/2012) ed in seguito a superarlo definitivamente, con l’introduzione dell’obbligo di forma scritta e di convalida della manifestazione di volontà del lavoratore e della presunzione di radicale invalidità di ogni manifestazione espressa in modo diverso (art. 26 d.lgs. n. 151/2015).

Resta, comunque, indubbio che le vicende estintive del contratto di lavoro più comuni sono riconducibili al recesso di una delle parti contrattuali, atto unilaterale recettizio che assume una diversa denominazione a seconda che a realizzarlo sia il datore di lavoro o il lavoratore: nel primo caso si è in presenza di un licenziamento, mentre nel secondo caso l’atto dà luogo a dimissioni.

La disciplina codicistica del 1942, agli artt. 2118 e 2119, regolamentava il recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato in maniera unitaria, ponendo sullo stesso piano datore di lavoro e lavoratore e prevedendo espressamente che “ciascun dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nei termini e nei modi stabiliti”, ovvero senza preavviso, nella stessa ottica paritaria, sia nel caso di contratto di lavoro a termine che a tempo indeterminato, “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”.

Tale assetto normativo è stato completamente superato dalla successiva evoluzione legislativa speciale, che, come vedremo funditus oltre, progressivamente ha circoscritto, limitato e regolato il potere di recesso del datore di lavoro nell’ottica di tutela del contraente debole-lavoratore, divaricando enormemente la disciplina dei licenziamenti da quella delle dimissioni, che, di contro, è rimasta assoggettata alla disciplina codicistica, e quindi al regime della libera re cedibilità, sino alla introduzione della Legge n. 92/2012 e della successiva procedimentalizzazione delle dimissioni ad opera del d.lgs. 151/2015.

La decisione di dimettersi, invero, è sempre stata considerata libera ed insindacabile, in virtù del diverso bilanciamento degli interessi in gioco, e validatamente espressa in qualsiasi forma, anche orale o per facta concludentia, pur potendo residuare incertezze in merito all’accertamento della genuinità della volontà di dimettersi e di estinguere il rapporto di lavoro.

Nondimeno, l’abuso dell’istituto delle dimissioni, utilizzate molto spesso in frode per liberarsi di lavoratori sgraditi (si pensi al fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco1) ma soprattutto la difficoltà di accertare in concreto la libera e consapevole volontà di dimettersi, ha indotto il legislatore ad introdurre peculiari modalità di validazione della volontà del prestatore, sulla scorta del modello già adottato ed in vigore in ipotesi specifiche e particolari (es. dimissioni rese dalle lavoratrici in gravidanza e lavoratori/trici nei primi anni di vita del bambino).

Dapprima con la procedura di convalida delle dimissioni prevista dalla Legge n. 92/2012, che però presupponeva un propedeutico atto a forma libera che restava sospensivamente condizionato, quanto ai suoi effetti, fino alla successiva convalida scritta effettuata presso le sedi previste, poi con la previsione dell’art. 26 d.lgs. 151/2015, che arretra la soglia di tutela del prestatore già al primo atto di consenso, disponendo che le dimissioni sono valide se rese “esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali”, viene espressamente sancito l’obbligo, a pena di inefficacia, della forma scritta delle dimissioni del prestatore di lavoro subordinato (e delle risoluzioni consensuali), restando esclusa ogni altra diversa forma di espressione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, che se adottata, soggiace alla presunzione assoluta di radicale invalidità.

2. L’evoluzione della disciplina dei licenziamenti: dal recesso ad nutum alla necessaria giustificazione del licenziamento

Nella sistematica del codice, come si è appena detto, il licenziamento individuale non ha una sua specifica e separata regolamentazione, essendo previsto genericamente come atto di recesso dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dagli artt. 2118 e 2119 c.c., caratterizzato unicamente dalla necessità di dare un congruo preavviso alla parte che subisce il recesso, senza alcun vincolo di forma o di motivazione.

All’epoca si trattava di una disciplina coerente con la riconduzione del contratto di lavoro ad un diritto comune contrassegnato, per tradizione, dalla contrarietà alla stipulazione di vincoli negoziali perpetui, ed in particolare la facoltà concessa ex lege ad entrambi le parti di recedere unilateralmente e liberamente dal contratto costituiva la perpetuazione di un principio liberale sancito dai codici ottocenteschi, che si erano occupati del lavoro subordinato solo per distinguerlo dai rapporti di tipo schiavistico, vietati appunto perché il vincolo di subordinazione era perpetuo e non riconducibile alla volontà negoziale2.

In questo sistema, di grande favore per il creditore di lavoro, normalmente identificato con l’imprenditore, l’interesse alla conservazione del posto di lavoro non aveva ancora assunto alcuna rilevanza, né alcuno di sognava di giudicare le scelte organizzative e le politiche di gestione del personale dell’imprenditore, arbitro assoluto della propria attività economica organizzata; la locazione del lavoro subordinato nell’impianto codicistico non era né un bene né un servizio, ma era regolato come strettamente funzionale all’organizzazione imprenditoriale, destinata dunque ad esser un prius assoluto ed insindacabile.

La drammatica crisi occupazionale del dopoguerra e la necessità di mantenere ad ogni costo i posti di lavoro esistenti, resero evidente la problematica dei licenziamenti ed impellente una sua risoluzione, di cui si fecero carico le parti sociali.

Dopo il blocco dei licenziamenti decretato nel 1945 per salvaguardare i livelli occupazionali dell’epoca, la contrattazione collettiva di massimo livello predispose per la prima volta una disciplina più specifica e ricca di quella codicistica, dando vita alla distinzione tra licenziamenti individuali e licenziamenti per riduzione del personale, i primi da giustificare o indennizzare se privi di giustificazione, i secondi da sottoporre a procedure negoziali con i sindacati.

Con gli accordi interconfederali del 1950, rinnovati nel 1965, applicabili al solo settore industriale, l’autonomia collettiva introdusse per la prima volta il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, dando al lavoratore la possibilità di impugnarlo mediante il ricorso a procedure conciliative o arbitrali, all’esito delle quali poteva, in caso di accoglimento della domanda, essere emanata una pronuncia, secondo equità, che imponeva al datore la riassunzione ovvero, in alternativa, il pagamento di una penale risarcitoria commisurata ad un certo numero di mensilità di retribuzione e alle dimensioni dell’impresa.

Pur nel generale riconoscimento della notevole rilevanza dei principi sanciti, erano comunque evidenti i limiti di tale intervento: si trattava di una regolamentazione pattizia ristretta al solo settore industriale, che assicurava nella sostanza una tutela solo di carattere obbligatorio, omettendo una effettiva tutela dell’occupazione.

Sulla spinta di un filone dottrinario costituzionalista, che fondava sugli art. 4 e 41, 2 co., Cost. il superamento della regola del recesso ad nutum, fu sollevata la questione di costituzionalità nei confronti dell’art. 2118 c.c., ritenuto appunto in contrasto con i principi sanciti dalla Carta fondamentale, che fu respinta dalla Corte Costituzionale, che, nondimeno, riconoscendo l’avvenuto superamento ordinamentale della regola della libera re cedibilità, sfruttò l’occasione per sollecitare il legislatore ad adeguare la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato “al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro e circondi di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il caso in cui si rende necessario far luogo a licenziamenti3.

Tale invito venne accolto di lì a poco con l’entrata in vigore della legge 15 luglio 1966 n. 604, che segnò, per la regolamentazione del licenziamento, la fine dell’epoca della libera recedibilità e il passaggio ad un regime di diritto speciale nel quale il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato non costituiva più principio generale dell’ordinamento.

I principi che reggono la nuova normativa, infatti, sono assai più limitativi del potere di licenziare del datore di lavoro, dal momento che viene introdotta la forma scritta, a pena di inefficacia, dell’atto estintivo (art. 2, co. 1), la necessaria giustificazione dell’atto con la previsione, accanto alla giusta causa, di un giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento (artt. 1 e 3) da comunicare entro un breve termine su richiesta del lavoratore, e viene spostato sul datore di lavoro, con un disposizione ancora oggi di grande importanza, l’onere processuale di provare la sussistenza della giustificazione del licenziamento (art. 5), sgravando in modo sensibile il lavoratore da un onere processuale difficile da assolvere, data la asimmetria di informazioni tra le due parti riguardo l’organizzazione aziendale.

Con la Legge n. 604/1966 escono anche dalla mera elaborazione teorica i licenziamenti nulli per motivo illecito o discriminatorio, in forza della disposizione dell’art. 4 che qualifica nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata, il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e/o dalla partecipazione ad attività sindacali.

Alla rilevante novità di principio la legge sul giustificato motivo non fece, però, seguire implicazioni coerenti sul versante sanzionatorio. Nel sistema della nuova legge, invero, il licenziamento illegittimo, perché privo di giusta causa o giustificato motivo, resta valido ed efficace, in quanto comunque idoneo a determinare la cessazione del rapporto di lavoro, restando l’ultima parola, in ogni caso, al datore di lavoro al quale, di fronte all’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, si riconosce la facoltà di scegliere fra la riassunzione del lavoratore entro 3 giorni dalla sentenza o il consolidamento della propria illegittima decisione di porre fine al rapporto di lavoro mediante il versamento di una somma di denaro all’interessato a titolo di risarcimento forfettario del danno.

Un passo avanti, dunque, era stato compiuto senza peraltro spingersi oltre il riconoscimento di una tutela meramente obbligatoria.

2.1 Dalla Statuto dei lavoratori alla Riforma Fornero: dalla stabilità reale alla flexicurity

Una spinta decisiva sulla via del superamento del licenziamento ad nutum fu data dalla Legge n. 300 del 20 maggio 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) con l’introduzione di un regime di vera e propria stabilità del posto di lavoro, ancorché relativa, perché pur sempre destinata a venir meno di fronte ad una legittima ragione di licenziamento.

Lo Statuto, invero, introdusse nell’ordinamento, con l’art. 18, la c.d tutela o stabilità reale, vale a dire la previsione espressa dell’invalidità del licenziamento privo di giustificazione (che la legge n. 604/1966 non prevedeva) con la sostituzione della sanzione alternativa riassunzione/pagamento di indennità con quella esclusiva della reintegrazione nel posto di lavoro, colpendo in tal modo in maniera radicale il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo sanzionandolo con la restituzione in forma specifica del bene leso, che appare ora al legislatore meritevole di essere garantito da una forma di tutela reale.

La svolta fu radicale ma destinata a sovrapporsi alla precedente disciplina, dato il suo limitato campo di applicazione, dando avvio ad un intreccio di discipline che ancora oggi caratterizza la materia, rendendola particolarmente complessa. Del nuovo regime di tutela, invero, non potevano, e non possono, beneficiare tutti i lavoratori, ma unicamente i dipendenti di imprese che occupano alle loro dipendenze più di quindici dipendenti in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, ovvero più di cinque nel caso di imprese agricole.

Siffatta limitazione venne, in parte, superata solo vent’anni più tardi, grazie anche ad un lungo lavorio esegetico giurisprudenziale che permise di metabolizzare una normativa dirompente e complessa come quella statutaria. Con la Legge n. 108/1990 si generalizzò il campo di applicazione della tutela obbligatoria, estendendo il principio della necessaria giustificazione del licenziamento anche in aree nelle quali era ancora consentito al datore di lavoro di recedere ad nutum (dal quale restarono fuori solo i lavoratori domestici, i dirigenti e i lavoratori ultrasessantenni titolari dei requisiti pensionistici) e si dilatò il campo di applicazione della tutela reale a tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio e a tutti i datori di lavoro, con unica esclusione delle organizzazioni di tendenza, che impiegassero complessivamente alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori, anche se occupati in unità produttive con meno di quindici o, se agricole, meno di cinque dipendenti.

Negli anni successivi alla introduzione nell’ordinamento lavoristico della stabilità reale del posto di lavoro, nonostante il riconoscimento da parte degli ordinamenti sovranazionali del diritto a non essere licenziati senza un valido motivo ed a ottenere un’adeguata riparazione in caso di sua violazione alla stregua di principio generale di diritto civile4, sempre più forte si avvertiva, anche in relazione al licenziamento, la pressione delle politiche economiche di flessibilizzazione delle regole, alimentate più o meno a ragione dalle politiche di flexicurity formulate nella Unione Europea a partire dal 2006/2007 e finalizzate a “convincere” le imprese a incrementare l’occupazione.

Sul presupposto che l’art. 18 Stat. Lav. e il regime di tutela da esso garantito avesse effetti negativi sulle dinamiche occupazionali, ed in risposta alle pressanti sollecitazioni formulate dalla Banca Centrale Europea nella famosa lettera inviata all’Italia nell’estate del 2011, in cui espressamente si chiedeva all’Italia “una profonda revisione delle disciplina relativa alle assunzioni ed ai licenziamenti dei lavoratori”, dopo alcune modifiche apportate alla disciplina dei licenziamenti da interventi legislativi settoriali5, venne approvata la legge di riforma n. 92 del 28 giugno 2012 (c.d. Riforma Fornero), che modificò profondamente la materia dei licenziamenti nell’ambito di un più vasto disegno di innovazione complessiva della disciplina del mercato del lavoro nel quale, peraltro, la riforma delle regole sulla reintegrazione nel posto di lavoro svolge un ruolo essenziale.

La finalità dell'intervento legislativo è quella di incrementare la crescita qualitativa e quantitativa dell'occupazione, “favorendo l'instaurazione di rapporti di lavoro più stabili”, con valorizzazione del rapporto a tempo indeterminato come contratto dominante e la riduzione permanente del tasso di disoccupazione. Questi obiettivi, nell’ottica di riforma, possono essere raggiunti riducendo la flessibilità “in entrata” e adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, in particolare riducendo la rigidità del sistema, in tal modo consentendo di superare, altresì, il dualismo tra “garantiti” (protetti dall'art. 18) e tutti gli altri lavoratori, in modo da contribuire alla creazione di un mercato del lavoro dinamico e inclusivo.

Perno della intera riforma, dunque, è la modifica sostanziale del testo dell’art. 18 Stat. Lav., nella cui nuova versione, di lettura estremamente complessa, il ruolo della reintegrazione ne esce depotenziato, non più rimedio esclusivo alla illegittimità del licenziamento nelle aree di sua applicazione, ma rimedio alternativo a quello risarcitorio/indennitario, in un’ottica di monetizzazione del licenziamento.

La riforma, in particolare, senza incidere sulle fattispecie di giusta causa e giustificato motivo (soggettivo e oggettivo), interviene sulle conseguenze del licenziamento illegittimo, frantumando la precedente tutela apprestata dall’art. 18 in quattro diverse tipologie: la reintegratoria piena, che opera quale che sia il numero dei dipendenti nei casi di licenziamento discriminatorio e nullo (art. 18, co 1); la reintegratoria debole, che opera nei casi in cui l’illegittimità determina sempre la reintegrazione e il risarcimento del danno ma entro un tetto risarcitorio (art. 18. Co. 4); la indennitaria forte e debole, che operano nelle fattispecie in cui la tutela reale diventa obbligatoria, perché il recesso ha sempre effetto interruttivo del rapporto, e la sanzione è una indennità economica onnicomprensiva definita entro limiti minimi e massimi (art. 18, co. 5), anche in relazione a violazioni formali e procedurali (art. 18, co. 6).

A seguito delle modifiche introdotte dalla Legge di riforma del 2012, il sistema di tutela contro i licenziamenti illegittimi appare frastagliato e particolarmente complesso, caratterizzato da varie modalità e aree di tutela, in cui i diversi insiemi di regole e i rispettivi ambiti di applicazione si sovrappongono e si intrecciano tra di loro.

2.2 La marginalizzazione della stabilità reale: il d.lgs. n. 23/2015 e la nuova disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti

Il ridimensionamento della tutela reale per i licenziamenti illegittimi diversi da quelli discriminatori (o ad essi equiparati) – previsto dalla riforma Fornero – risulta confermato ed intensificato dalla più recente disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), applicabile ai tutti e solo i lavoratori “con qualifica di quadri, operai e impiegati assunti dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovvero dal 7 marzo 2015, e quindi, destinato progressivamente a sostituire la vecchia disposizione statutaria.

Con la previsione del contratto a tutele crescenti – che non è un diverso contratto ma una nuova disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo – il Legislatore ha completato l’inversione di prospettiva avviata con la riforma del 2012 dell’art. 18 Stat. Lav., rendendo la tutela indennitaria la regola standard comune a tutti, a cui fanno eccezione specifiche e circoscritte ipotesi di operatività della tutela reale piena, in tal modo determinando un generale abbassamento di tutele, rispetto all’assetto precedente, per il prestatore di lavoro.

Diversamente dalla precedente riforma, che lasciava in vigore la disciplina di cui alla legge n. 604/1966 e la summa divisio di tutele rappresentata dal criterio dimensionale dell’impresa, la nuova disciplina interessa tutti i datori di lavoro, a prescindere dal dato dimensionale e numerico ed anche a prescindere dall’oggetto dell’attività esercitata, interessando anche le Organizzazioni di tendenza.

In conclusione, sintetizzando quanto si avrà modo di approfondire oltre, dopo l’ultimo intervento legislativo riformatore del 2015 è possibile ad oggi distinguere quattro diverse aree di tutela contro i licenziamenti illegittimi:

- una prima area di tutela (o stabilità) reale, nella quale l’invalidazione del licenziamento da luogo al diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno;

- una seconda area di tutela (o stabilità) indennitaria, nella quale il licenziamento ingiustificato è illecito ma valido, perché estingue il rapporto di lavoro ma il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria di entità variabile;

- una terza area di tutela obbligatoria (ex Legge n. 604/1966), in cui trova applicazione la dicotomia riassunzione/risarcimento del danno;

- una quarta area di licenziamento ad nutum, residuale in cui trova ancora applicazione la disciplina di cui all’art. 2118 c.c.

L’attuale vigenza di diversi regimi giuridici dei licenziamenti individuali suggerisce di partire dall’esame di quell’insieme di regole che, salvo qualche necessaria precisazione, possono essere considerate comuni a tutti i licenziamenti individuali rientranti nell’ambito di applicazione delle diverse discipline limitative del potere di licenziamento.

3. I presupposti di legittimità del licenziamento individuale

Il licenziamento, fatta salva la residuale area di rilevanza del licenziamento ad nutum, è sottoposto a rigidi vincoli formali e sostanziali, che ne costituiscono appunto i presupposti di legittimità. Occorre, infatti, che il licenziamento venga irrogato secondo ben precise modalità a garanzia della posizione del lavoratore.

3.1. La forma del licenziamento

Il licenziamento è innanzitutto atto recettizio a forma scritta ad substantiam. Secondo quanto previsto dall’art. 2, co. 1 e 2, Legge n. 604/66, come modificato dalla Legge n. 92/2012, il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dal contesto dimensionale, deve comunicare per iscritto al prestatore di lavoro – compresi i dirigenti - l'atto di recesso, contestualmente ai motivi che lo determinano, pena l'inefficacia del licenziamento stesso6.

L’ambito di applicazione della previsione normativa è molto ampio ma non generale, in quanto restano fuori tutte le ipotesi di recesso soggette alla disciplina del recesso ad nutum di cui all’art. 2118 c.c., e, dunque, i lavoratori domestici, i lavoratori in prova, i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti di pensionabilità (sempreché non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), nonché, ai sensi dell’art. 4 Legge n. 91/1981, i lavoratori subordinati sportivi, nelle quali il licenziamento potrà essere validamente comunicato oralmente e senza motivazione.

Essendo un atto recettizio, il licenziamento produce i suoi effetti dal momento in cui il destinatario ne viene a conoscenza, circostanza che si intende avverata anche nel caso in cui il lavoratore rifiuti di ricevere l’atto che gli venga consegnato, operando a tal riguardo la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c..

In ordine alla modalità di tale comunicazione, non prescrivendo la norma alcuna forma particolare di consegna dell’atto, è sufficiente che lo stesso giunga a conoscenza del destinatario, essendo ammissibili a tal fine anche forme sostitutive della usuale comunicazione scritta7.

La legge prescrive la forma scritta ad substantiam, intesa quale forma vincolata che, pur non riferendosi direttamente alla dichiarazione bensì alla comunicazione, è elemento essenziale dell'atto di recesso. In altre parole, la comunicazione per iscritto del licenziamento è un elemento della struttura del negozio risolutivo, per cui, qualora non risulti rispettata la prescritta modalità di comunicazione, la dichiarazione negoziale non sarà efficace nei confronti del lavoratore destinatario. Tale requisito risponde all’esigenza, secondo la Corte costituzionale, di tutelare l’essenziale interesse della parte più debole del rapporto “a conoscere ed a impugnare l’atto nel termine decorrente dalla data di notifica8.

Sul piano sanzionatorio, il licenziamento privo della forma scritta, o di mancata comunicazione per iscritto dei motivi del licenziamento, è definito dalla legge inefficace, espressione generica, da molti ritenuta equivoca, che ha dato luogo ad un ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza.

L’opinione prevalente, tuttavia, ritiene che il legislatore abbia accolto un concetto ampio di inefficacia, tale per cui, essendo la forma scritta elemento essenziale dell’atto di recesso, non di efficacia in senso stretto si tratta, bensì di vera e propria nullità, e pertanto, il licenziamento che non rispetti il vincolo di forma, in quanto privo di uno dei requisiti indispensabili dell'atto - la forma appunto -, resta improduttivo di effetti al pari di un atto nullo.

La Legge n. 92/2012, così come il d.lgs. n. 23/2015, distinguono i regimi di tutela applicabili a seconda che il vizio attenga alla carenza assoluta di forma scritta del licenziamento ovvero al solo requisito di motivazione (o di procedura).

Prima delle riforme del 2012 e del 2015, l’omessa o incompleta motivazione dei motivi era stata considerata non meno grave della mancata comunicazione per iscritto del licenziamento, sul presupposto che la comunicazione dei motivi risponde ad esigenze di certezza ed immutabilità della giustificazione del licenziamento, precludendo al datore di lavoro la possibilità di far valere in giudizio fatti nuovi o diversi da quelli contestati o ragioni diverse da quelle adottate nella comunicazione del provvedimento al lavoratore, nonché a circoscrivere l’ambito di difesa del lavoratore.

Il Legislatore delle riforme si è però discostato da tale consolidato orientamento, distinguendo nettamente il vizio di forma consistente nella mancata comunicazione scritta del licenziamento (licenziamento inefficace) dal vizio formale consistente nella omessa comunicazione dei motivi (licenziamento efficace).

Il licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale resta, per entrambi i provvedimenti di riforma, assoggettato alla medesima disciplina del licenziamento nullo o discriminatorio, quindi soggetto alla sanzione della reintegrazione unitamente al risarcimento del danno ragguagliato a più di cinque mensilità di retribuzione (art. 18, 1 Co., Stat. Lav. e art. 2, co. 2, d.lgs. n. 23/2015).

Diverse, invece, le conseguenze per gli ulteriori vizi di forma (e di procedura) del licenziamento.

Nei contratti di lavoro a tempo indeterminato, con assunzione precedente al 7 marzo 2015, rientranti nell’ambito dimensionale di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per omessa comunicazione della motivazione (o per vizio procedurale), il licenziamento produce l’effetto di risolvere il rapporto e la reintegrazione viene sostituita da un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, (salvo che sia contestata anche la legittimità del licenziamento) (art. 18, co. 6).

Analogamente, nella novella del 2015, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti dopo il 7 marzo 2015, è previsto che ove il licenziamento sia intimato in violazione del requisito della motivazione ( o per vizio procedurale), “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento” e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata alla contribuzione previdenziale, di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, compresa tra un minimo di due ed un massimo di dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle altre tutele più forti (reintegra piena, reintegra con indennità limitata, tutela indennitaria piena) (art. 4).

Quanto al licenziamento viziato nella forma attratta nell’area di stabilità obbligatoria, sotto la vigenza della Legge n. 604/1966 e fino alla riforma Fornero, nell’ipotesi di vizio di forma non trovava applicazione l’art. 18 Stat. Lav., bensì il regime di inefficacia del diritto comune, con la conseguente improduttività di effetti giuridici del licenziamento e il diritto del lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno, da determinarsi sulla base delle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali e, di massima, commisurata alle mancate retribuzioni percepite fino al concreto ripristino del rapporto di lavoro.

Per effetto delle innovazioni introdotte dalla Legge n. 92/2012, che, come visto, ha differenziato la disciplina della mancanza di forma tout court dalla mera violazione del requisito di motivazione, nella area della tutela obbligatoria si applica nel caso di licenziamento orale la tutela reintegratoria piena (non più la tutela di diritto comune), mentre nel secondo caso, la violazione del requisito di motivazione risultava essere sanzionata più gravemente nella area di stabilità obbligatoria che nell’area di stabilità reale, dacché era prevista l’inefficacia del licenziamento e la sanzione della tutela reale della nullità di diritto comune, a fronte della semplice tutela indennitaria compresa tra le sei e le dodici mensilità prevista dalla norma statutaria, creando così un’inversione di trattamento di dubbia costituzionalità.

Sul punto è, però, intervenuta di recente la giurisprudenza di legittimità che ha corretto la previsione legislativa, stabilendo che, nel regime di tutela obbligatoria, in caso di violazione del requisito d motivazione, trova applicazione il regime dell’art. 8 della Legge n. 604/1966, ovverosia l’efficacia del licenziamento e l’obbligo di pagamento dell’indennità forfettaria, “in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata del nuovo art. 18 Stat. Lav.”9.

Siffatto divario è stato parzialmente colmato dalla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti che da un lato, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, per quanto concerne il vizio della mancanza di forma scritta del licenziamento nell’area di stabilità obbligatoria ha mantenuta la sanzione della tutela reintegratoria piena, mentre per il vizio minore della carenza del requisito di motivazione (e della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav.) stabilisce una disciplina specifica per l’area della piccola impresa, consistente nel dimezzamento della tutela indennitaria prevista per le imprese di maggiori dimensioni entro un tetto massimo di sei mensilità, e non più l’applicazione della tutela reale di diritto comune.

Tra i vizi di forma del licenziamento rientrano, altresì, la violazione della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. per i licenziamenti disciplinari, ossia il licenziamento volto a sanzionare condotte colpose del lavoratore, e la violazione della nuova procedura prevista dall’art. 7 Legge n. 604/1966 (tentativo obbligatorio di conciliazione), come modificato dalla riforma del 2012, nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dal datore di lavoro avente i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav.

La qualificazione del licenziamento per colpa (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) come licenziamento disciplinare è ad oggi ormai pacifica, anche per la espressa conferma in tal senso ad opera della riforma del 2012 (art. 1, co. 40), ma ha alle sue spalle una vicenda interpretativa complessa, in cui si sono susseguite e confrontati orientamenti giurisprudenziali contrapposti, superati dall’intervento della Corte costituzionale e da successive puntualizzazioni della Corte di Cassazione, che hanno affermato la natura ontologicamente disciplinare del licenziamento per colpa e l’applicabilità ad esso delle garanzie procedurali dei primi 3 commi dell’art. 7 Stat. Lav., in ragione della sostanziale omogeneità, sul piano della potenziale idoneità lesiva, tra sanzione e licenziamento disciplinare10.

Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi scaturenti dal rapporto rimane, pertanto, assoggettato alle garanzie procedurale di cui all’art. 7 Stat. Lav. (previa contestazione scritta dell’addebito, diritto di difesa del lavoratore in qualsiasi forma, termine minimo di cinque giorni tra la contestazione e l’irrogazione del licenziamento) perché ha natura ontologicamente disciplinare, la cui inosservanza rende l’atto di recesso viziato sotto il profilo formale e da luogo alle medesime conseguenze sanzionatorie previste per la violazione di forma della mancanza di motivazione del licenziamento, ovverosia licenziamento efficace e tutela indennitaria ridotta tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per le aziende di maggiori dimensioni rientranti nell’area di operatività dell’art. 18 Stat. Lav., mentre per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (dopo il 7 manzo 2015) una tutela indennitaria ridotta ad una mensilità per ogni anno di servizio tra un minimo di due ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR.

Quanto ai datori che si collocano nell’area di applicazione del regime di stabilità obbligatoria (Legge n. 604/1966), la giurisprudenza, dopo una lunga serie di contrasti interpretativi, è giunta a ritenere che il licenziamento disciplinare che violi le garanzie procedurali non è affetto da nullità, ma produce gli effetti propri del licenziamento illegittimo per carenza dei presupposti giustificativi ai sensi dell’art. 8 Legge n. 604/1966 (riassunzione o il pagamento di un’indennità compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) ed ora, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ai sensi dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23/2015 (estinzione del rapporto di lavoro e pagamento di un’indennità non superiore alle sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR).

Un ulteriore obbligo di natura procedurale è stato, inoltre, introdotto dalla riforma del 2012 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, consistente nel preventivo esperimento di un tentativo di conciliazione in sede amministrativa, davanti alla Direzione territoriale del lavoro.

Sostituendo integralmente l’art. 7 Legge n. 604/1966, la nuova disciplina impone al datore di lavoro avente i requisiti dimensionali richiesti per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. di far precedere l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da una comunicazione con cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento e i motivi posti a base dello stesso, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. La comunicazione apre una procedura, che si sviluppa innanzi alla Commissione provinciale di conciliazione, finalizzata a esaminare soluzioni alternative al recesso entro termini piuttosto brevi (venti giorni dalla convocazione della DTL), i cui esiti sono valutabili in una eventuale successiva fase giudiziale.

La sua violazione vizia l’atto di recesso nella forma e rende applicabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo eventualmente irrogato il regime di tutela indennitaria c.d. ridotta di cui all’art. 18, co. 6, Sta. Lav., ovverosia la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La descritta procedura è stata, infine, abrogata dal d.lgs. n. 23/2015 e non trova, quindi, più applicazione nei confronti di lavoratori licenziati per motivi oggettivi assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente alla data del 7 marzo 2015.

Nell’area di libera re cedibilità, ancora, va detto che, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 427/1989 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 7, commi 2 e 3 della Legge n. 300/1970 nella parte in cui esclude la loro applicabilità al licenziamento irrogato per motivi disciplinari nell’area del recesso ad nutum, è controversa quale sia la sanzione applicabile alla violazione di forma, se l’inefficacia del licenziamento con prosecuzione del rapporto di lavoro ovvero l’efficacia del licenziamento e la sola corresponsione dell’indennità di preavviso.

A lungo controversa e dibattuta, in dottrina e in giurisprudenza, da ultimo, è stata l’applicabilità delle garanzie procedurali dell’art. 7 Stat. Lav. al licenziamento disciplinare del dirigente, assoggettato ex lege al regime di libera re cedibilità.

Recependo le critiche di una parte della dottrina e di un filone giurisprudenziale, la Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto la questione nel senso della generale estensione ed applicabilità delle garanzie procedurali dell’art. 7 Stat. Lav. a tutti i dirigenti, a prescindere dalla specifica collocazione gerarchica nell’organizzazione aziendale.

Il mancato rispetto di queste comporta l’applicazione delle conseguenze previste per il licenziamento privo di giustificazione, pertanto il rapporto di lavoro cesserà a far data dal licenziamento con l’obbligo per il datore di lavoro di versare, oltre l’indennità di mancato preavviso, l’indennità aggiuntiva prevista dal contratto collettivo per l’ipotesi di licenziamento ingiustificato.

3.2 La giustificazione sostanziale del licenziamento

Dal quadro dei regimi giuridici dei licenziamenti individuali brevemente ricapitolato, emerge, accanto alla coesistenza di regimi differenziati di tutela dei lavoratori, una generalizzazione larga ma ancora incompleta della regola della giustificazione del licenziamento, introdotta, come visto, dalla legislazione speciale di emergenza dietro aperto invito della Corte costituzionale ed elevato a presupposto del legittimo esercizio del potere di licenziamento da parte del datore di lavoro.

Il giustificato motivo costituisce, invero, la novità introdotta dalla Legge n. 604/1966 al fine di limitare il potere di recesso del datore di lavoro, ancorandolo alla necessaria sussistenza di motivazioni legate ad un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” nel caso di giustificato motivo soggettivo, ovvero a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento dell'impresa”, in quello che viene definito giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 3).

Le previsioni sul giustificato motivo non hanno subito modificazioni ad opera della legge n. 108/1990, se non in ordine all’ampliamento della loro sfera di applicazione, e neppure ad opera della legge n. 92/2012 (art.1, commi 37ss.); quest'ultima legge ha introdotto, tuttavia, a fini sanzionatori, e limitatamente all’ambito di applicazione dell'articolo 18 Stat. Lav., una sorta di “graduazione” delle giustificazioni, distinguendo a seconda che la giustificazione addotta dal datore di lavoro sia sostanzialmente infondata o sia soltanto non adeguata o sufficiente a giustificare il licenziamento.

La disciplina dei licenziamenti individuali nel contratto a tutele crescenti ha poi cancellato quasi interamente le graduazioni introdotte dalla legge di riforma del 2012, riportando, nella sostanza, per i nuovi assunti le giustificazioni all’origine.

3.2.1. Il concetto di giusta causa di licenziamento

La clausola generale della giusta causa, già prevista nel Codice civile del 1942 all'art. 2119 nel quale assolveva alla funzione di consentire il recesso senza preavviso a causa di eventi particolarmente traumatici che incidevano in maniera irreversibile sul rapporto di lavoro, nel nuovo sistema del licenziamento giustificato, pur mantenendo la funzione di esonerare dal preavviso, diviene uno dei presupposti di validità del licenziamento che va ad affiancarsi al giustificato motivo.

Secondo la norma del codice, costituisce giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro, prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”.

Elemento costitutivo della giusta causa non previsto dalla legge, ma dedotto dalla giurisprudenza dalla mancanza di preavviso, è l’immediatezza degli effetti del provvedimento espulsivo (c.d. licenziamento in tronco), che resta comunque compatibile con un congruo intervallo di tempo necessario all’accertamento dei fatti contestati al lavoratore.

Fin dalle origini della riflessione sul contratto di lavoro, il fondamento del potere di recesso per giusta causa viene ricondotto alla natura fiduciaria del rapporto di lavoro, quale presupposto che impedirebbe la prosecuzione anche provvisoria della relazione giuridica, in presenza di fatti di particolare gravità e tali da incidere irreversibilmente sulle aspettative della parte recedente. Il concetto di fiducia inizialmente accolto dalla giurisprudenza dominante qualificava giusta causa di licenziamento condotte del lavoratore anche estranee rispetto al rapporto ma idonee a far venir meno quella fiducia, intensa in senso soggettivo, che costituisce il presupposto essenziale della collaborazione e, quindi, della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

Questo orientamento, sottoposto a serrata critica sin dal suo esordio, è stato rielaborato dalla dottrina, che ha accolto, di contro, un concetto di giusta causa guardando non alla fiducia in senso soggettivo, bensì alla ripercussione che l’inadempimento ha sulla fiducia oggettiva, ovverosia sull’aspettativa del datore di lavoro circa l’esattezza delle future prestazioni lavorative11; questa rilettura, che restringe e precisa la nozione di giusta causa riportandola all’interno della logica comune dei contratti di durata, può, ad oggi, ritenersi pacificamente accolta anche dalla giurisprudenza dominante12.

Una delle più dibattute questioni intorno al concetto di giusta causa è quella della riconducibilità o meno ad essa del solo inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, ovvero della rilevanza come giusta causa di licenziamento anche di atti e comportamenti estranei all’esecuzione del rapporto di lavoro e non riconducibili alla violazione di obblighi derivanti dal vincolo contrattuale.

Una limitata rilevanza a comportamenti estranei alla sfera contrattuale viene riconosciuta dalla giurisprudenza prevalente, la quale, evitando di delineare rigidi confini in ordine alla rilevanza di condotte o atti estranei alle obbligazioni lavorative, insiste sulla necessità della valutazione complessiva ed in concreto delle singole fattispecie. Ai fini della sussistenza della giusta causa, questa parte della giurisprudenza sostiene che non è sufficiente una valutazione in astratto delle condotte considerate, ma occorre verificare - tenuto conto della natura e qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, delle mansioni espletate, del particolare grado di fiducia connesso alla struttura dell'impresa o alla qualifica rivestita, nonché dell'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo - la loro idoneità ad influire, per il futuro, sulla capacità di adempimento del prestatore di lavoro13.

Di opinione contraria buona parte della dottrina (alla quale fa talora riferimento la giurisprudenza di merito), che desume, di contro, l'esclusione dalla nozione di giusta causa di ogni comportamento estraneo al contratto di lavoro dal combinato disposto degli artt. 2119 c.c. e 3 Legge n. 604/1966, ove il legislatore ha espressamente assegnato rilevanza, ai fini di licenziamento con preavviso, al solo inadempimento degli obblighi contrattuali.

Quale che sia la concezione preferibile, la giusta causa consiste comunque in un fatto di tale gravità, valutata non solo sul piano quantitativo ma anche qualitativo nel confronto con il giustificato motivo soggettivo, da imporre l'immediata estromissione del lavoratore, ravvisabile molto spesso non dal solo atto o dalla sola condotta assunta dal prestatore di lavoro, bensì da un insieme di condotte illecite successive che considerate complessivamente assumono quel connotato di gravità e di lesione del vincolo fiduciario oggettivo di intensità tale da legittimare l’esonero del preavviso14.

Scarsamente trattata dalla dottrina, inoltre, è la questione della rilevanza del danno subito dal datore di lavoro nella qualificazione dell'inadempimento del lavoratore, che talora emerge nella casistica giudiziale. La giurisprudenza è orientata nel senso che, ai fini della qualificazione di un comportamento del lavoratore come giusta causa di licenziamento, è irrilevante il danno che dal comportamento possa derivare o sia effettivamente derivato al datore di lavoro, in primo luogo perché il requisito della fiducia può venir meno in relazione a comportamenti del lavoratore che non abbiano di per sé prodotto al datore di lavoro un danno di particolare entità, e poi perché l’idoneità del comportamento del lavoratore a recare pregiudizio all’interesse del datore di lavoro entra, insieme ad altri elementi, nella valutazione complessiva concreta della gravità della violazione degli obblighi di diligenza ed obbedienza.

Questione di rilievo, infine, è quello attinente all’elencazione da parte dei contratti collettivi dei fatti definibili in concreto come giusta causa e giustificato motivo soggettivo, che dottrina e giurisprudenza hanno da sempre risolto negando vincolatività a simili elencazioni sull’assunto che, per quanto provviste di una qualche attendibilità in ragione della loro provenienza dalle parti sociali, non potrebbero precludere al giudice la possibilità di indagare sulla reale entità e gravità della mancanza nel caso specifico ai fini dell'eventuale prosecuzioni del rapporto di lavoro.

Sul punto ha, tuttavia, statuito diversamente il Legislatore (art. 30, co. 3, Legge n. 183/2010), prevedendo che il giudice nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento sia vincolato alle tipizzazioni della giusta causa o del giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o nei contratti individuali certificati da una delle commissioni di certificazioni previste dalla legge.

3.2.2. Il giustificato motivo soggettivo di licenziamento

Oltre che per giusta causa (senza preavviso), il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro subordinato con preavviso in presenza di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” (art. 3 Legge. 604/66).

L'area dell'inadempimento rilevante comprende, dunque, tutti e solo gli obblighi nascenti dal contratto di lavoro (nonché dalla contrattazione collettiva e dal regolamento d'azienda): non soltanto l'obbligazione lavorativa, ma anche gli ulteriori obblighi gravanti sul lavoratore, segnatamente quelli connessi all'obbligo di fedeltà, gli obblighi preparatori all'adempimento, dovere di osservare le istruzioni del datore di lavoro, di non divulgazione di notizie aziendali e di non concorrenza, letti attraverso i parametri di valutazione della diligenza, correttezza e buona fede.

Per poter legittimare l'esercizio del potere di recesso, ovvero per poter rilevare come giustificato motivo soggettivo di licenziamentol'inadempimento del lavoratore deve essere notevole; diversamente, in luogo di un provvedimento espulsivo, sarebbe ammissibile, in base al principio di proporzionalità fra infrazione e sanzione, soltanto l'adozione di una sanzione conservativa.

La previsione del giustificato motivo soggettivo ha posto ovviamente subito il problema dei rapporti fra questo e la giusta causa. Ci si è chiesti in sostanza se fra le due nozioni sussistessero delle differenze di natura qualitativa o se il discrimine passasse attraverso una valutazione quantitativa della gravità del comportamento del lavoratore, suscettibile solo nel caso di giusta causa di non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

E' prevalsa, in dottrina e giurisprudenza, la seconda opinione, secondo cui il criterio di identificazione del carattere notevole dell’inadempimento in questione sta nel grado di colpa del lavoratore, per cui mentre il comportamento caratterizzato da colpa gravissima o dolo integrerebbe gli estremi della giusta causa, quello caratterizzato da colpa grave integrerebbe il giustificato motivo soggettivo.

Tra le mancanze più rilevanti che possono condurre al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la giurisprudenza annovera lo scarso rendimento del lavoratore, sebbene solo nel caso in cui integri gli estremi del notevole inadempimento.

Posto che lo scarso rendimento può dipendere anche da altri fattori o circostanze inerenti l’organizzazione aziendale, la qualificazione in termini di notevole inadempimento dipende, in buona sostanza, dall'imputabilità dello scarso rendimento a negligenza o imperizia del lavoratore, la cui prestazione risulti inferiore al risultato atteso ed esigibile, tenuto conto del grado di diligenza normalmente richiesta per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché della sua incidenza nell'organizzazione complessiva del lavoro nell’impresa e dei fattori socio ambientali15.

Rientra, infine, nella classica problematica del giustificato motivo soggettivo la questione della conversione di un licenziamento motivato da giusta causa, senza preavviso, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che viene risolta, in realtà, in una diversa qualificazione della situazione di fatto che è stata posta a fondamento dell’atto espulsivo. In sostanza, il giudice ove ritenga il fatto addebitato al lavoratore non sufficiente ad integrare una giusta causa di licenziamento, ma sufficiente ad integrare invece un giustificato motivo soggettivo, può convertire anche d'ufficio il licenziamento, attribuendo al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.

3.2.3 Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento

Oltre che per ragioni collocabili nella sfera dell'inadempimento del lavoratore, il potere di licenziamento può anche essere esercitato nell'interesse dell'impresa, rectius dell’imprenditore.

A tale interesse allude la seconda parte dell'art. 3 Legge n. 604/1966 quando ammette il licenziamento per “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, che gli interpreti hanno ribattezzato giustificato motivo oggettivo, nella quale rientrano tutte le ipotesi n cui il licenziamento individuale del lavoratore non sia giustificato da una condotta colpevole di quest’ultimo.

Di talché, il giustificato motivo oggettivo risulta comprendere due tipologie di fattispecie: una radicata nelle ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo economico o per ragioni d’impresa), la seconda rappresentata da fattispecie di notevole inadempimento che non vengono sanzionate dal datore per la colpevolezza del prestatore, bensì unicamente perché implicano per questi l'impossibilità oggettiva di adempiere esattamente le proprie obbligazioni (impossibilità sopravvenuta totale e/o parziale della prestazione lavorativa), fermo in ambedue le fattispecie il rispetto dell’obbligo del preavviso.

La formula delle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa riguarda profili non lavoristici dell'impresa, quali ad esempio riconversione produttiva e tecnologica, riduzione di commesse, perdite di bilancio, come anche profili più strettamente concernenti le modalità di produrre, cioè a dire l'organizzazione del lavoro. Nel contrasto tra l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto e quello dell’impresa ad espellere unità lavorative realmente non più funzionali alle proprie esigenze organizzative ed economiche, è il secondo a prevalere a condizione che tali esigenze siano richiamate nella motivazione del licenziamento e siano effettive, e sussista uno stretto nesso di causalità tra le dette esigenze e il licenziamento.

Molto controversa, invece, è la soluzione dei casi che hanno ad oggetto non le vicende dell'azienda (scelte produttive e organizzative, andamento del mercato, etc..,) ma vicende che riguardano il lavoratore, ovvero i casi di impossibilità sopravvenuta temporale o parziale della prestazione lavorativa che, tuttavia, non costituiscono inadempimenti a lui imputabili per colpa (si pensi alla carcerazione preventiva o all’inidoneità psico-fisica sopravvenuta).

In punto si registrano, invero, due diversi orientamenti contrapposti: un primo orientamento, avallato dalla dottrina prevalente, fa rientrare nella nozione di giustificato motivo oggettivo soltanto vicende e/o eventi che conseguono a scelte del datore di lavoro, non riferibili in alcun modo a vicende della sfera personale del prestatore, ed un diverso orientamento, diffuso soprattutto in giurisprudenza, attrae, invece, nell’area del giustificato motivo oggettivo tutte le vicende e tutti gli eventi che, per l'incidenza immediata sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è inserito, cagionano l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro, anche quando queste vicende e questi eventi siano riconducibili a vicende personali del lavoratore 16.

Di massima, si ritiene che il licenziamento risulti assistito da un giustificato motivo oggettivo soltanto quando il lavoratore non possa essere utilizzato su posizioni di lavoro alternative, e ciò in un ordine di idee che tende a collocare il licenziamento in un'area di extrema ratio e a riconoscere in capo al datore di lavoro un vero e proprio obbligo di repechage, ovverosia un obbligo di ricollocamento e assegnazione al lavoratore, ove disponibili in azienda, di diverse, e anche inferiori, mansioni.

In linea teorica ed astratta, l'onere di provare l’impossibilità di proficuo utilizzo del licenziando in posti di lavoro diversi è a carico del datore di lavoro, ma, data la concreta difficoltà di una prova che dovrebbe riguardare tutti i comparti dell'azienda, la giurisprudenza tende accontentarsi di elementi probatori presuntivi, ritenendo, ad esempio sufficiente la dimostrazione di non avere proceduto a nuove assunzioni, oppure la mancata liberazione di posti di lavoro nel periodo di licenziamento; in ogni caso si richiede una prova di tipo statico, riferita cioè allo stato dell’organizzazione del lavoro al momento dell’espulsione e non alle ipotetiche modifiche organizzative che il datore potrebbe attuare per reperire nuove possibilità occupazionali.

E’, ancora, opinione diffusa che il controllo del giudice, chiamato ad accertare la legittimità del licenziamento, non possa estendersi fino a sindacare l'opportunità e la congruità delle scelte in materia di assetti produttivi ed organizzativi, rispetto alle quali l’imprenditore gode dell’autonomia garantita dell'articolo 41, co.1 Cost..

Nel caso di soppressione del posto di lavoro, pacificamente integrante gli estremi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice di merito dovrà, e potrà, limitarsi a verificare la sussistenza di un nesso causale tra la insindacabile scelta del datore di lavoro che sta a monte della soppressione del posto e il conseguente licenziamento del lavoratore; al pari insindacabile nel merito è anche, secondo l'orientamento emerso nella giurisprudenza più recente, la scelta dell'imprenditore di modificare l'assetto organizzativo, esternalizzando una determinata attività, ovvero ancora le modifiche organizzative finalizzate al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti 17.

Un cenno, infine, va fatto alla diversa ipotesi del licenziamento per superamento del periodo di comporto, ovvero al licenziamento intervenuto a seguito del protrarsi dell’assenza del lavoratore dal lavoro dovuta a malattia oltre il periodo di comporto fissato dalla legge o dalla contrattazione collettiva di sospensione del rapporto per malattia con diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Dopo l’ormai remoto intervento della Cassazione a Sezioni Unite18, si è diffusa tra i giudici la convinzione che il superamento del periodo di comporto costituisca un'autonoma fattispecie di recesso, interamente regolata dall’art. 2110 c.c., che contemplerebbe un’ipotesi legale di giustificato motivo di licenziamento dalla quale desumere il diritto dell’imprenditore di recedere dal contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 2118 c.c., quando la malattia del lavoratore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge o dal contratto collettivo e dagli usi.

4. Il licenziamento radicalmente nullo. Il licenziamento discriminatorio

Nell’impianto della legislazione speciale sui licenziamenti individuali, il licenziamento discriminatorio ha sempre avuto una separata collocazione, oggetto di una stratificazione di discipline susseguitesi nel tempo che ne hanno delineato la fattispecie specifica.

Esso trae origine dal coordinamento delle previsioni contenute nell’art. 4 Legge n. 604/1966, secondo cui il licenziamento determinato “da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo indipendentemente dalla motivazione adotta” e nell’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, rubricato “Atti discriminatori”, che ha una portata più generale di contrasto a tutte le discriminazioni sul lavoro, di cui il licenziamento è solo una species, sanzionate anch’esse con la nullità.

La norma statutaria, che in origine prendeva in considerazione unicamente la discriminazione sindacale, politica o religiosa, in evidente continuum con l'art. 4 della legge del 1966, ha visto successivamente ampliato il proprio ambito precettivo, con l’approvazione della c.d. Legge sulla parità (art. 13 Legge n. 903/1977) che ha allargato l'elenco delle ragioni discriminatorie alle situazioni di razza, di lingua e di sesso, alle quali l’art. 4 d.lgs. n. 216/2003, di recepimento della direttiva numero 2000/78/CE, ha aggiunto le situazioni di handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore.

Un regime sanzionatorio più efficace è stato, poi introdotto, dalla Legge n. 108/1990, che ha ribadito la nullità dei licenziamenti discriminatori indipendentemente dalla motivazione adotta e, al contempo, ha esteso ad essi la sanzione reintegratoria, qualunque siano i livelli occupazionali dell’impresa o dell’unità produttiva.

La nullità del licenziamento discriminatorio è stata ribadita dalla riscrittura dell’art. 18 ad opera della Legge n. 92/2012, che individua la fattispecie de qua con espresso rinvio all’art. 3 Legge n. 108/1990, confermando, in tal modo, l’applicazione in queste ipotesi – che costituiscono un’elencazione tassativa - della tutela reale nella sua configurazione tradizionale, ovverosia l’ordine al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati, di reintegrare il lavoratore di cui se ne sia accertata la discriminazione e il versamento di un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, che non potrà essere inferiore a cinque mensilità, dedotto l’aliunde perceptum.

La reintegra piena è ora prevista anche dalla disciplina sul contratto di lavoro a tutele crescenti per le ipotesi di nullità del licenziamento “perché discriminatorio a norma dell'articolo 15 della Legge 20 maggio 197 n. 300”, oltre ai casi in cui il licenziamento è riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.

Come rilevato dalla dottrina, rispetto alla riforma del 2012, la novella del 2015 opera un più sintetico riferimento alle situazioni in cui la legge qualifica il licenziamento come nullo, senza però che ne risulti modificato il riferimento ad ogni specie di discriminazione e ad ogni fattispecie di licenziamento che il diritto comune o il diritto speciale qualifichino come nullo.

L’emersione della discriminazione, indipendentemente dalla motivazione, e dunque al di sotto e al di fuori di essa, è agevolata dal particolare regime probatorio che la assiste.

Invero, ove un atto o un comportamento sia qualificabile come discriminatorio, troverà applicazione lo speciale regime dell'onere della prova che grava sul ricorrente, che vuole che questi alleghi elementi di fatto capaci di convincere prima facie il giudice del fumus della discriminazione e, dunque, non dell’intento dell’agente, ma di un oggettivo collegamento fattuale del trattamento sfavorevole a lui riservato con uno specifico fattore di discriminazione.

Graverà, allora, sul datore di lavoro l'onere di fornire elementi di prova sufficienti ad escludere positivamente la discriminazione, elementi che, tuttavia, non si esauriscono nella prova della fondatezza delle motivazioni fondanti il licenziamento, bensì comportano la dimostrazione che il licenziamento è nella specie, oltre che sorretto da una motivazione conforme ai canoni della giusta causa e del giustificato motivo, estraneo ad ogni possibile collegamento con il fattore di discriminazione invocato19.

4.1 Il licenziamento per causa di matrimonio e per maternità e/o paternità

Il potere di recesso del datore di lavoro non è solo vincolato ad alcuni presupposti causali, ma incontra anche limiti temporali che configurano una stabilità temporanea e aggiuntiva rispetto a quelle espresse dalla normativa vincolativa del potere di licenziamento.

Accanto al generale divieto di licenziamenti discriminatori, il legislatore ha introdotto un divieto temporaneo di recesso in tutte quelle situazioni in cui diventa preminente tutelare i diritti fondamentali del lavoratore quale individuo e cittadino, costituzionalmente rilevanti e preminenti sull’obbligazione lavorativa.

Tra queste, rilievo specifico assumono il divieto di licenziamento in concomitanza con il matrimonio, ora disciplinato dall’art. 35 Codice Pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006), e il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, attualmente contenuto, dopo una complessa evoluzione normativa, nell’art. 54 T.U Maternità e Paternità (d.lgs. n. 151/2001).

Per contrastare una prassi discriminatoria assai diffusa nell’immediato dopoguerra, viene legislativamente introdotta una presunzione di nullità dei licenziamenti temporalmente contigui alla celebrazione del matrimonio, ovvero intimati nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni, in quanto seguite dalla celebrazione, sino a un anno dopo la celebrazione stessa, come tali colpiti dal sospetto che siano da rinvenire in tale modifica dello status della lavoratrice, e nel rischio di maternità collegato alle nozze, le effettive ragioni del recesso.

Allo stesso modo e per le medesime ragioni, sono nulle anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo in cui è prevista la nullità del licenziamento, a meno che la lavoratrice non le confermi entro un mese davanti all'ufficio pubblico a ciò preposto (oggi ITL).

In tale ipotesi, la lavoratrice nei cui confronti opera la presunzione legale di nullità, di carattere assoluto20, non avrà necessità di provare che è stata licenziata a causa del matrimonio, ma potrà limitarsi a dedurre che il licenziamento è avvenuto all’interno del suddetto periodo; per superare la presunzione legale di nullità, il datore di lavoro non potrà limitarsi a dimostrare che il licenziamento non è dovuto a matrimonio - evento che potrebbe anche ignorare in quanto il divieto opera oggettivamente non sussistendo in capo alla lavoratrice un obbligo di comunicazione del matrimonio al datore di lavoro - ma dovrà dimostrare la presenza di una delle eccezioni espressamente previste dalla medesima legge: colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell'attività dell'azienda cui ella è addetta; ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per scadenza del termine.

Il divieto di licenziamento opera, altresì, dall'inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione della lavoratrice dal lavoro (c.d. congedo di maternità), nonchè fino al compimento di un anno di età del bambino; il divieto opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, prescindendo di conseguenza dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro, attestato da idonea certificazione da cui risulti lo stato di gravidanza al momento del licenziamento che la lavoratrice licenziata è tenuta a presentare.

In quest’ultima ipotesi, alle tre eccezioni al divieto già previste per il caso di licenziamento irrogato in concomitanza di matrimonio, l'art. 54 d.lgs. 151/2001, accogliendo le osservazioni della Corte costituzionale espresse nella sentenza n. 172/1996, ha aggiunto una quarta ipotesi di legittimo recesso datoriale durante il periodo di irrecedibilità legata all’esito negativo della prova.

Il licenziamento intimato in violazione del divieto, e al di fuori delle eccezioni stabilite, è, come visto, radicalmente nullo ed implica che, durante il periodo di irrecedibilità, l'esistenza di eventuali ragioni giustificatrici, che non siano quelle consentite, è del tutto ininfluente, per cui anche se datore di lavoro fosse in grado di provare un giustificato motivo o una giusta causa di licenziamento, diversa dalla colpa grave della lavoratrice, il licenziamento sarebbe ugualmente invalido.

Il divieto di licenziamento vige, inoltre, anche per il padre lavoratore, per la durata del congedo stesso, e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino, come allo stesso modo vige, altresì, in caso di adozione e di affidamento fino ad un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità.

La disciplina legislativa prevede, infine, il divieto di licenziamento, e la conseguente nullità dello stesso ove intimato, causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte della lavoratrice e del lavoratore, anche adottivi o affidatari, che, tuttavia, pare assumere una posizione a sé stante, più simile ad un licenziamento ritorsivo.

Quanto alle conseguenze della nullità, fino alla riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ad opera della Legge n. 92/2012, queste variavano a seconda che il licenziamento fosse qualificato come discriminatorio oppure no, perché la mancata qualificazione del licenziamento come discriminatorio privava la lavoratrice della tutela reale.

La riforma del 2012, e la sostanziale conferma da parte del d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, ha esteso a tutti questi licenziamenti vietati, e pertanto nulli, il regime della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento dei danni ai sensi dell'articolo 18 comma 1 (come riformulato dalla Legge n. 92/2012), facendo sostanzialmente perdere alla questione della qualificazione del licenziamento de quo rilevanza pratica.

4.2 Il motivo illecito determinante e le altre cause di nullità del licenziamento

Un’altra fattispecie contemplata dall’art. 18, co. 1 Stat. Lav. riconducibile all'area dei licenziamenti nulli per ragioni sostanziali, è il licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c., il cui banco di prova è stato negli ultimi anni l'abbondante produzione giurisprudenziale sul recesso nelle minori unità di lavoro.

Per usare le parole della Cassazione, esso costituisce “l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta21 (si pensi al licenziamento per ritorsione per una rivendicazione giudiziale avanzata dal lavoratore o per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro).

La fattispecie sostanziale, ossia le condizioni perché un licenziamento possa ritenersi affetto da un motivo illecito, si determina con riferimento alla norma codicistica espressamente richiamata, ossia l'articolo 1345 c.c., in combinato disposto con gli artt. 1324 e 1418 c.c., secondo cui l’atto unilaterale deve ritenersi nullo se viziato da motivo illecito, vale a dire contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, e solo alla condizione che siffatto motivo illecito sia stato l’unico determinante ed abbia avuto efficacia esclusiva della volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto, con la conseguente implicazione che la nullità del licenziamento sarebbe esclusa quando con il motivo illecito concorra un motivo lecito, come una valida giusta causa o un valido giustificato motivo.

L’elencazione si chiude con il riferimento a tutti gli altri casi di nullità di licenziamento espressamente previste dalla legge, formulazione giuridica aperta il cui spazio di operatività è stato individuato in tutte quelle ipotesi di nullità di licenziamento oggetto di tipizzazione preventiva da parte della legge, non essendo sufficiente la violazione di una qualsivoglia norma imperativa di diritto del lavoro, neanche di rango costituzionale.

Tra le nullità espresse è possibile annoverare, esemplificando, il licenziamento in frode alla legge (ad es. quello intimato prima del trasferimento di azienda seguito dall’immediata riassunzione presso il cessionario per aggirare la applicabilità dell'art. 2112 c.c.), il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione dei congedi previsti dalla legge, ossia i congedi per eventi e cause particolari, i congedi per la formazione continua etc.; il licenziamento del sieropositivo HIV, vietato dalla Legge n. 135/1990; il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo disposto nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, qualora il licenziamento provochi la lesione della quota di riserva legale; il licenziamento intimato in violazione del limite percentuale di manodopera femminile impiegata nelle mansioni interessate da un licenziamento per riduzione del personale; il licenziamento a causa della partecipazione ad uno sciopero illegittimo nell'ambito dei servizi pubblici essenziali.

Sul piano delle conseguenze sanzionatorie, pur in assenza di un espresso riconoscimento legislativo, già prima della novella del 2012 la giurisprudenza di legittimità, praticamente senza eccezioni, applicava ai licenziamenti nulli per motivo illecito determinante, ed in particolare a quelli determinati da motivi di ritorsione o di rappresaglia che sono i più frequenti nelle cronache giudiziarie, non già la nullità di diritto comune bensì il la tutela reintegratoria anche a datori di lavoro con meno di 16 dipendenti .

Con la riscrittura dell’art. 18 Stat. Lav. ad opera della legge di riforma del 2012, tutte le ipotesi di nullità del licenziamento sono assoggettate al regime sanzionatorio della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento dei danni, con una formulazione dunque onnicomprensiva.

Nella disciplina del contratto a tutele crescenti, invece, (art. 2, co. 1, d.lgs. 23/2015), l'ambito di applicabilità dell’anzidetto regime sanzionatorio è diversamente formulato, poiché la disposizione prevede che la sanzione della reintegrazione sia applicata nei casi di nullità del licenziamento discriminatorio ai sensi dell'art. 15 St. Lav. – mostrando l’intento di voler escludere letture discriminatorie di ogni licenziamento nullo – e, più ampiamente negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, eliminando le indicazioni specifiche di nullità contenute nella norma statutaria ed in particolare il riferimento all’art. 1345 c.c.

La nuova statuizione ha inevitabilmente aperto un forte dibattito intorno al significato da attribuire all’avverbio “espressamente”, che ha dato vita a letture diverse ed opposte, tra le quali è apparsa preferibile e condivisibile quella che ritiene necessario, ma anche sufficiente, che espressa, e quindi specifica, sia la regola sull’esercizio del potere di licenziamento, con la tipizzazione ex ante da parte del legislatore ordinario delle condizioni che legittimo o no l’esercizio del potere di recesso.

Se, dunque, questa è la lettura più corretta da dare a questa parte della disposizione dell’art. 2 d.lgs. 23/2015, la mancata riproduzione nel testo della norma del disposto sul licenziamento nullo per motivo illecito, spingerebbe quest’ultimo fuori dal perimetro applicativo della tutela reintegratoria tradizionale, alla quale si sostituirebbe la tutela reale c.d. di diritto comune (continuità giuridica del rapporto, ripristino del rapporto e risarcimento del danno), con una evidente, e forse irragionevole, disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015.

4.3. L’obbligo di reintegrazione

Nel regime di tutela applicabile alle fattispecie di licenziamento considerate, come visto, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace o nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Obiettivo del legislatore è quello di assicurare al lavoratore, illegittimamente privato del suo posto di lavoro, una tutela in forma specifica, e la specificità consiste nella effettiva riammissione in azienda del lavoratore e nella ripresa della normale utilizzazione/esecuzione della prestazione lavorativa.

Rispetto al valore da attribuire all'obbligo di reintegrazione, si registra, in giurisprudenza come nell’opinione di parte della dottrina, una tendenza a sottovalutare il ruolo della reintegrazione come fondamentale strumento di tutela del diritto al lavoro, sulla base della diffusa convinzione che la reintegrazione è una tutela se non inutile, quanto meno debole o non effettiva, a causa soprattutto della incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione.

La giurisprudenza maggioritaria, d'accordo con la prevalente dottrina, è infatti, ferma nel ritenere che le sentenze di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ordinino al datore di lavoro un facere infungibile e incoercibile, dunque non suscettibile di esecuzione forzata, oltre a riconoscere nei fatti al datore la possibilità di non ottemperare a tale obbligo e di lasciare inutilizzato il lavoratore pur regolarmente retribuito.

A fini dell’effettiva reintegrazione del lavoratore è, perciò, necessario un comportamento attivo del datore di lavoro, oltre e a prescindere dall’ordine giudiziario, che deve in concreto invitare il lavoratore a riprendere il servizio, attraverso un atto unilaterale recettizio dal contenuto specifico, e in concreto reinserirlo nelle mansioni precedenti o in mansioni equivalenti, nella stessa unità produttiva o in un'altra, purché il trasferimento sia giustificato da ragioni tecnico-produttive o organizzative.

L’obbligo di reintegrazione decade se il lavoratore, correttamente invitato, non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito rivolto dal datore di lavoro, e il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dello stesso termine, salvo un giustificato motivo di assenza, così nel caso della malattia del lavoratore certificato e comunicata al datore di lavoro.

Al prestatore di lavoro che ha ottenuto una sentenza di reintegrazione è data la facoltà di monetizzare la reintegrazione stessa, esercitando il diritto di opzione di cui all’art. 18, co. 3 Stat. Lav., ovvero chiedendo un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

L’attuale disciplina, confermata dall’art. 2 d.lgs. n. 23/2015, raccogliendo l’orientamento giurisprudenziale affermatosi sul punto, attribuisce alla richiesta dell’indennità sostitutiva da parte del lavoratore, purchè presentata nel termine di 30 giorni dal deposito della sentenza che ordina la reintegrazione, ovvero dall’invito a riprendere servizio se anteriore, l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro.

Degli eventuali ritardi nel pagamento dell'indennità sostitutiva, il datore di lavoro risponde secondo le regole vigenti in materia di mora del debitore.

5. L'impugnazione del licenziamento: forma e procedura

A norma dell’art. 6 Legge n. 604/1966, come novellato dall’art. 32, co. 1, Legge n. 183/2010, modificato ancora dall’art. 1, co. 38, Legge n. 92/2012, il lavoratore che ritiene viziato l’atto di recesso intimatogli può, e deve, impugnarlo, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta.

Nell’iniziale previsione normativa, il termine poteva decorrere dalla comunicazione scritta dei motivi, stante la previsione della facoltà di non comunicarli contestualmente ma a seguito di espressa richiesta scritta del lavoratore successiva al ricevimento del provvedimento stesso; tale assetto è stato modificato con la previsione dell’obbligo di comunicazione della motivazione del licenziamento contestualmente allo stesso (art. 1, co. 37 Legge n. 92/2012), per cui ad oggi si ritiene che il termine di 60 giorni decorra necessariamente dalla comunicazione del provvedimento espulsivo.

La previsione del termine decadenziale anzidetto è applicabile a tutti i casi di invalidità del licenziamento, nonché ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro (art. 32, co.2 Legge n. 183/2010), pertanto si ritiene applicabile, oltre che ai licenziamenti nulli o annullabili, anche ai licenziamenti inefficaci, essendo l’inefficacia equiparata, sul piano degli effetti, alla nullità; restano al di fuori di tali previsioni unicamente il licenziamento intimato oralmente, avendo il legislatore specificato che il termine decorre dalla comunicazione del licenziamento in forma scritta, e per tale ragione, di tutta evidenza, mancando la comunicazione scritta del licenziamento, non può decorrere alcun termine.

Quanto ai soggetti legittimati, fermo il potere d’impugnativa in capo all’organizzazione sindacale per espressa previsione normativa, dubbi sono stati espressi circa la legittimazione dell’avvocato cui il lavoratore abbia conferito incarico in forma verbale, rispetto ai quali è prevalsa la soluzione negativa, sul presupposto che, nel rispetto del principio generale ex art. 1392 c.c., la procura deve rivestire la stessa forma prevista per l’atto da compiere, sicché l’impugnativa sottoscritta dal legale in assenza di specifica procura per iscritto non vale ad impedire la decadenza22.

L’impugnazione può avvenire con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, a prescindere da formule sacramentali, purché idonea a manifestare inequivocabilmente al datore di lavoro l'intenzione del lavoratore di contestare la legittimità del recesso.

Essa può anche essere direttamente giudiziale, con il deposito, entro il termine prescritto, del ricorso innanzi all’autorità giudiziaria competente ed in tal caso la giurisprudenza di legittimità, sul presupposto che l’impugnativa configuri un atto unilaterale recettizio destinato a perfezionarsi solo nel momento in cui viene conosciuto dal datore, afferma che per evitare la decadenza del diritto all’impugnazione non solo il deposito, che resta ignoto al datore, ma anche la notifica del ricorso al datore di lavoro debbono avvenire entro i 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento.

Al termine decadenziale concesso per impugnare l’atto di recesso datoriale, che resta un termine di decadenza ed in quanto tale non può essere nè interrotto né sospeso, si aggiunge un secondo termine di decadenza, che va sommarsi al primo: l’impugnazione stragiudiziale è, infatti, inefficace se non è seguita entro 180 giorni – termine così ridotto dalla legge di riforma del 2012 - dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale competente o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato; qualora la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non sia stato raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo (art. 32, co. 7 Legge n. 183/2010)23.

Dubbi interpretativi sono sorti in merito alla dies a quo di decorrenza di questo secondo termine decadenziale di 180 giorni, ed in particolare sulla possibile sua decorrenza o meno dalla scadenza dei primi 60 giorni previsti per la impugnazione stragiudiziale, così da dar luogo ad un complessivo termine di 240 giorni. L’opzioni interpretativa che sembra prevalere è quella negativa, secondo cui la formulazione letterale della norma porta ed escludere la sommatoria dei due termini e a ritenere che il termine per il deposito del ricorso giudiziale decorre dall’effettiva data dell’impugnazione del licenziamento 24.

La giurisprudenza ha avuto, altresì, modo di affrontare un altro tema di rilevante interesse pratico, in tema di tempestività dell’impugnazione, precisando che il termine di decadenza di cui all’art. 6, per come modificato dalla novella del 2012, risulta soddisfatto, e la decadenza evitata, dalla trasmissione dell’atto scritto di impugnazione del licenziamento, e non dalla data di perfezionamento dell'impugnazione per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro25, che potrebbe anche essere successiva allo spirare del termine decadenziale.

Dal punto di vista poi squisitamente processuale, in applicazione dei principi generali, l'eventuale intervenuta decadenza non è rilevabile d'ufficio ma deve essere formalmente eccepita dalla controparte nella prima difesa scritta.

La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato, inoltre, non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, ma semplicemente preclude al lavoratore la possibilità di accedere al regime di tutela reale intesa in senso tradizionale, ferma la esperibilità, in alternativa, della normale azione risarcitoria in base ai principi generali e previa allegazione dei presupposti.

Per quanto riguarda, infine, l'onere della prova nelle controversie in materia di licenziamento, merita ricordare che, mentre della prova della giustificazione del licenziamento è onerato il datore di lavoro convenuto in giudizio (art. 5 Legge n. 604/1966), il lavoratore che impugna il licenziamento ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della pretesa, oltre al rapporto di lavoro subordinato, l'esistenza del licenziamento e, dunque, il fatto dell'avvenuta estromissione dal luogo di lavoro.

Detta questione dell'onere probatorio a carico del lavoratore rileva quasi esclusivamente nel caso del licenziamento orale, ed in particolare in quelle ipotesi in cui il lavoratore affermi di essere stato licenziato e il datore di lavoro eccepisca che, invece, è stato il lavoratore a dimettersi, in più occasioni risolto dalla Corte di cassazione onerando il lavoratore di provare esclusivamente l'avvenuta cessazione del rapporto, lasciando la prova delle dimissioni del lavoratore, trattandosi di eccezione in senso stretto, in capo al datore di lavoro 26.

6. La revoca del licenziamento

L’istituto della revoca del licenziamento ha ricevuto per la prima volta una disciplina specifica con la legge di riforma del 2012, che, nel riscrivere l’art. 18 Stat. Lav., ha espressamente procedimentalizzato tale facoltà per i soli datori di lavoro destinatari delle prescrizioni della norma statutaria (unità produttive con più di 15 dipendenti).

Analoga disciplina è stata, successivamente, ripresa e generalizzata dal d.lgs. n. 23/2015 per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la data del 7 marzo 2015, che, in prospettiva, è destinata a sostituire la precedente, via via che si esauriranno i rapporti di lavoro in essere alla data della sua entrata in vigore.

La disciplina della revoca del licenziamento di cui alle due normative richiamate (art. 18, co. 10, Stat. Lav. e art. 5 d.lgs. n. 23/2015), si differenzia notevolmente da quella elaborata dalla giurisprudenza in mancanza di specifica regolamentazione legislativa, dacché esclude che la revoca del licenziamento ad opera del datore di lavoro, in quanto atto unilaterale, necessiti di accettazione del lavoratore.

La revoca, trattandosi di atto recettizio, deve essere comunicato al lavoratore nel termine di quindici giorni dalla comunicazione dell’avvenuta impugnazione del licenziamento,- si ritiene, in assenza di specifica indicazione normativa, nella stessa forma del licenziamento -, ed ha l’effetto, se tempestiva, di ripristinare il rapporto di lavoro interrotto senza soluzione di continuità, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente, senza possibilità di richiedere il risarcimento degli eventuali ulteriori danni e, dunque, potersi avvalere dei regimi sanzionatori previsti rispettivamente dall’art. 18 Stat. Lav. e dall’art. 5 d.lgs. n. 23/2015.

Alla descritta disciplina va riconosciuto il pregio di fare chiarezza sulle annose questioni relative alla ricostruzione della volontà delle parti e di consentire al datore di lavoro, che sia consapevole dell’aver adottato un provvedimento illegittimo, di valutare la reazione del lavoratore ed eventualmente provvedere, revocando, appunto, tempestivamente il licenziamento.

7. Il licenziamento ingiustificato e le sue conseguenze

Prima delle importanti modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012, il regime sanzionatorio dei licenziamenti intimati senza giusta causa o giustificato motivo prevedeva, come già accennato, un doppio alternativo sistema di tutele, la c.d tutela obbligatoria (art. 8 Legge n. 604/1966) e la c.d. tutela reale (art. 18 Stat. Lav.), operanti a seconda che il licenziamento venisse intimato, rispettivamente, da un datore di lavoro che non occupasse alle sue dipendenze più di quindici lavoratori, o, viceversa, che superasse tale soglia occupazionale.

La riforma operata dalla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), pur lasciando immutati i campi di applicazione delle rispettive tutele e le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e oggettivo, ha profondamente modificato il contenuto della tutela reale, prevedendo una pluralità di sanzioni graduate secondo diverse intensità in funzione delle specifiche causali del licenziamento, a partire dalla summa divisio tra il licenziamento nullo o discriminatorio, come visto, il licenziamento disciplinare e il licenziamento economico per giustificato motivo oggettivo.

Questo intervento legislativo ha determinato, proprio all'interno dell'art. 18, una forte restrizione dell'ambito di applicazione della tutela reale, al cui interno è stata introdotta la distinzione tra “tutela reale piena”, riservata ai licenziamenti inefficace e/o nulli, e “tutela reale ridotta”, applicabile solo in alcuni casi di licenziamenti ingiustificati, a cui si affianca, sempre all'interno della medesima statuizione, una forte espansione della tutela indennitaria, nell'ambito della quale la legge distingue una “tutela forte” e una “tutela debole”, applicabili in altri casi di licenziamento ingiustificato e affetti da vizi formali e/o procedurali.

La legge di riforma del 2012 non ha, invece, modificato la tutela obbligatoria prevista dalla Legge n. 604/1966, che resta perciò immutata, quanto al campo di applicazione e quanto alla disciplina sanzionatoria applicabile al licenziamento privo di giustificazione.

Questo duplice regime è stato, recentemente, affiancato da un ulteriore disciplina sanzionatoria introdotta con il d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act), applicabile ratione temporis ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti a far data dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo.

L’entrata in vigore di tale nuova normativa ha reso evidente il carattere provvisorio della disciplina dei licenziamenti contenuta nella Legge n. 92/2012 che, per quanto vigente, può essere ormai considerata “ad esaurimento”, poiché trova applicazione nei contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati prima del 7 marzo 2015 e non nei contratti a tutele crescenti stipulati dopo tale data.

In ogni caso, fino a che vi saranno contratti di lavoro a tempo indeterminato ma non a tutele crescenti, per questi contratti la disciplina dei licenziamenti, salvo ulteriori precisazioni, è quella contenuta nella legge di riforma del 2012, a meno che, a fronte della disparità non ragionevoli di trattamento cui da luogo l’applicazione di discipline fortemente differenziate solo in ragione della data di assunzione dei lavoratori, il legislatore non proceda, magari sollecitato dalle aule di giustizia, alla riunificazione delle diverse discipline.

A fronte della contemporanea vigenza delle già menzionate discipline dei licenziamenti e dei regimi sanzionatori da esse previste, risultano oggi in vigore quattro regimi di tutela contro i licenziamenti illegittimi, individuabili in funzione di un doppio criterio, la dimensione dell'impresa e la data di assunzione del prestatore di lavoro, ovverosia:

- la tutela obbligatoria ai sensi dell’art. 8 Legge n. 604/1966 per i lavoratori della piccola impresa assunti prima del 7 marzo 2015;

- la tutela reale/indennitaria ai sensi dell'art. 18 Stat. Lav. per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015;

- la tutela reale/indennitaria ai sensi dell'art. 2, d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015;

- la tutela solo indennitaria ai sensi dell'articolo 9, 2 co., d.lgs. n. 23/2015 per i lavoratori della piccola impresa assunti dopo il 7 marzo 2015;

Nelle prossime pagine si analizzeranno i singoli regimi sanzionatori, con riguardo ai soli licenziamenti disciplinari privi dei presupposti legittimanti il potere di recesso.

7.1 La tutela obbligatoria: l’art. 8 Legge n. 604/1966

Il regime sanzionatorio previsto dall'articolo 8 Legge n. 604/1966, che non ha subito modifiche né ad opera della legge di riforma del 2012 nè di quella del 2015, al quale si dà tradizionalmente il nome di tutela obbligatoria, riguarda i soli licenziamenti ingiustificati e i licenziamenti disciplinari viziati nella procedura intimati nell’ambito di applicazione della stessa legge, ovvero datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori che occupano alle proprie dipendenze fino a 15 dipendenti o organizzazioni imprenditoriali che occupano complessivamente meno di 60, e imprenditori agricoli che occupano fino a cinque dipendenti.

Ai sensi dell'art. 8 della legge richiamata, quando il licenziamento risulti ingiustificato, il datore di lavoro è tenuto “a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un' indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”, elevabili fino a 10 mensilità se l’anzianità di servizio del lavoratore è superiore ai 10 anni e fino a 14 se superiore ai 20 anni.

Dal testo della norma emerge l’idoneità del licenziamento, pur illegittimo, a risolvere il rapporto di lavoro e, dunque, a produrre l'effetto di estinguere il rapporto stesso, ma fa sorgere in capo al datore un’obbligazione alternativa di ricostituzione ex novo di un rapporto di lavoro con il lavoratore illegittimamente licenziato o, a sua scelta, il versamento di un'indennità risarcitoria forfettaria, soluzione quest’ultima, largamente prevalente nella pratica.

I criteri per la determinazione dell'importo del risarcimento forfettario previsti dalla norma, di cui il giudice dovrà tener conto, sono stati più di recente modificati dall' articolo 30, co. 3, Legge n. 183/2010, che ha inserito, accanto al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti, anche i parametri fissati dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ed ai contratti individuali certificati, qualora prevedano criteri diversi, integrativi e non alternativi rispetto ai criteri legali.

Il risarcimento è calcolato in base all'ultima retribuzione globale di fatto corrisposta al lavoratore quando era in servizio, moltiplicata per il numero di mensilità deciso dal giudice tra il minimo e il massimo previsti dalla legge, con esclusione di ogni considerazione circa il danno effettivamente subito dal lavoratore, che resta quindi fuori da ogni valutazione.

Al lavoratore illegittimamente licenziato per giusta causa nell’ambito della tutela obbligatoria, la giurisprudenza riconosce, oltre all’indennità risarcitoria e in alternativa alla riassunzione, anche il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso.

7.2 La tutela reale dopo la legge n. 92/2012: l’alternativa tra tutela reale ridotta e tutela indennitaria

Si è già più volte evidenziato come, a seguito della riforma del 2012, l'articolo 18 Stat. Lav. non preveda più come unica reazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento (nullità, annullabilità ed inefficacia) il risarcimento in forma specifica della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

L’unitarietà del regime precedente risulta, infatti, frantumata a favore di un sistema sanzionatorio più articolato, che costa di ben quattro diverse tipologie di tutela: la tutela reintegratoria piena, riservata alle sole ipotesi di licenziamenti nulli o inefficaci (cfr. supra); la reintegratoria ridotta con indennità limitata a 12 mensilità, prevista per i licenziamenti ingiustificati, privi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo oggettivo; la tutela indennitaria forte con risarcimento da un minimo di 12 fino a un massimo di 24 mensilità, negli altri casi di licenziamento ingiustificato; l’ indennitaria ridotta con risarcimento da un minimo di sei a un massimo di 12 mensilità, nei casi di licenziamenti viziati nella forma o nella procedura.

Alla graduazione delle sanzioni applicabili ai licenziamenti illegittimi in quest’area normativa, corrisponde una necessaria graduazione delle giustificazioni dei licenziamenti, introdotta dal Legislatore in maniera coerente, agendo in tal modo non solo sul versante della punizione del datore, ma anche su quello dei presupposti che devono sorreggere il licenziamento perché sia legittimo.

7.2.1 La tutela reale ridotta (art. 18, co. 4 e 7, Stat. Lav.)

I licenziamenti ingiustificati perché carenti di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo e oggettivo sono soggetti, nell’ambito di applicazione della norma statutaria, a due distinti regimi sanzionatori, in ragione del diverso grado di mancata o carente giustificazione.

Il primo è quello previsto dall’art. 18, co. 4 Stat. Lav., in base al quale per il licenziamento disciplinare, vale a dire per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reintegrazione nel posto di lavoro è prevista solo in due ipotesi specifiche:

a) per insussistenza del fatto contestato posto a base del licenziamento: ipotesi che si verifica non solo quando il datore di lavoro abbia rivolto al lavoratore un’accusa infondata, basata su un fatto non vero, ma anche quando il fatto contestato, pur essendo vero, palesemente non assuma la rilevanza sufficiente a giustificare il licenziamento, con o senza preavviso. Sul significato da attribuire all’espressione, si confrontano, dal suo debutto, dottrina e giurisprudenza, sostenendo la prima che il fatto al quale la legge fa riferimento è un fatto materiale storico, spogliato di tutti gli elementi di contestualizzazione del caso concreto e esente da ogni valutazione di gravità e proporzionalità, la seconda, di contro, per opinione dominante in giurisprudenza, che, quando si tratta di licenziamento disciplinare, assumono rilevanza ai fini del giudicare non fatti materiali, ma inadempimenti contrattuali imputabile al lavoratore.

La giurisprudenza ormai pacifica sul punto, invero, ha affermato che un fatto materiale esistente, ma privo di rilievo disciplinare, è un fatto insussistente28: l’irrilevanza giuridica equivale a irrilevanza materiale. La rilevanza dell' inadempimento, poi, ai fini della giustificazione del licenziamento deve essere valutata alla stregua dei criteri legali, dunque, l’inadempimento che giustifica il licenziamento deve essere almeno notevole, e poiché si tratta di inadempimento imputabile a colpa del lavoratore, oltre alla componente materiale, ossia il fatto storico, il giudice dovrà valutare l'elemento soggettivo, come anche le circostanze specifiche della condotta che servono a misurare il grado di colpa del lavoratore.

E’, ulteriormente, controverso, se la tardività o intempestività della contestazione dell’addebito disciplinare rilevi ai fini della sussistenza o meno del fatto contestato, misurandosi sul punto opinioni giurisprudenziali altalenanti tra la non rilevanza ai fini della sussistenza del fatto della tardività della contestazione disciplinare, perché non attinente all’insussistenza nè sotto il profilo materiale nè sotto quello giuridico, e, di converso, la sua dirimenza, perché denotante la scarsa importanza per il datore di lavoro dell’infrazione disciplinare.

b) perché il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. La previsione ha comportato non pochi problemi interpretativi a causa della genericità e onnicomprensività delle formule utilizzate dai contratti collettivi, inducendo spesso i giudici a forzare la lettera della legge, nel senso di avocare a sé la valutazione se fatti per i quali i contratti collettivi prevedono una sanzione conservativa non siano viceversa talmente gravi da integrare una giusta causa di licenziamento e, dunque, da condurre ad una valutazione di legittimità del licenziamento. La lettera del nuovo 4 comma dell'art.18 sembra, invece, prevedere un automatismo sanzionatorio che opera sempre in presenza della sfasatura tra le previsioni di tipo conservativo del contratto collettivo e il provvedimento datoriale espulsivo.

Riguardo alle due fattispecie richiamate, è stato osservato che tra esse vi è pieno parallelismo e coerenza sistematica e che attraverso esse viene recuperato il canone della proporzionalità tra inadempimento e sanzioni. Questa valutazione in termini di sussistenza/insussistenza del fatto contestato, altresì, si raccorda con il canone generale dell’art. 1455 c.c., in base al quale il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell'altra: il comma 4 dell’art. 18 non fa altro che specificare questo principio generale, applicandolo al recesso datoriale giustificato con una condotta inadempiente del lavoratore, ossia al licenziamento disciplinare.

Nelle due ipotesi anzidette, il licenziamento è dichiarato annullabile dal giudice e il datore di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore, al quale è dovuto però non il risarcimento dei danni ma un’indennità - con funzione risarcitoria ma non connessa al danno effettivo - commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (c.d. aliunde percipiendum).

La misura dell’indennità risarcitoria non può comunque essere superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, parametrato al solo periodo che va dal licenziamento alla sentenza; per il periodo successivo, resta salvo il diritto del lavoratore al risarcimento commisurato alla retribuzione in caso di mancata reintegrazione.

Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione, ma riducibili per singoli periodi alla quota differenziale rispetto ai contributi eventualmente maturati con altra occupazione, anche di rapporti di lavoro non subordinato. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, che, come visto, risolve il rapporto.

Lo stesso regime è previsto per i licenziamenti per giustificato motivo economici illegittimi per “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e per i licenziamenti illegittimi per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore o i licenziamenti intimati in violazione dell'art. 2110 c.c. (superamento del periodo di comporto).

Secondo quanto previsto dall'articolo 18, coma 7, la possibilità per il lavoratore ingiustamente licenziato di vedersi garantita la tutela reale nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulta più ristretta rispetto al caso del licenziamento disciplinare, poiché la tutela reale è, non solo prevista solo nell’ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, ma è per di più rimessa alla facoltà dello stesso giudice la sua applicazione al caso di specie, in alternativa alla validità del licenziamento e alla condanna del datore di lavoro al solo pagamento di un’indennità ( c.d. tutela indennitaria forte, infra).

Rispetto al concetto di insussistenza del fatto nel licenziamento disciplinare, quello di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento economico è relativamente più semplice, dacchè è possibile ragionevolmente ritenersi che con l'espressione manifesta insussistenza il legislatore abbia inteso l'ipotesi di assoluta pretestuosità del motivo oggettivo, quale, per esempio, quello fatto valere in assenza di una effettiva ragione organizzativa; è stato, comunque, escluso, da consolidata giurisprudenza, che sia riconducibile alla figura della manifesta infondatezza la violazione dell'obbligo, di matrice giurisprudenziale, del cosiddetto repechage, sanzionabile con l’applicazione della sola tutela economica.

In sostanza, quando si tratta di un licenziamento motivato da ragioni tecnico- produttive, la reintegrazione da un lato è lasciata alla scelta discrezionale del giudice, sulle cui spalle ricade perciò il peso di una decisione certamente non facile, dall'altro lato, il giudice può condannare il datore di lavoro alla reintegrazione solo qualora accerti la manifesta insussistenza del fatto, espressione che coinvolge non tanto direttamente i fatti ma, soprattutto, valutazioni dell'imprenditore in ordine al venir meno della convenienza della conservazione di un posto di lavoro o di un dato intervento di riorganizzazione aziendale, rispetto ai quali sappiamo bene che il sindacato del giudice è limitato e non può estendersi al merito delle valutazioni tecniche organizzative e produttive che competono, appunto, esclusivamente al datore di lavoro.

Al fine di non ridurre, dunque, la reintegrazione a sanzione per le ipotesi patologiche e come tali del tutto marginali, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza, si dovrà considerare come manifestamente insussistente non solo la motivazione meramente pretestuosa, ma anche la mancata prova del nesso causale tra le scelte tecnico produttive - insindacabili - e il licenziamento del singolo lavoratore29.

7.2.2 Tutela indennitaria forte (art. 18, co. 5 e 7, Stat. Lav.)

L'innovazione più rilevante introdotta dalla Legge n. 92/2012 riguarda la possibilità che, pure a fronte di un licenziamento illegittimo, disciplinare o economico, il giudice dichiari risolto il rapporto e applichi una tutela meramente indennitaria.

Il comma 5 dell'art. 18 Stat. Lav. prevede infatti che, in quelle ipotesi in cui è accertato che il fatto addebitato al lavoratore sussiste e non rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice debba valutare se gli elementi forniti dal datore di lavoro, che ha l'onere della prova della giustificazione, integrino gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa e in caso di esito negativo di tale verifica, ovvero di insufficienza della giustificazione a legittimare il licenziamento, come avviene quando l’inadempimento del lavoratore sussiste ed è comunque imputabile ma non è tanto notevole o grave da giustificare il licenziamento, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data di comunicazione del licenziamento.

Il licenziamento è, pertanto, valido e produce effetto dal momento in cui la sua comunicazione scritta è pervenuta al lavoratore, decorso il preavviso ove previsto.

Il giudice condanna in tal caso il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, senza deduzioni e satisfattiva del profilo previdenziale, determinata tra un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto, e adeguatamente motivando, oltre che dell’anzianità di servizio del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti.

Allo stesso modo, ai sensi del comma 7 dell’art. 18, se si tratta di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in tutte le ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice applica la tutela indennitaria, per cui il licenziamento è valido e produce l'effetto estintivo del rapporto di lavoro e al lavoratore spetta un' indennità risarcitoria onnicomprensiva, variabile tra un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità della di retribuzione globale di fatto, alla cui determinazione il giudice procede sulla base dei criteri di cui al comma 4, nonché tenendo conto del comportamento delle parti nella procedura preventiva al licenziamento, ai sensi dell'art art 7, Legge n. 604/1966, da espletare innanzi al DTL.

In queste ultime fattispecie, qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele (tutela reale piena e tutela reale ridotta).

In conformità all’intenzione del legislatore, la tutela meramente indennitaria dovrebbe costituire - in sostituzione della tutela reintegratoria che resta l'eccezione nelle due varianti descritte - il regime generale di tutela contro il licenziamento illegittimo. Fatta eccezione, invero, per le ipotesi di insussistenza o manifesta insussistenza del fatto e di previsione di una sanzione conservativa da parte della disciplina collettiva, essa si applica a tutti i casi di illegittimità del licenziamento disciplinare ed economico.

7.2.3 Tutela indennitaria debole (art. 18, co. 6, Stat. Lav.)

Un’ultima tipologia sanzionatoria è prevista per le ipotesi di inefficacia del licenziamento per omessa comunicazione dei motivi del licenziamento, per violazione della procedura disciplinare di cui all’art. 7 Stat. Lav. e per violazione della procedura preventiva di conciliazione prevista dall’art. 7 Legge n. 604/1966 per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il mancato rispetto dei requisiti formali e procedurali del licenziamento genera in capo al lavoratore una tutela indennitaria c.d. debole, nel senso che l’ammontare dell’indennità è ridotto rispetto a quella previste nelle ipotesi disciplinate nei commi precedenti.

L’accertamento del vizio formale o procedurale dell’atto di recesso produce l'effetto di risolvere il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore il diritto a un’indennità onnicomprensiva, e satisfattiva dei profili previdenziali, determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Il vizio formale non impedisce, però, un esame sotto l'aspetto sostanziale, qualora il giudice accerti, sulla base della domanda del lavoratore, che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento: in tal caso troverà applicazione in alternativa la tutela reintegratoria con indennità limitata, o la tutela indennitaria forte. Al vizio procedurale viene in tal caso a sovrapporsi un vizio sostanziale (giustificazione insussistente o inadeguata), in conseguenza del quale trovano applicazione le correlate sanzioni, ma l'onere della prova grava, almeno in parte, sul lavoratore.

7.3 Il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015)

La riforma del 2015, c.d. Jobs Act, ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi che, come si è già avuto modo di osservare, ha determinato un generale abbassamento rispetto all’assetto precedente, a sua volta oggetto di intervento riformatore del 2012, delle tutele previste per il lavoro subordinato.

Incrementando il tasso di flessibilità in uscita, la novella realizza una significativa marginalizzazione della tutela reintegratoria, sostituita da una tutela solo indennitaria parametrata sulla mera anzianità di servizio del lavoratore, da cui discende la denominazione “tutela crescente”, che diventa quindi ora la regola, relegando la tutelare reintegratoria a mera eccezione.

Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo introdotte dal legislatore nel 2015 trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori, fatta eccezione per i dirigenti, assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente alla data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo, ovvero il 7 marzo 2015.

La data di nuova assunzione, tuttavia, non sempre fa da discrimine poiché rientrano nell'ambito di applicazione del nuovo regime di tutela anche i lavoratori assunti in precedenza con contratto a tempo determinato o di apprendistato e il cui rapporto sia stato convertito in rapporto a tempo indeterminato successivamente alla predetta data, come anche i lavoratori assunti prima della detta data , nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del decreto, abbia superato la soglia minima dei 15 dipendenti, ossia abbia raggiunto il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18 Stat. Lav. (art. 1, co. 2-3, d.lgs. n. 23/2015).

Per rilievo unanime, la nuova disciplina non trova applicazione nei confronti dei pubblici dipendenti, ai quali risulta applicabile la nuova disciplina del lavoro nel settore pubblico emanata con il d.lgs. n. 175/2017 in attuazione della legge delega n. 124/2015 (c.d Riforma Madia), che modifica in più parti il d.lgs. n. 165/2001; più controversa la sua applicazione ai rapporti speciali di lavoro, nei quali i lavoratori non sono classificati in operai, impiegati e quadri ai sensi della disciplina codicistica e per i quali vigono diverse discipline in materia di cessazione dei rapporti di lavoro (si pensi al personale navigante del settore marittimo di aeronautico, ai lavoratori domestici e agli atleti professionisti).

Sul lato datoriale, diversamente dalla precedente novella del 2012, la cui scelta strategica è stata quella di lasciare in vigore la disciplina della cosiddetta tutela obbligatoria e di mantenere inalterata la summa divisio di tutele rappresentata dal criterio dimensionale30, la nuova disciplina sanzionatoria trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dal dato dimensionale e numerico, e a prescindere dall'oggetto dell'attività esercitata, coinvolgendo anche le cosiddette organizzazioni di tendenza (art. 9, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).

In continuità con la riforma avviata dalla legge del 2012, ricalcandone l’impalcatura, anche il nuovo regime sanzionatorio presenta una quadripartizione delle tutele, a cui se ne aggiunge una quinta se si considera l’ulteriore regime della piccola impresa: la tutela reintegratoria piena; la tutela reintegratoria con indennità limitata; la tutela indennitaria forte o standard; e la tutela indennitaria ridotta.

Presupposti e contenuti delle diverse tipologie di tutela sono tuttavia diversi.

a) La tutela reale piena: licenziamento discriminatorio, nullo e orale (art. 2 d.lgs. n. 23/2015)

Nel nuovo impianto sanzionatorio, la tutela reintegratoria piena, a cui si è già fatto parzialmente cenno nei paragrafi precedenti, trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, imprenditore o non imprenditore, indipendentemente dalla motivazione formale addotta e dal numero di dipendenti impiegati, nelle ipotesi di licenziamento nullo perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 15 Stat. Lav., ovvero nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità “espressamente”31 previsti dalla legge o al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale, ovvero ancora, innovando rispetto alla previsione dell’art. 18 Stat. Lav., al licenziamento del quale sia stato accertato in giudizio il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (anche se disabile assunto obbligatoriamente ai sensi della Legge n. 68/1999)32.

Il contenuto di questo tipo di tutela resta quello già previsto dalla legge del 2012 con una sola differenza: la retribuzione sulla cui base viene commisurata l’indennità risarcitoria, che si aggiunge alla reintegra, non è più l’ultima retribuzione globale di fatto, bensì l'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che potrà risultare inferiore rispetto alla retribuzione globale di fatto.

Entrambe le disposizioni, dunque, limitano ai licenziamenti nulli e inefficace la tutela reale e ne ripropongono la disciplina prevista dal previgente articolo 18 , introducendo qualche modifica che la lascia però in sostanza immutata.

b) La tutela reale ridotta: i licenziamenti disciplinari per giusta causa e giustificato motivo soggettivo (art. 3, co. 2, D. Lgs. n. 23/2015)

Al di fuori dei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale, l'applicazione della tutela reintegratoria è prevista ora esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

La nuova disposizione segna un netto distacco rispetto alla analoga previsione dell’art. 18 Stat. Lav., giacché accoglie chiaramente una nozione di fatto puramente materiale, che prescinde da tutti gli elementi di contesto, qui rilevanti solo ai fini della ricognizione della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, e soprattutto prescinde dalla valutazione compiuta non solo in sede giudiziale ma anche in sede collettiva circa la proporzione tra licenziamento intimato e la gravità della mancanza commessa, posto che manca nel testo letterale ogni riferimento alle disposizioni dei contratti collettivi prescriventi per lo stesso fatto contestato una sanzione solo conservativa.

Resta, tuttavia, ad opinione di parte della dottrina, e benché il legislatore abbia volutamente omesso un richiamo alla contrattazione collettiva, l'obbligo del datore di lavoro di applicare il codice disciplinare aziendale, e con esso la proporzionalità tra infrazione e sanzione, e resta in ogni caso, e anche prescindendo dalle valutazioni espresse dalla contrattazione collettiva, la considerazione secondo cui un licenziamento disciplinare motivato da una condotta del lavoratore, che pur essendo un fatto sussistente, fosse di scarsissimo rilievo, sarebbe così platealmente sproporzionato da sconfinare nell’uso arbitrario del potere di licenziamento.

Rimane altrettanto ferma, in attesa di qualche ulteriore riscontro giurisprudenziale che consenta di approfondire la riflessione, l'interpretazione della Corte di Cassazione secondo cui nel campo delle infrazioni e relative sanzioni disciplinari, per essere sussistente il fatto contestato deve necessariamente avere rilevanza disciplinare (Cass. n. 20540/2015), rilievo che include valutazioni di ordine soggettivo, nella misura in cui è disciplinarmente rilevante solo un inadempimento imputabile al lavoratore, e nel rapporto di lavoro sono imputabili al lavoratore solo gli inadempimenti riconducibili a sua colpa o dolo.

In dette ipotesi di accertamento di illegittimità del licenziamento per essere stata dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, in ogni caso non superiore, per il periodo precedente alla pronuncia, a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per l'ammissione contributiva.

Dall' indennità risarcitoria così individuata, dovrà essere dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, ovvero quanto egli avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (ai sensi dell’art. 4, co. 1, Legge n. 181/2000); il lavoratore potrà, comunque, sempre optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

c) La tutela indennitaria forte (o standard): le altre ipotesi di licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015)

In tutti gli altri casi in cui il recesso è dichiarato illegittimo perché privo degli estremi del giustificato motivo soggettivo, oggettivo o della giusta causa, il nuovo regime sanzionatorio prevede la sola tutela economica.

Secondo il disposto dell'articolo 3, comma 1, laddove il fatto contestato sussiste ma non integri i requisiti della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il rapporto di lavoro si estingue dalla data del licenziamento e il lavoratore vanta il solo diritto ad ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità onnicomprensiva, non assoggettata a contribuzione previdenziale (ma all’imposta fiscale) di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità, elevata nel minimo a 6 e nel massimo a 36 mensilità dal D.L. n. 87/2018, convertito in Legge n. 96/2018.

Questa forma di tutela, considerate le ipotesi ormai del tutto eccezionali in cui trova applicazione la tutela reale, è destinata a divenire la forma ordinaria e generale di tutela contro il licenziamento illegittimo: essa infatti si applica in tutte le ipotesi di insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento c.d. economico - rispetto al quale è ormai perentoria l’esclusione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro - e, presumibilmente, nella maggior parte dei licenziamenti disciplinari dichiarati illegittimi ma di cui non sia stata dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato.

Tale tutela è per il resto analoga alla tutela indennitaria prevista dall'art. 18, co. 5, Stat. Lav., atteso che l’invalidità del licenziamento non incide sull’effetto di estinzione del rapporto di lavoro, che pure si produce, con la differenza che la quantificazione dell'indennizzo non è più affidata alla discrezionalità del giudice, ma ancorata al criterio dell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro entro un minimo ed un massimo legislativamente stabilita, una sorta di costo fisso predeterminato del licenziamento.

L’importo dell'indennizzo fissato dalla disposizione de qua è apparso da subito ridotto e inadeguato rispetto all’analoga tutela indennitaria prevista dall'art. 18 Stat. Lav., a tal punto da sollevare dubbi di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, di cui si è fatta portavoce la giurisprudenza di merito33, interrogando la Corte costituzionale sull’eventuale contrasto di tale disciplina con l'artt. 3, 4, 35, 117 e 136 Cost., in quanto l’importo dell' indennità risarcitoria prevista dalla novella del 2015 non riveste carattere compensativo nè dissuasivo, ed ha peraltro conseguenze discriminatorie, dacchè opera una disparità di trattamento tra lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti e lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015; in quanto attraverso essa al diritto al lavoro, valore fondante della Carta costituzionale, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; ed in quanto, infine, la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito dalla fonti sovranazionali (Carta dei diritti fondamentali europea e Carta sociale europea).

Con l’importante sentenza n. 194/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, sia nel testo originario sia nel testo modificato dal D.L. n. 87 /2018 (c.d. Decreto Dignità) nella parte in cui fissa un meccanismo uniforme, rigido ed automatico per il calcolo dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato (carente di giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo) dei lavoratori assunti a decorre dal 7 marzo 2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, ritenendo la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e della diversità delle singole vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, comportare un’indebita omologazione di situazioni che possono essere, e di fatto sono, tra loro diverse.

Secondo il Giudice delle leggi, il parametro prescelto infatti, costituito dall’anzianità di servizio del lavoratore – in quanto uniforme per tutti i dipendenti, a prescindere dalla loro particolare situazione personale, e troppo rigido –, non è in grado né di garantire un personalizzato ed adeguato ristoro del danno effettivamente patito dal lavoratore, né di costituire adeguato strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal commettere l’illecito; è, viceversa, conforme a Costituzione, sempre nel ragionamento della Corte, il limite massimo delle 24 mensilità (poi divenute 36 con il cd. “Decreto Dignità”) fissato dalla norma all’importo dell’indennità, considerata nella sua prioritaria dimensione risarcitoria, in quanto sotto questo aspetto essa attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.

In ossequio a quanto statuito dalla Corte costituzionale, pertanto, l’indennità risarcitoria deve essere quantificata dal giudice nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo di legge, tenuto conto dei criteri desumibili dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, ma innanzitutto dell'anzianità di servizio a cui seguono, secondo una lettura costituzionalmente orientata, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e la condizione delle parti.

Per quanto la pronuncia dichiari incostituzionale solo l’art. 3, c. 1, d.lgs. 23/2015 nella parte in cui fissa il sistema di calcolo dell’indennità per il licenziamento ingiustificato, senza estendere le sue valutazioni ad altre norme del decreto stesso che utilizzano le identiche modalità di calcolo, non si dubita che essa è destinata ad estendere i suoi effetti anche su queste, e più in generale ad avere in prospettiva un importante impatto di sistema sull’intero impianto del d.lgs. 23/2015, se non addirittura sull’intera disciplina dei licenziamento.

d) La tutela indennitaria debole: i licenziamenti viziati nella forma e nella procedura (art. 4 d.lgs. n. 23/2015)

Una tutela meramente indennitaria è prevista, infine, per i licenziamenti affetti da vizi formali, fatta eccezione per il licenziamento privo di forma (cfr. supra) o procedurali, vale a dire intimati in violazione dei requisiti di motivazione (art. 2 Legge n. 604/1966) o della procedura prevista per i licenziamenti disciplinari dall’art. 7 Stat. Lav34.

Ai sensi dell'art. 4, in tali ipotesi, in continuità con l'analoga previsione dell’art. 18, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità onnicomprensiva, esente da contribuzione, ridotta alla metà, ossia pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, sempre che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore non accerti la sussistenza del presupposto per l'applicazione delle più forti tutela della reintegrazione piena o della reintegrazione con indennità limitata.

e) Piccole imprese e organizzazioni di tendenza (art. 9 d.lgs. n. 23/2015)

Una disciplina specifica, di natura esclusivamente risarcitoria, è infine prevista per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 da datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali richiesti per l'applicazione delle previsioni di cui all’art. 18 Stat. Lav., ovvero i 15 o i 60 dipendenti riferiti rispettivamente all’unità produttiva o all'impresa.

Detta disciplina è caratterizzata dall' espressa esclusione della reintegrazione con indennità limitata alle 12 mensilità, pertanto anche in caso di licenziamento disciplinare nel quale il fatto contestato al lavoratore risulti insussistente, questi non avrà diritto alla reintegrazione ma alla sola tutela economica, di importo dimezzato rispetto alle indennità risarcitoria stabilite nei casi di applicazione della tutela risarcitoria forte e della tutela risarcitoria debole (art. 9, co. 1 D. Lgs. 23/2015).

Così, in caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un' indennità di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in ogni caso non superiore a sei mensilità; in caso, invece, di licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura prevista per i licenziamenti disciplinari, ferma l'estinzione del rapporto di lavoro, la condanna sarà il pagamento di un' indennità di importo pari a 0,5 mensilità dell'ultima retribuzione utile il calcolo del TFR per ogni anno di servizio e in misura non superiore a sei mensilità.

Per quanto riguarda le organizzazioni di tendenza, va, infine, evidenziata l’importante innovazione dell’estensione, ad opera dell’art. 9, co. 2 d.lgs. n. 23/2015, ad esse del regime di tutela reale ridotta per i licenziamenti disciplinari dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sino ad ora ammessa solo per i licenziamenti discriminatori o determinati da motivo illecito.

8 Profili processuali e nuovi strumenti conciliativi

Un cenno, a completamento del presente lavoro, si ritiene opportuno fare riguardo all’istituto processuale introdotto dalla novella del 2012 per le controversie aventi ad oggetto licenziamenti ricadenti nell’ambito di applicazione del nuovo art. 18 Stat. Lav. (c.d. Rito Fornero), e sulla nuova speciale procedura di conciliazione espressamente dedicata alla prevenzione del contenzioso relativo ai licenziamenti, contenuta nell’art. 7, d.lgs. n. 23/2015 (c.d. offerta reale di conciliazione).

La Legge n. 92/2012 ha introdotto nel nostro ordinamento processuale un rito speciale per le controversie sui licenziamenti intimati da datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali richiesti per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 18 Sta. Lav., con l'espresso obiettivo di ridurre i tempi del processo e la definizione delle controversie di impugnazione dei licenziamenti.

Detto rito speciale, applicabile alle controversie instaurate successivamente al 18 luglio 2012 aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, è altresì ammesso anche rispetto ad altre domande, purché “fondate sugli identici fatti costitutivi”.

Il rito, pertanto, non si applica ai licenziamenti ingiustificati rientranti nell'ambito di applicazione della legge n. 604/1966 e, pertanto, non si applica neppure ai licenziamenti nei cui confronti tale legge, per sua testuale esclusione, non opera, quindi al licenziamento del dirigente, al licenziamento in periodo di prova, al recesso ante tempus dal contratto di lavoro a tempo determinato, nonché agli altri contratti ai quali accede, direttamente o indirettamente, un termine, come somministrazione e lavoro a progetto.

Rispetto a tale nuovo rito, è stata esclusa la sua alternatività rispetto al ricorso ex articolo 414 cpc, sulla considerazione che il rito speciale è predisposto nell'interesse di entrambe le parti del giudizio all’abbreviazione della durata del processo, conseguentemente il giudice eventualmente adito ex art. 414 cpc, dovrà disporre la separazione della domanda relativa all'applicazione dell'articolo 18, affinché sia trattata con il rito speciale previsto dalla Legge del 2012.

Il rito speciale costa di tre possibili gradi di giudizio: il primo grado introdotto con ricorso al tribunale in funzione del giudice di lavoro è articolato in due eventuali fasi, una prima fase sommaria e una seconda eventuale fase di opposizione a cognizione piena di fronte al medesimo tribunale; il secondo grado è un reclamo, vale a dire un appello innanzi alla Corte d'appello; avverso la sentenza d'appello è ammesso il ricorso per Cassazione.

Nella prima fase, definibile come fase sommaria o urgente, sulla falsariga del procedimento cautelare ex art. 700 cpc, la controversia viene introdotta con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro, territorialmente competente secondo le ordinarie regole processuali del rito speciale del lavoro; l'udienza deve essere fissata non ho oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, che, una volta avvenuto, costituisce dies a quo per l’assegnazione, da parte del giudice di un termine per la notifica del ricorso e del decreto, non inferiore a 25 giorni prima dell’udienza, nonchè del termine non inferiore a 5 giorni prima della stessa udienza per la costituzione del resistente.

In questa prima fase, il giudice procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d'ufficio e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda. L’efficacia esecutiva del provvedimento non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce l’eventuale giudizio di opposizione, da instaurarsi entro trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza innanzi al medesimo Tribunale.

La eventuale seconda fase dell’unico giudizio di primo grado è costituita da quella di opposizione, da proporre con ricorso avente il contenuto di cui all’art. 414 cpc, nella quale il giudizio si espande a cognizione piena, tanto che il giudice, che potrà essere il medesimo della fase sommaria35, deve procedere, omessa ogni formalità, agli atti di istruzioni ammissibili e rilevanti, ovvero ad una istruzione esauriente.

Contro la sentenza di primo grado può essere proposto reclamo/appello davanti alla Corte d'appello con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore, della sentenza conclusiva del primo grado di giudizio, ove non sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, salvo che non siano indispensabili ai fini della decisione, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile; a deposito avvenuto, la Corte fissa l'udienza di discussione nei successivi 60 giorni e può sospendere l'efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi.

La Corte procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza, all’accoglimento o al rigetto della domanda; la sentenza completa di motivazione deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.

Contro la sentenza d'appello può essere proposto ricorso per Cassazione entro 60 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione, se anteriore, oppure, in mancanza di entrambe, nel termine di sei mesi dal deposito della sentenza.

Il nuovo rito speciale per le controversie in materia di licenziamento è stato oggetto di molte critiche e la sua applicazione ha dato luogo ad un imponente giurisprudenza, ma, ad oggi, esso costituisce ormai diritto vigente in via di esaurimento, stante il venir meno della sua operatività, ed applicabilità, per espressa previsione legislativa, ai licenziamenti dei lavoratori regolati dalla legge di riforma del 2015.

A tali lavoratori torna, dunque, ad applicarsi l’ordinario rito del lavoro come regolato dal Codice di procedura civile e conseguentemente, venute meno le incompatibilità funzionale del rito Fornero con le disposizioni in materia di procedimenti d'urgenza, anche l’art. 700 cpc.

Ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, da ultimo, e quindi soggetti alla nuova disciplina, l’art. 6 d.lgs. n. 23/2015 riserva una nuova forma di conciliazione, la cui espressa finalità è quella di evitare il giudizio, ferma in ogni caso la possibilità per le parti di addivenire ad ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge.

La novità consiste nella possibilità offerta al datore di lavoro di evitare il giudizio di impugnazione del licenziamento, offrendo al lavoratore licenziato, che abbia già impugnato il licenziamento, una somma di denaro entro i termini di impugnazione stragiudiziale, ovvero 60 giorni dalla ricezione della comunicazione in forma scritta del licenziamento, purché ciò avvenga in una delle sedi protette di cui all’art. 2113 c.c. e art. 76 Legge n. 183/2010, ovverosia le sedi della conciliazione sindacale, amministrativa o giudiziaria, nonché quelle delle commissioni di certificazione.

L’importo offerto dal datore di lavoro non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche - e qui evidentemente riposano le speranze di successo dell'istituto in questione - e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, e deve essere pari, nel suo ammontare, ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18 mensilità, modificate in aumento dal D.L. n. 87/2018 ed elevate a 3 nel minimo e a 27 mensilità nel massimo.

L’offerta deve avvenire presso una delle anzidette sedi protette, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare, che ne garantisce la effettiva copertura, la cui accettazione da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione dello stesso, anche qualora essa sia già stata proposta.

Come è evidente, la conciliazione consiste in uno scambio tra una somma di denaro e la chiusura tombale di ogni possibile controversia sul licenziamento, una soluzione che può rivelarsi molto conveniente per il lavoratore, vista la ormai residuale previsione di ottenere dal giudice la reintegrazione nel posto di lavoro e stante la modesta entità dell'indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento ingiustificato, soggette peraltro al prelievo fiscale.

Molti dubbi sono stati, tuttavia, espressi intorno al termine individuato dal legislatore per attivare la sede protetta ed offrire la somma a titolo conciliativo, ed in particolare rispetto alla decorrenza di questo dalla comunicazione del licenziamento, poiché si osservato che, stante la verosimile impugnazione dell’atto di recesso da parte del lavoratore in prossimità della scadenza di tale termine, ed eventualmente della sua ricezione da parte del datore di lavoro oltre tale termine, in tal modo sarebbe negato in radice all’impresa la possibilità di avvalersi dello strumento conciliativo in ragione del mero ritardo da parte del prestatore di lavoro nell’impugnazione del licenziamento.

Più ragionevole sarebbe stato prevedere la decorrenza del termine decadenziale per attivare la procedura conciliativa a far data dall'eventuale impugnazione del licenziamento, quale strategia di risposta del datore di lavoro ad un eventuale attività impugnatoria del lavoratore, piuttosto che rimettere tale possibilità alla mera scelta del se e quanto impugnare l’atto espulsivo da parte del lavoratore.

Onde evitare che lo sconto fiscale, infine, possa essere ottenuto con riguardo a transazioni relative ad ulteriori questioni controversie che possono essere risolti unitamente o comunque nella stessa sede della conciliazione stragiudiziale, il legislatore precisa che le eventuali somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette all’ordinario regime fiscale.

1 Per dimissioni in bianco si intende una pratica assai diffusa consistente nel far firmare al lavoratore o alla lavoratrice le proprie dimissioni in anticipo al momento dell’assunzione, per poi completarle, con l’apposizione della data, all’occorrenza, magari in occasione di un infortunio, una malattia, un comportamento sgradito o di una gravidanza.

2 Secondo l’art. 1628 del c.c. del 1865 (figlio di omologhe disposizioni del Codice Napoleonico) nessuno poteva porsi all’altrui servizio che a tempo e per una determinata impresa. Si tratta di una regola che ha al suo interno un’ovvia affermazione di libertà che spezza i vincoli di origine feudale. Senonché, tale principio, calato nel contesto economico industriale, si prestava alla facile obiezione di garantire una libertà solo apparente ed una solo formale parità delle parti agli effetti della cessazione del vincolo obbligatorio.

3 Corte Cost. sentenza n. 45 del 9 giugno 1965.

4 Il riferimento è all’art. 24 Carta Sociale Europea e all’art. 30 Carta dei Diritti fondamentali della Unione Europea.

5 Si tratta della Legge n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), che è intervenuta essenzialmente sul versante processuale, riducendo i termini per l’impugnazione del licenziamento, e della Legge n. 148/2011, il cui art. 8 ha introdotto la possibilità per la contrattazione collettiva di prossimità di derogare, con efficacia erga omnes, agli standard normativi e collettivi in alcune materie, tra le quali compare quella delle “conseguenze del recesso del rapporto di lavoro”.

6 Prima della riforma del 2012, la comunicazione del licenziamento poteva anche non contenere l’indicazione dei motivi o della causa addotti a giustificazione, essendo rimessa al lavoratore la facoltà di richiederli entro quindici giorni dalla comunicazione del recesso datoriale: in tal caso, il datore di lavoro era obbligato a comunicare i motivi per iscritto entro sette giorni dalla richiesta stessa, pena l’inefficacia del licenziamento.

7 App. Firenze 5 luglio 2016 ha qualificato conforme all’art. 2 Legge n. 604/1966 il licenziamento comunicato via sms.

8 Corte Cost. 23 novembre 1994 n. 398.

9 Cass. civ. sez. lav. 5 settembre 2016 n. 17589.

10 Corte Cost. 30 novembre 1982 n. 204; Cass. SS.UU. 1° giugno 1987 n. 4823, in RGL, 1987, II, p. 219.

11 La dottrina, nella sua elaborazione, parte dalla norma dell’art. 1564 cod.civ., che pur riferita alla risoluzione del contratto della somministrazione, la ritiene di portata generale e applicabile a tutti i contratti di durata.

12 In tal senso, recentemente, Cass. civ. sez. lav. 7 marzo 2017 n. 5693.

13 Un esempio significativo è fornito dalla casistica relativa allo svolgimento di altre attività durante il periodo di assenza per malattia; dopo molte oscillazioni, la giurisprudenza è venuta consolidandosi intorno all’orientamento espresso dalla Cassazione secondo cui, pur non sussistendo il divieto di prestare attività lavorativa in proprio o presso terzi, può rappresentare una grave violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 1175 del c.c., che a sua volta integra una giusta causa di licenziamento, lo svolgimento di un'attività che evidenzia la simulazione della malattia ovvero comprometta o ritardi la guarigione.

14 Molte le pronunce giurisprudenziali in tal senso. Si veda da ultimo ….

15 Una controversa ipotesi di scarso rendimento è quella connessa alla cosiddetta eccessiva morbilità del lavoratore, vale a dire eccessiva frequenza di assenza per malattia, che l'orientamento giurisprudenziale prevalente ha escluso dal novero delle ipotesi riconducibili ad un giustificato motivo soggettivo, essendo la malattia un evento protetto dall' ordinamento e le ripetute assenza dal lavoro non inquadrabili in inadempimenti imputabile al lavoratore (Cass. 14758/2013).

16 Tale orientamento è rinvenibile nella giurisprudenza che si è ripetutamente pronunciata oltre che sulle ipotesi del superamento del periodo di comporto per malattia del lavoro del lavoratore, su altre questioni di impossibilità sopravvenuta, tra le quali spiccano quella della carcerazione preventiva e quella della sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni cui è addetto (cfr. Cass. n. 22536/2008).

17 In tal senso cfr. Cass 7 dicembre 2016 n. 25201.

18 Si tratta delle pronunce nn. 2072, 2073 e 2074 del 1980.

19 Come giustamente rilevato dalla Cassazione nella sentenza n. 6575 /2016, “l'articolo 3 Legge n. 108/1990 dispone che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie - ai sensi dell'art. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970 n. 300 - è nullo indipendentemente dalla motivazione adotta, con ciò evidenziando, da un lato, una netta distinzione della discriminazione dall'area dei motivi ,dall'altro, la idoneità della condotta discriminatoria a determinare di per sé sola la nullità del licenziamento”.

20 Corte Cost. 10 febbraio 1993 n. 46.

21 Cass. civ. sez. lav. 3 dicembre 2015 n. 24648.

22 La soluzione maggiormente diffusa nella pratica è la contestuale ratifica per iscritto da parte dello stesso lavoratore della impugnativa predisposta e sottoscritta dal legale incaricato, entrambe portate a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza prescritto.

23 Vale la pena di ricordare che, nel regime previgente, dopo la tempestiva impugnazione stragiudiziale, l'azione in giudizio doveva essere proposta nel termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 1442 c.c., mentre nessun termine era invece applicabile nel caso di licenziamenti nulli o inefficaci.

24 In tal senso recentemente la Suprema Corte, secondo cui “la lettera della disposizione che combina inefficacia dell'impugnazione extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo e non dalla fine dei 60 giorni concessi per la impugnazione stragiudiziale”. (Cass. 20 marzo 2015, n. 5717).

25 Cfr. Cass. sez. lav. 21 marzo 2013 n. 4299.

26 Cass. sez. lav. 13 aprile 2005.

27 Secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, invero, la revoca del licenziamento poteva produrre effetto solo se accettata dal lavoratore: in sostanza la revoca del licenziamento era configurata come proposta contrattuale che, se accettata dal lavoratore, produceva l'effetto di ripristinare ex nunc il rapporto di lavoro, senza tuttavia eliminare gli effetti dannosi prodotti da licenziamento illegittimo, e senza impedire al lavoratore di chiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione (Cass. 17 novembre 2016, n. 23435).

28 Cass. civ. sez. lav. 13 ottobre 2015 n. 20540.

29 Così Trib. Foggia 1 aprile 2014.

30 Il campo di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav., da parte datoriale, è definito dal comma 8, come modificato dalla legge n. 92/2012, secondo cui il regime di tutele da esso previsto è applicabile ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che complessivamente occupano più di 60 dipendenti, comunque l'attività sia organizzata, alle unità produttive (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) con più di 15 dipendenti, anche se costituiscono articolazioni organizzative di imprese o organizzazioni con meno di 60 dipendenti, ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che, nell'ambito dello stesso comune, occupano più di 15 dipendenti e alle imprese agricole, che nel medesimo ambito territoriale, occupano più di 5 dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. Non vi rientrano le c.d. organizzazioni di tendenza.

31 La lettura dell' avverbio espressamente che pare dominare, sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella che ritiene necessario, ma anche sufficiente, che la regola di esercizio del potere di licenziamento sia espressa e specifica, con la tipizzazione ex ante da parte del legislatore ordinario delle condizioni che non legittimano l'esercizio del potere di recesso, e, pertanto, esclude dall’ambito di applicazione della tutela reale piena tutte quelle ipotesi di licenziamento virtualmente nulli, vale a dire intimato in violazione di norme imperative che non prevedono in modo esplicito la sanzione della nullità.

32 L’inserimento di tale fattispecie ha non poco disorientato i primi commentatori, creando un dubbio interpretativo circa l’esatta collocazione di questa fattispecie di recesso che, da ipotesi qualificata di ingiustificatezza del licenziamento per motivi oggettivi, è transitata nell'ambito delle discriminazioni per disabilità, da cui il rafforzamento e la generalizzazione della sanzione che passa dalla tutela reale ad effetti risarcitori limitati per i soli lavoratori delle aziende medio grandi di cui alla legge Fornero, alla tutela reale ad effetti risarcitori pieni per tutti i lavoratori di cui al Jobs Act.

33 Trib. Roma, ordinanza del 26 luglio 2017.

34 La riforma del 2015 ha espressamente abrogato per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti, il preventivo tentativo di conciliazione di cui all’art. 7 Legge n. 604/1966, introdotto dalla Legge n. 92/2012 per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

L’estrema insidiosità del rischio elettrico e le conseguenze anche mortali degli infortuni che ne possono derivare hanno determinato, nel corso degli anni, l’ampio sviluppo di legislazione e normativa tecnica.

Per oltre cinquanta anni, la legislazione sulla sicurezza del lavoro basata sul Dpr 547/55 ha fornito indicazioni tecniche e prescrizioni puntuali, entrando nel merito delle caratteristiche degli impianti e delle apparecchiature elettriche.

Tale approccio era rigido e, pur garantendo la sicurezza elettrica nella maggior parte dei casi pratici, in alcune situazioni imponeva misure tecniche inutilmente vincolanti, mentre in alcune altre risultava comunque carente, non consentendo di adeguare le misure tecniche all’evoluzione delle conoscenze e della tecnologia. Peraltro, mentre il Dpr 547/55 era in vigore, leggi specifiche sulla produzione del materiale elettrico ed elettronico, sulla sicurezza degli impianti e sulla libera circolazione dei prodotti nella Comunità Europea introducevano espressamente l’obbligo di realizzare componenti, apparecchi e impianti a regola d’arte, e attribuivano alle norme tecniche la presunzione di conformità alla regola d’arte.

Si rammenta che mentre le norme di legge sono cogenti, l’adozione delle norme tecniche resta volontaria. Tuttavia, ove espressamente menzionate dalla legislazione, la corretta applicazione delle norme tecniche può costituire un supporto pressoché indispensabile alla dimostrazione del rispetto delle leggi stesse.

Con il D.lgs. 626/94 è stato prevista per la prima volta la necessità di effettuare la valutazione di tutti i rischi (e quindi anche di quello elettrico).

Tale obbligo è stato ripreso dal D.lgs. 81/08, che ha abrogato sia il Dpr 547/55, sia il D.lgs. 626/94, ed ha introdotto in maniera definitiva, anche nel campo della sicurezza sul lavoro, il richiamo all’esecuzione a regola d’arte, conseguibile mediante l’applicazione delle norme tecniche.

Nelle pagine che seguono saranno illustrate le principali leggi applicabili al rischio elettrico, derivanti in parte dalla legislazione sul lavoro e in parte da discipline specifiche.

Promozione e cultura della prevenzione

L’Inail è protagonista attiva nella diffusione della cultura della prevenzione attraverso progetti per l’informazione e la formazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e negli ambienti di vita rivolti a lavoratori italiani e stranieri, datori di lavoro, studenti e operatori della scuola. 

L'Inail progetta e intraprende percorsi di coinvolgimento del mondo del lavoro e, più in generale, dell’opinione pubblica per elevare il livello di conoscenza e di consapevolezza sui rischi presenti nel lavoro e sulle corrette misure di prevenzione e protezione individuali e collettive. Le iniziative realizzate, in collaborazione anche con enti e istituzioni, sono volte alla diffusione di strumenti efficaci ed innovativi per il contenimento dei costi sociali conseguenti agli infortuni e alle malattie professionali, mettendo a disposizione informazioni, soluzioni e materiale informativo e formativo.
 
Il percorso coinvolge direttamente e attivamente anche le figure della prevenzione definite dal “Testo unico della sicurezza sul lavoro” :

  • datore di lavoro
  • dirigente (spesso nelle piccole e medie aziende non è presente)
  • preposto (tipicamente, il capoufficio, caporeparto, caposquadra, capomacchina, capocantiere, ecc.)
  • responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp)
  • addetto del servizio di prevenzione e protezione (Aspp)
  • medico competente (Mc)
  • rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls)
  • lavoratore incaricati della gestione delle emergenze (evacuazione, antincendio, primo soccorso)
  • lavoratore. 

 
Tali figure, oltre a costituire uno dei target di campagne e corsi di formazione, costituiscono una delle fonti di quei dati alla base del costante affinamento del sistema di prevenzione e di sicurezza, che costituisce una delle principali attività dell’Inail.

Sistema nazionale per la prevenzione (Sinp)
Come disposto dall’articolo 8 del Testo unico sulla sicurezza (d.lgs. 81/2008), il Sinp ha la finalità di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate.

Linee guida

Gli atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai ministeri, dalle regioni, dall'Ispesl e dall’Inail e approvati in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, si definiscono "linee guida" (art. 2, co. 1, lett. Z del d.lgs. 81/2008 e s.m.i.). Le linee guida, pertanto, seguono un iter istituzionale di approvazione che porta alla emanazione di atti di indirizzo certificati a livello istituzionale.

La legge di conversione 30 luglio 2010, n. 122 con modificazioni del d.l. 78/2010, prevede l'attribuzione all'Inail delle funzioni già svolte dall'Ispesl. Le linee guida pubblicate a marchio Ispesl sono precedenti tale data ma comunque approvate da Inail.

Assicurazione

L’Inail tutela il lavoratore contro i danni fisici ed economici derivanti da infortuni causati dall’attività lavorativa e malattie professionali.
Con l’assicurazione il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile conseguente all’evento lesivo subìto dai propri dipendenti, salvo i casi in cui, in sede penale o - se occorre - in sede civile, sia riconosciuta la sua responsabilità per reato commesso con violazione delle norme di prevenzione e igiene sul lavoro.
All’assicurazione sono tenuti tutti i datori di lavoro che occupano lavoratori dipendenti e lavoratori parasubordinati nelle attività che la legge individua come rischiose. Gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura sono tenuti ad assicurare anche se stessi.
Vi è obbligo assicurativo se sono compresenti due requisiti:

  • oggettivi, ossia le attività rischiose previste dall'art. 1 del testo unico (decreto del Presidente della Repubblica 1124/1965)
  • soggettivi, ossia i soggetti assicurati richiamati nell'art. 4 dello stesso testo unico

Sono tutelati dall’Inail tutti coloro che, addetti ad attività rischiose, svolgono un lavoro comunque retribuito alle dipendenze di un datore di lavoro, compresi i sovrintendenti ai lavori, i soci di società e cooperative, i medici esposti a Rx, gli apprendisti, i dipendenti che lavorano a computer e registratori di cassa e  anche i soggetti appartenenti all'area dirigenziale e gli sportivi professionisti dipendenti.
Sono inoltre tutelati gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura e i lavoratori parasubordinati che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa.
Per quanto riguarda la navigazione e la pesca, sono compresi nell'assicurazione i componenti dell'equipaggio, comunque retribuiti, delle navi o galleggianti anche se esercitati a scopo di diporto.
L’evoluzione dei processi lavorativi e la costante introduzione di tecnologie sempre più avanzate ha imposto l’estensione dell’obbligo assicurativo Inail a quasi tutte le attività della produzione e dei servizi.

Le tipologie di attività rischiose sono suddivise in due grandi gruppi:

  • le attività svolte attraverso l’utilizzo di macchine, apparecchi e impianti a pressione, elettrici e termici oppure svolte in laboratori e ambienti organizzati per lavori e per la produzione di opere e servizi che comportino l’impiego di dette macchine, apparecchi o impianti. L’obbligo sussiste anche se l’uso di macchine, apparecchi o impianti avviene in via transitoria, per dimostrazione, per esperimento o non è attinente all’attività esercitata e permane indipendentemente dalla grandezza e dalla potenza delle macchine stesse. Nell’assicurazione sono comprese le lavorazioni complementari e sussidiarie, anche se svolte in locali diversi e separati da quelli in cui si svolge la lavorazione principale.
  •  le attività elencate dall'art. 1 del testo unico che, per loro natura, presentano un elevato grado di pericolosità anche se svolte senza l’ausilio di macchine, apparecchi e impianti per le quali c'è una presunzione assoluta di rischio, ad esempio: lavori edili e stradali, esercizio di magazzini e depositi, nettezza urbana, vigilanza privata, trasporti, allestimento, prova o esecuzione di pubblici spettacoli, etc..

A partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovranno essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura online accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Così come previsto dalla Circolare n.12 del 4 marzo 2016, i lavoratori possono procedere personalmente oppure per mezzo di alcuni soggetti abilitati che sono patronati, organizzazioni sindacali, commissioni di certificazione ed enti bilaterali e, con l’entrata in vigore del D. Lgs. 185/2016, anche consulenti del lavoro e sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Rispetto alle commissioni di certificazione costituite presso l'ITL (ex DTL) sono stati forniti alcuni chiarimenti sulla loro attività di assistenza con la Nota direttoriale del 24 marzo 2016.
I consulenti del lavoro possono accedere alla procedura online e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali abiliterà le utenze all’invio telematico delle dimissioni volontarie. I consulenti già abilitati all’invio delle chiamate intermittenti sono automaticamente abilitati all’invio delle dimissioni telematiche e possono verificare lo stato di avanzamento accedendo al portale Servizi Lavoro. Non occorre, quindi, in entrambe le ipotesi inviare richieste di abilitazione all’assistenza tecnica del portale.
Si evidenzia che, qualora fosse necessario variare qualche informazione dopo l’invio della comunicazione, sarà necessario eseguire la revoca della comunicazione e un nuovo inoltro. La revoca può essere inviata entro 7 giorni dall’invio della comunicazione. Decorso il termine di 7 giorni utile per la revoca, per lo stesso rapporto di lavoro sarà possibile inviare nuove dimissioni, non revocabili.

L’assicurazione obbligatoria Inail copre ogni incidente avvenuto per “causa violenta in occasione di lavoro” dal quale derivi la morte, l’inabilità permanente o l’inabilità assoluta temporanea per più di tre giorni. Si differenzia dalla malattia professionale poiché l’evento scatenante è improvviso e violento, mentre nel primo caso le cause sono lente e diluite nel tempo.

La causa violenta è un fattore che opera dall’esterno nell’ambiente di lavoro, con azione intensa e concentrata nel tempo, e presenta le seguenti caratteristiche: efficienza, rapidità ed esteriorità. Può essere provocata da sostanze tossiche, sforzi muscolari, microrganismi, virus o parassiti e da condizioni climatiche e microclimatiche. In sintesi, una causa violenta è ogni aggressione che dall’esterno danneggia l’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’occasione di lavoro è un concetto diverso rispetto alle comuni categorie spazio temporali riassumibili nelle espressioni “sul posto di lavoro” o “durante l’orario di lavoro”. Si tratta di tutte le situazioni, comprese quelle ambientali, nelle quali si svolge l’attività lavorativa e nelle quali è imminente il rischio per il lavoratore. A provocare l’eventuale danno possono essere:

  • elementi dell’apparato produttivo
  • situazioni e fattori propri del lavoratore
  • situazioni ricollegabili all’attività lavorativa.

Non è sufficiente, quindi, che l’evento avvenga durante il lavoro ma che si verifichi per il lavoro, così come appurato dal cosiddetto esame eziologico, ossia l’esame delle cause dell’infortunio. Deve esistere, in sostanza, un rapporto, anche indiretto di causa-effetto tra l’attività lavorativa svolta dall’infortunato e l’incidente che causa l’infortunio.
 
Sono esclusi dalla tutela gli infortuni conseguenti ad un comportamento estraneo al lavoro, quelli simulati dal lavoratore o le cui conseguenze siano dolosamente aggravate dal lavoratore stesso.
Sono invece tutelabili gli infortuni accaduti per colpa del lavoratore, in quanto gli aspetti soggettivi della sua condotta (imperizia, negligenza o imprudenza) nessuna rilevanza possono assumere per l’indennizzabilità dell’evento lesivo, sempreché si tratti di aspetti di una condotta comunque riconducibile nell’ambito delle finalità lavorative.
 

Infortunio in itinere

L’Inail tutela i lavoratori nel caso di infortuni avvenuti durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il luogo di lavoro. Il cosiddetto infortunio in itinere può verificarsi, inoltre, durante il normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro a un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi, oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti, se non esiste una mensa aziendale. È stata riconosciuta l'indennizzabilità anche per l'infortunio occorso al lavoratore durante la deviazione del tragitto casa-lavoro dovuta all'accompagnamento dei figli a scuola. Qualsiasi modalità di spostamento è ricompresa nella tutela (mezzi pubblici, a piedi, ecc.) a patto che siano verificate le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari. Al contrario, il tragitto effettuato con l’utilizzo di un mezzo privato, compresa la bicicletta in particolari condizioni, è coperto dall’assicurazione solo se tale uso è necessitato.

Le eventuali interruzioni e deviazioni del normale percorso non rientrano nella copertura assicurativa a eccezione di alcuni casi particolari, ossia se vi siano condizioni di necessità o se siano state concordate con il datore di lavoro. Esistono, tuttavia, alcune eccezioni.
Ad esempio:

  • interruzioni/deviazioni effettuate in attuazione di una direttiva del datore di lavoro
  • interruzioni/deviazioni "necessitate" ossia dovute a causa di forza maggiore (ad esempio un guasto meccanico) o per esigenze essenziali e improrogabili (ad esempio il soddisfacimento di esigenze fisiologiche) o nell'adempimento di obblighi penalmente rilevanti (esempio: prestare soccorso a vittime di incidente stradale)
  • interruzioni/deviazioni "necessarie" per l'accompagnamento dei figli a scuola
  • brevi soste che non alterino le condizioni di rischio.

Utilizzo di un mezzo privato

L’utilizzo dell’automobile o dello scooter può considerarsi necessario solo in alcune situazioni.
Esempi:

  • il mezzo fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative
  • il luogo di lavoro è irraggiungibile con i mezzi pubblici oppure raggiungibile ma non in tempo utile rispetto al turno di lavoro
  • i mezzi pubblici obbligano a attese eccessivamente lunghe
  • i mezzi pubblici comportano un rilevante dispendio di tempo rispetto all’utilizzo del mezzo privato
  • la distanza della più vicina fermata del mezzo pubblico deve essere percorsa a piedi ed è eccessivamente lunga.
     

Consumo di alcool, droga e di psicofarmaci

Rimangono esclusi dall'indennizzo gli infortuni direttamente causati dall'abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall'uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni, nonché dalla mancanza della patente di guida da parte del conducente.
 

Assistenza dai patronati

Nel caso in cui i lavoratori abbiano necessità, possono richiedere per lo svolgimento delle pratiche l'assistenza dei patronati che, per legge, tutelano i diritti dei lavoratori infortunati in forma del tutto gratuita.

Datore di lavoro

Gli obblighi in caso di infortunio sul lavoro
Per gli infortuni occorsi alla generalità dei lavoratori dipendenti o assimilati, prognosticati non guaribili entro tre giorni, escluso quello dell'evento, il datore di lavoro ha l'obbligo di inoltrare la denuncia/comunicazione di infortunio entro due giorni dalla ricezione dei riferimenti del certificato medico (numero identificativo del certificato, data di rilascio e periodo di prognosi) già trasmesso per via telematica all’Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio (art. 53 Testo unico 1124/1965), indipendentemente da ogni valutazione rispetto alla ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità.
In caso di infortunio mortale o con pericolo di morte, deve segnalare l'evento entro ventiquattro ore e con qualunque mezzo che consenta di comprovarne l'invio, fermo restando comunque l'obbligo di inoltro della denuncia/comunicazione nei termini e con le modalità di legge (art. 53, comma 1 e 2, Testo unico 1124/1965).
Qualora l’inabilità per un infortunio prognosticato guaribile entro tre giorni si prolunghi al quarto, il datore di lavoro deve inoltrare la denuncia/comunicazione entro due giorni dalla ricezione dei riferimenti del nuovo certificato medico (numero identificativo del certificato, data di rilascio e periodo di prognosi) già trasmesso per via telematica all’Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente.
Il datore di lavoro che invia all’Istituto assicuratore le denunce di infortunio con modalità telematica è esonerato dall’obbligo di trasmettere le informazioni relative alle predette denunce all’autorità di pubblica sicurezza.  Ai fini degli adempimenti previsti dall’art. 54 del Testo unico 1124/1965, l’Istituto mette a disposizione mediante la cooperazione applicativa di cui all’art. 72, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 82 del 2005, i dati relativi alle denunce degli infortuni mortali o con prognosi superiore a trenta giorni.

Per gli infortuni che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno escluso quello dell’evento, tutti i datori di lavoro, compresi i datori di lavoro privati di lavoratori assicurati presso altri enti o con polizze private e i loro intermediari hanno comunque l’obbligo di inoltrare, a fini statistici e informativi, la "Comunicazione di infortunio" (combinato disposto art. 3, art. 18, comma 1, lettera r, e art. 21 d.lgs. n. 81/2008 e s.m.) secondo le indicazioni fornite nella sezione Attività > Prevenzione e sicurezza > Promozione e cultura della prevenzione > Comunicazione di infortunio.

Settore artigianato
Il titolare o uno dei titolari dell'azienda artigiana deve provvedere all'inoltro della denuncia/comunicazione di infortunio (art. 203, comma 1, Testo unico 1124/1965) nel caso sia occorso un infortunio ad un lavoratore dipendente del settore.
Nei casi di infortunio occorsi al titolare o a uno dei titolari dell'azienda artigiana, ove questi si trovino nella impossibilità di provvedervi direttamente, l'obbligo di denuncia nei termini di legge si ritiene assolto con l'invio del certificato medico da parte di uno dei predetti soggetti o del medico curante entro i previsti termini, ferma restando la necessità di inoltrare comunque la denuncia/comunicazione per le relative finalità assicurative.
 
Settore agricoltura
Per gli infortuni occorsi ai lavoratori autonomi del settore agricoltura, provvede il lavoratore autonomo sia per sé che per gli appartenenti al nucleo familiare costituenti la forza lavoro (art. 25 del decreto legislativo 38/2000 e art. 1, comma 7, decreto ministeriale del 29 maggio 2001). Ove questi si trovi nella impossibilità di provvedervi direttamente, l'obbligo di denuncia nei termini di legge si ritiene assolto con l'invio del certificato medico da parte di tale lavoratore o del medico curante entro i previsti termini, ferma restando la necessità di inoltrare comunque la denuncia/comunicazione per le relative finalità assicurative.

Settore navigazione
Per gli infortuni occorsi agli addetti alla navigazione marittima ed alla pesca marittima  il comandante/datore di lavoro ha l’obbligo di inoltrare la denuncia/comunicazione di infortunio entro due giorni dalla ricezione dei riferimenti del certificato medico (numero identificativo del certificato, data di rilascio e periodo di prognosi) già trasmesso per via telematica all’Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio (art. 53, primo comma, Testo unico 1124/1965).
In caso di  infortunio mortale o con pericolo di morte, il comandante/datore di lavoro deve segnalare l’evento entro ventiquattro ore e con qualunque mezzo che consenta di comprovarne l’invio, fermo restando comunque l’obbligo di inoltro della denuncia/comunicazione nei termini e con le modalità di legge (art. 53, secondo comma, Testo unico 1124/1965.).
Qualora l’inabilità per un infortunio prognosticato guaribile entro tre giorni si prolunghi al quarto, il comandante/datore di lavoro deve inoltrare la denuncia/comunicazione entro due giorni dalla ricezione dei riferimenti del nuovo  certificato medico (numero identificativo del certificato, data di rilascio e periodo di prognosi) già trasmesso per via telematica all’Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio (art.53, terzo comma, Testo unico 1124/1965.).
Se l’infortunio si verifica durante la navigazione, la denuncia deve essere fatta il giorno del primo approdo dopo l’infortunio nel caso in cui esista certificazione medica con prognosi superiore a tre giorni redatta durante la navigazione dal medico di bordo.
 Ai fini dell’erogazione delle prestazioni, nel modulo di denuncia devono essere riportati, in caso di sbarco, i dati del luogo e della data dello sbarco.
Il datore di lavoro che invia all’Istituto assicuratore le denunce  di infortunio con modalità telematica è esonerato dall’obbligo di trasmettere le informazioni relative alle predette denunce all’autorità portuale o consolare competente  Ai fini degli adempimenti previsti dall’art. 54 del Testo unico 1124/1965, l’Istituto mette a disposizione mediante la cooperazione applicativa di cui all’art. 72, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 82 del 2005, i dati relativi alle denunce degli infortuni mortali o con prognosi superiore a trenta giorni.
 
Sanzioni
Il datore di lavoro deve indicare il codice fiscale del lavoratore. In caso di mancata oppure inesatta indicazione, è prevista l'applicazione di una sanzione amministrativa (art. 16, legge 251/1982).
In caso di denuncia mancata, tardiva, inesatta oppure incompleta, è prevista l'applicazione di una sanzione amministrativa (art. 53, Testo unico 1124/1965 e successive modifiche e integrazioni).
Se l'infortunio è occorso ad un lavoratore autonomo del settore artigianato (art. 203, comma 1 e 2, Testo unico 1124/1965) e del settore agricoltura (artt. 1, comma 8, e 2, decreto ministeriale del 29 maggio 2001) non è prevista alcuna sanzione amministrativa, ferma restando la perdita del diritto all'indennità di temporanea per i giorni antecedenti l'inoltro della denuncia.

Denuncia di infortunio

La denuncia/comunicazione di infortunio è l'adempimento al quale è tenuto il datore di lavoro nei confronti dell'Inail in caso di infortunio sul lavoro dei lavoratori dipendenti o assimilati soggetti all'obbligo assicurativo, che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni escluso quello dell'evento, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l'indennizzabilità.
L'invio della denuncia/comunicazione consente, per gli infortuni con la predetta prognosi, di assolvere contemporaneamente sia all'obbligo previsto a fini assicurativi dall'art. 53, decreto del Presidente della Repubblica 1124/1965, che all'obbligo previsto a fini statistico/informativi dall'art. 18, comma 1, lettera r, decreto legislativo 81/2008 a far data dall'entrata in vigore della relativa normativa di attuazione.

La denuncia/comunicazione di infortunio deve essere trasmessa all'Inail esclusivamente in via telematica per:

  • i lavoratori dell'industria, dell'artigianato, dei servizi e delle pubbliche amministrazioni titolari di rapporto assicurativo con l'Inail;
  • i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali e studenti delle scuole pubbliche, assicurati con la speciale forma della “Gestione per conto dello Stato”;
  • i lavoratori del settore agricoltura.

Il servizio non è ancora attivo per gli infortuni occorsi a:

  • lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari e di riassetto e pulizia locali;​
  • lavoratori occasionali di tipo accessorio di datori di lavoro privati cittadini.

La sede competente a trattare il caso di infortunio è quella nel cui territorio l’infortunato ha stabilito il proprio domicilio (circolare Inail 54/2004).

Settore navigazione
La denuncia/comunicazione di infortunio è l'adempimento al quale è tenuto il comandante o in caso di suo impedimento l’armatore/datore di lavoro, nei confronti dell’Inail in caso di infortuni sul lavoro degli addetti alla navigazione ed alla pesca marittima, soggetti all’obbligo assicurativo, e che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni escluso quello dell’evento, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l'indennizzabilità.
L'invio della denuncia/comunicazione consente, per gli infortuni con la predetta prognosi, di assolvere contemporaneamente sia all'obbligo previsto a fini assicurativi dall'art. 53, Testo unico  1124/1965, che all'obbligo previsto a fini statistico/informativi  dall'art. 18, comma 1, lettera r, d.lgs.  81/2008 a far data dall’entrata in vigore della relativa normativa di attuazione.
I datori di lavoro del settore marittimo sono gli armatori (art. 265 codice della navigazione) e gli altri  soggetti titolari del rapporto di lavoro con i lavoratori imbarcati (es. concessionario dei servizi di bordo).
La denuncia/comunicazione di infortunio deve essere trasmessa all'Inail esclusivamente in via telematica.
La sede competente a trattare il caso di infortunio è quella nel cui territorio l’infortunato ha stabilito il proprio domicilio (circolare Inail n. 54 /2004).
Se l’infortunio si verifica durante la navigazione, la denuncia deve essere fatta il giorno del primo approdo dopo l’infortunio nel caso in cui esista certificazione medica con prognosi superiore a tre giorni redatta durante la navigazione dal medico di bordo.
Ai fini dell’erogazione delle prestazioni, nella denuncia devono essere riportati, in caso di sbarco, i dati del luogo e della data dello sbarco.
L'armatore/datore di lavoro è obbligato a comunicare  alla competente sede dell'Inail la retribuzione effettivamente corrisposta all'infortunato nei trenta giorni precedenti lo sbarco. L'obbligo non sussiste nel caso di retribuzioni convenzionali (art. 32, Testo unico 1124/1965).

In caso di infortunio sul lavoro con prognosi di almeno un giorno
Per gli infortuni che comportano l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento, tutti i datori di lavoro, compresi i datori di lavoro privati di lavoratori assicurati presso altri enti o con polizze private e i loro intermediari, hanno comunque l’obbligo di inoltrare, a fini statistici e informativi, la "Comunicazione di infortunio" (combinato disposto art. 3, art. 18, comma 1, lettera r, e art. 21 d.lgs. n. 81/2008 e s.m.).
Nel caso in cui la prognosi oggetto di "Comunicazione di infortunio" si prolunghi oltre i tre giorni, i datori di lavoro con soggetti assicurati all’Inail (gestioni Iaspa, conto Stato, settore navigazione) o i loro intermediari, hanno l’obbligo di inoltrare, ai fini assicurativi, la "Denuncia/comunicazione d’infortunio", ai sensi dell’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124.
Per semplificare tale adempimento, è possibile, dal menu dell’applicativo "Comunicazione di infortunio", accedere alla funzione "Comunicazioni inviate", ricercare la comunicazione inoltrata e utilizzare la funzione "Converti in denuncia" in corrispondenza della comunicazione da integrare con le informazioni necessarie all’invio della "Denuncia/comunicazione d’infortunio".

Lavoratore

Il lavoratore viene assicurato per una o più attività considerate pericolose dall’art. 1 del Testo unico 1124/1965, ma in pratica si può trovare in situazioni di pericolo che non sempre sono provocate dalle attività per le quali è stato assicurato.
Infatti, è esposto, oltre che al rischio tipico delle sue mansioni, anche a quello delle prestazioni connesse o strumentali alla sua attività, che possono essere varie e non sempre prevedibili. Opera, inoltre, in un determinato ambiente che, di per sé solo, può presentare pericoli; svolge la prestazione a fianco di colleghi che svolgono anch’essi attività rischiose; entra in contatto con apparecchiature e macchine varie anche se non le utilizza direttamente.
 
Nella tutela Inail rientrano, a titolo esemplificativo, i lavoratori dipendenti, i parasubordinati, ed alcune tipologie di lavoratori autonomi, quali ad esempio gli artigiani e coltivatori diretti.
 
In virtù del principio di automaticità delle prestazioni, il lavoratore ha diritto alle prestazioni anche se il suo datore di lavoro non lo ha assicurato o se non è in regola con il pagamento dei contributi Inail. Il principio di automaticità delle prestazioni non si applica, tuttavia, per i lavoratori autonomi, per i quali il diritto e, quindi, il pagamento delle prestazioni scatta nel momento in cui viene regolarizzata la situazione contributiva. Il lavoratore autonomo può, invece, accedere alle prestazioni sanitarie e riabilitative anche se non ha provveduto al versamento del premio.
 
Si perde il diritto alle prestazioni Inail dopo tre anni e 150 giorni:

  • dal giorno in cui si è verificato l’infortunio
  • dalla data in cui i postumi permanenti hanno raggiunto la misura minima indennizzabile, ai fini del conseguimento dell’indennizzo in capitale del danno biologico o della rendita diretta.

Per ottenere le prestazioni il lavoratore può rivolgersi alla sede del Patronato più vicina, che mette a disposizione dei lavoratori consulenza e assistenza gratuita. Inoltre, grazie a una convenzione stipulata con i Centri di assistenza fiscale (Caf) aderenti alla consulta nazionale, gli assistiti Inail potranno rivolgersi ai Caf per la consultazione e la stampa della Certificazione unica in via telematica.
 
Gli articoli 1 e 4 del Testo unico del 1965 definiscono i criteri oggettivi e soggettivi per stabilire quali sono i lavoratori tutelati contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

I Servizi online offrono la consultazione della propria anagrafica, dello stato delle pratiche e dei pagamenti, oltre al download della Certificazione unica. 

Per l'accesso al servizio è necessario l'utilizzo di Spid, Cns o Cie.

Comunicazione dell'infortunio

In caso di infortunio, anche in itinere e a prescindere dalla prognosi, il lavoratore deve immediatamente avvisare o far avvisare, nel caso in cui non potesse, il proprio datore di lavoro. La segnalazione dell’infortunio deve essere fatta anche nel caso di lesioni di lieve entità. In base alla gravità dell’infortunio, il lavoratore può:

  • rivolgersi al medico dell’azienda, se è presente nel luogo di lavoro
  • recarsi o farsi accompagnare al Pronto soccorso nell’ospedale più vicino
  • rivolgersi al suo medico curante.

In ogni caso, occorre spiegare al medico come e dove è avvenuto l’infortunio.

Qualunque medico presti la prima assistenza a un lavoratore infortunato sul lavoro è obbligato a rilasciare il certificato medico nel quale sono indicati la diagnosi e il numero dei giorni di inabilità temporanea assoluta al lavoro e a trasmetterlo esclusivamente per via telematica all’Istituto assicuratore.
La trasmissione per via telematica del certificato di infortunio è effettuata utilizzando i servizi telematici messi a disposizione dall’Istituto assicuratore. I dati delle certificazioni sono resi disponibili telematicamente dall’istituto assicuratore ai soggetti obbligati a effettuare la denuncia in modalità telematica.
Il lavoratore è obbligato a dare immediata notizia al datore di lavoro di qualsiasi infortunio gli accada, anche se di lieve entità (art. 52, d.p.r. n.1124/1965 e s.m.i.); non ottemperando a tale obbligo e nel caso in cui il datore di lavoro non abbia comunque provveduto all’inoltro della denuncia/comunicazione nei termini di legge, l’infortunato perde il diritto all’indennità di temporanea per i giorni ad esso antecedenti.
Per assolvere a tale obbligo il lavoratore deve fornire al datore di lavoro il numero identificativo del certificato medico, la data di rilascio e i giorni di prognosi indicati nel certificato stesso.
 
Cosa succede quando il certificato medico che attesta l’assenza dal lavoro non viene presentato all’ente competente
Quando il certificato medico di infortunio viene inviato all’Inps piuttosto che all’Inail e, viceversa, il certificato di malattia comune perviene all’Inail piuttosto che all’Inps, al fine di chiarire la competenza nei casi dubbi, Inail e Inps hanno stipulato una convenzione che consente al lavoratore, a seguito di verifiche effettuate dai due enti, di non perdere la tutela che viene comunque anticipata, in presenza dei necessari presupposti, per i periodi di assenza dal lavoro, dal primo ente a cui il lavoratore si è rivolto per denunciare il proprio caso.
 
Cosa fare se il datore di lavoro non denuncia l’infortunio
Il datore di lavoro ha l’obbligo di inoltrare la denuncia/comunicazione di infortunio entro due giorni dalla ricezione dei riferimenti del certificato medico (numero identificativo del certificato, data di rilascio e periodo di prognosi) già trasmesso per via telematica all’Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio.
Se il datore di lavoro non dovesse denunciare all’Inail l’infortunio, può farlo il lavoratore recandosi presso la sede Inail competente con la copia del certificato rilasciato dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio.
 
Come comportarsi in caso di ricaduta
Se dopo la ripresa dell’attività lavorativa il lavoratore si sente male per motivi conseguenti all’infortunio e torna al pronto soccorso o dal proprio medico, nel certificato rilasciato deve essere specificato che si tratta di ricaduta dall’infortunio già comunicato (Riammissione in temporanea).
 
Come deve comunicare l’infortunio il lavoratore autonomo
Gli artigiani e i soci titolari, nella loro duplice veste di assicuranti e assicurati, devono denunciare all’Inail l’infortunio da essi stessi subito entro 2 giorni dalla data del certificato medico che prognostica l’infortunio non guaribile entro 3 giorni. In considerazione della particolare difficoltà in cui può venirsi a trovare il titolare di azienda artigiana al momento dell’infortunio lavorativo, si può ritenere assolto l’obbligo di denuncia nei termini di legge con l’invio telematico del certificato da parte del medico o della struttura sanitaria che presta la prima assistenza. L’interessato dovrà tuttavia provvedere, appena possibile, a compilare e a trasmettere il modulo di denuncia. In tali casi, non perderà il diritto all’indennità per inabilità temporanea assoluta per i giorni antecedenti l’inoltro del modulo.
Nell’ipotesi di infortunio occorso a lavoratore agricolo autonomo, l’obbligo di denuncia ricade sul titolare del nucleo di appartenenza dell’infortunato.
 
Lavoratore del settore navigazione
Il lavoratore è obbligato a dare immediata notizia al comandante/datore di lavoro di qualsiasi infortunio gli accada, anche se di lieve entità. Per assolvere a tale obbligo il lavoratore deve fornire al comandante/datore di lavoro il numero identificativo del certificato medico, la data di rilascio e i giorni di prognosi indicati nel certificato stesso.
Nel caso in cui il lavoratore non disponga del numero identificativo del certificato, deve fornire al comandante/datore di lavoro copia cartacea del certificato medico (cfr. circolare Inail 10/2016).
Nel caso di infortunio in navigazione il lavoratore marittimo deve rivolgersi al medico di bordo o, in mancanza di esso, ad un medico del luogo di primo approdo.  In alternativa  può recarsi o farsi accompagnare al pronto soccorso dell’ospedale più vicino al porto di approdo; oppure deve rivolgersi al proprio medico curante (per la prima o seconda categoria della gente di mare al Sasn - Servizio di assistenza sanitaria naviganti). 
Qualunque medico presti la prima assistenza a un lavoratore infortunato sul lavoro è obbligato a rilasciare il certificato medico nel quale sono indicati la diagnosi e il numero dei giorni di inabilità temporanea assoluta al lavoro e a trasmetterlo esclusivamente per via telematica all’Istituto assicuratore.
La trasmissione per via telematica del certificato di infortunio è effettuata utilizzando i servizi telematici messi a disposizione dall’Istituto assicuratore. I dati delle certificazioni sono resi disponibili telematicamente dall’istituto assicuratore ai soggetti obbligati a effettuare la denuncia in modalità telematica.

Malattia professionale

Definizione di malattia professionale. La malattia professionale è una patologia la cui causa agisce lentamente e progressivamente sull’organismo (causa diluita e non causa violenta e concentrata nel tempo). La stessa causa deve essere diretta ed efficiente, cioè in grado di produrre l’infermità in modo esclusivo o prevalente: il Testo Unico, infatti, parla di malattie contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni rischiose. È ammesso, tuttavia, il concorso di cause extraprofessionali, purché queste non interrompano il nesso causale in quanto capaci di produrre da sole l’infermità.
Per le malattie professionali, quindi, non basta l’occasione di lavoro come per gli infortuni, cioè un rapporto anche mediato o indiretto con il rischio lavorativo, ma deve esistere un rapporto causale, o concausale, diretto tra il rischio professionale e la malattia.
Il rischio può essere provocato dalla lavorazione che l’assicurato svolge, oppure dall’ambiente in cui la lavorazione stessa si svolge (cosiddetto “rischio ambientale”).

Malattie professionali tabellate e non tabellate. Le malattie professionali si distinguono in tabellate e non tabellate.
Le malattie professionali sono tabellate se:

  • indicate nelle due tabelle (una per l’industria e una per l’agricoltura)
  • provocate da lavorazioni indicate nelle stesse tabelle
  • denunciate entro un determinato periodo dalla cessazione dell’attività rischiosa, fissato nelle tabelle stesse (“periodo massimo di indennizzabilità”).

Nell'ambito del cosiddetto “sistema tabellare”, il lavoratore è sollevato dall’onere di dimostrare l’origine professionale della malattia. Infatti, una volta che egli abbia provato l’adibizione a lavorazione tabellata (o comunque l’esposizione a un rischio ambientale provocato da quella lavorazione) e l’esistenza della malattia anch’essa tabellata e abbia effettuato la denuncia nel termine massimo di indennizzabilità, si presume per legge che quella malattia sia di origine professionale. È questa la cosiddetta “presunzione legale d’origine”, superabile soltanto con la rigorosissima prova – a carico dell’Inail – che la malattia è stata determinata da cause extraprofessionali e non dal lavoro.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 179/1988, ha introdotto nella legislazione italiana il cosiddetto “sistema misto” in base al quale il sistema tabellare resta in vigore, con il principio della “presunzione legale d’origine”, ma è affiancato dalla possibilità per l’assicurato di dimostrare che la malattia non tabellata di cui è portatore, pur non ricorrendo le tre condizioni previste nelle tabelle, è comunque di origine professionale.

Adeguamento delle tabelle. Sul tema delle malattie professionali è intervenuto l’articolo 10 del decreto legislativo 38/2000 il quale, nell’introdurre un'importante novità, ha consentito non solo di adeguare tempestivamente le tabelle delle malattie professionali allegate al Testo Unico, ma anche di costituire un osservatorio delle patologie di probabile o possibile origine lavorativa, a disposizione di tutto il mondo della sanità, della prevenzione e della ricerca. Con questo articolo, il legislatore:

  • ha confermato l'attuale sistema misto di tutela delle malattie professionali
  • ha reso più semplice e tempestivo il sistema di revisione periodica delle tabelle allegate al Testo Unico, da effettuarsi con decreto ministeriale su proposta della Commissione scientifica appositamente istituita che ne propone, periodicamente, la modifica e/o integrazione
  • ha istituito presso la banca dati dell’Inail un Registro delle malattie causate dal lavoro ovvero a esso correlate al quale potranno accedere, oltre alla Commissione stessa, tutti gli organismi competenti, per lo svolgimento delle funzioni di sicurezza della salute nei luoghi di lavoro nonché per fini di ricerca e approfondimento scientifico ed epidemiologico


Le prestazioni erogate dall'Inail in caso di malattia professionale. L’Inail indennizza i danni provocati dalle malattie professionali prevedendo prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo.

Definizione di silicosi e asbestosi. La silicosi e l’asbestosi, malattie gravi e irreversibili dell’apparato respiratorio, sono disciplinate da una normativa ad hoc.Queste malattie devono essere contratte nell’esercizio delle lavorazioni indicate nell’apposita tabella allegato n. 8 al Testo Unico; a differenza di quanto disposto per le altre malattie professionali, non è richiesto che queste patologie siano contratte a causa delle lavorazioni esercitate in quanto si tratta di malattie tipiche delle lavorazioni stesse.
Nella valutazione del danno si deve tenere conto, oltre che della silicosi o della asbestosi, anche delle altre forme morbose dell’apparato respiratorio e cardiocircolatorio, pur se non provocate dalle stesse silicosi o asbestosi. Nelle altre malattie professionali, invece, la tutela assicurativa non comprende le conseguenze non direttamente connesse alle malattie stesse.
Non è previsto, per la denuncia, un termine massimo di indennizzabilità dalla data di cessazione dell’attività rischiosa.
La rendita per silicosi o asbestosi può essere revisionata per tutta la vita, non essendo prevista una scadenza ultima come per le altre malattie; è, inoltre, prevista una “rendita di passaggio”, come misura prevenzionale contro l’aggravamento della malattia.

Datore di lavoro

Obblighi. La denuncia di Malattia Professionale deve sempre essere presentata, alla Sede Inail competente, dal datore di lavoro (indipendentemente da ogni valutazione personale sul caso), entro cinque giorni dalla data in cui ha ricevuto il certificato medico riferito alla malattia stessa. Per Sede Inail competente si intende quella nel cui ambito territoriale rientra il domicilio dell'assicurato.
"Qualora il datore di lavoro effettui la denuncia di malattia professionale per via telematica, il certificato medico deve essere inviato solo su espressa richiesta dell'Istituto assicuratore nelle ipotesi in cui non sia stato direttamente inviato dal lavoratore o dal medico certificatore" (Decreto Ministeriale del 30 luglio 2010).
Il datore di lavoro, al quale l'Inail faccia pervenire la richiesta specifica del certificato medico, è tenuto a trasmettere tale certificazione ai sensi dell'articolo 53, comma 5, del Testo Unico 1124/1965, così come modificato dal Decreto Ministeriale del 30 luglio 2010. Si ricorda che il lavoratore deve informare il datore di lavoro (o il preposto all'azienda) della malattia professionale contratta, entro 15 giorni dal manifestarsi dei primi sintomi per evitare la perdita del diritto all'indennità relativa ai giorni precedenti la segnalazione (articolo 52 del Testo Unico 1124/1965).
Il datore di lavoro deve indicare il codice fiscale del lavoratore. In caso di indicazione mancata oppure inesatta, è prevista l'applicazione di una sanzione amministrativa di € 25,82 (Legge 251/1982, articolo 16).
In caso di denuncia mancata, tardiva, inesatta oppure incompleta è prevista l'applicazione di una sanzione amministrativa da € 258 a € 1549 (Testo Unico 1124/1965, articolo 53 e 561/1993, articolo 2, comma 1, lettera B).

Sanzioni. Per le violazioni contestate a partire dal 1° gennaio 2007 è prevista la quintuplicazione delle sanzioni amministrative (Legge 296/06, articolo 1, comma 1177).
Per tali ipotesi i nuovi importi sono i seguenti:

  • denuncia mancante, tardiva, inesatta o incompleta da euro 1.290 a euro 7.745
  • codice fiscale mancante o inesatto euro 129

Denuncia di malattia professionale telematica

La denuncia di malattia professionale telematica è disponibile per le malattie professionali occorse a:

  • lavoratori dell'industria, dell'artigianato, dei servizi e delle Pubbliche Amministrazioni titolari di rapporto assicurativo con l'Istituto.
  • lavoratori dipendenti delle Amministrazioni statali e studenti delle scuole pubbliche, destinatari della speciale forma di tutela contro gli infortuni e le malattie professionali in Gestione per Conto dello Stato.

Il servizio non è ancora attivo per le malattie professionali occorse a:

  • lavoratori subordinati a tempo indeterminato del settore agricoltura;
  • lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari e di riassetto e pulizia locali;
  • lavoratori occasionali di tipo accessorio del settore agricoltura e di datori di lavoro privati cittadini;

Il datore di lavoro che provveda alla trasmissione della denuncia di malattia professionale per via telematica è sollevato dall'onere di invio contestuale del certificato medico; l’Inail deve richiederne l’invio al datore di lavoro nella sola ipotesi in cui non lo abbia già ricevuto dal lavoratore o dal medico certificatore (circolare Inail 36/2010).

Denuncia di Silicosi/asbestosi telematica

La denuncia di silicosi/asbestosi telematica è disponibile per le malattie professionali occorse a:

  • lavoratori dell'industria, dell'artigianato, dei servizi e delle Pubbliche Amministrazioni titolari di rapporto assicurativo con l'Istituto.
  • lavoratori dipendenti delle Amministrazioni statali e studenti delle scuole pubbliche, destinatari della speciale forma di tutela contro gli infortuni e le malattie professionali in Gestione per Conto dello Stato

Il servizio non è ancora attivo per le malattie professionali occorse a:

  • lavoratori subordinati a tempo indeterminato del settore agricoltura
  • lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari e di riassetto e pulizia locali
  • lavoratori occasionali di tipo accessorio del settore agricoltura e di datori di lavoro privati cittadini

Il datore di lavoro che provveda alla trasmissione della denuncia di silicosi/asbestosi per via telematica è sollevato dall'onere di invio contestuale del certificato medico analogamente a quanto previsto per la denuncia di malattia professionale telematica; l’Inail deve richiederne l’invio al datore di lavoro nella sola ipotesi in cui non lo abbia già ricevuto dal lavoratore o dal medico certificatore (circolare Inail 36/2010).

Lavoratore

Una guida tra obblighi e procedure: le possibilità dell’autocertificazione. In questa sezione si possono trovare tutte le informazioni utili per chi ritiene di essere affetto da una malattia professionale: da come denunciare la tecnopatia a quali sono le prestazioni che l’Inail mette sua disposizione, fino alla possibilità di presentare opposizione amministrativa o ricorso giudiziario se non si è d’accordo con le decisioni dell’Istituto. In base alla legge l’Inail è tenuto ad accettare, a supporto delle domande di prestazioni, le dichiarazioni sostitutive di tutte le situazioni personali che possono essere autocertificate dai cittadini.

L'assistenza dei Patronati e dei Caf. Per ottenere le prestazioni il lavoratore può rivolgersi alla sede del Patronato più vicina, che mette a disposizione dei lavoratori consulenza e assistenza gratuita. Inoltre, grazie a una convenzione stipulata con i Centri di assistenza fiscale (Caf) aderenti alla consulta nazionale, gli assistiti Inail potranno rivolgersi ai Caf per la consultazione e la stampa della Certificazione Unica in via telematica.

Gli articoli 1 e 4 del Testo Unico del 1965 definiscono i criteri oggettivi e soggettivi per stabilire quali sono i lavoratori tutelati contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. 

Le attività rischiose. Il lavoratore viene assicurato per una o più attività considerate pericolose dall’articolo 1 del Testo Unico, ma in pratica si può trovare in situazioni di pericolo che non sempre sono provocate dalle attività per le quali è stato assicurato.
Infatti, egli è esposto, oltre che al rischio tipico delle sue mansioni, anche a quello delle prestazioni connesse o strumentali alla sua attività, che possono essere varie e non sempre prevedibili. Egli, inoltre, opera in un determinato ambiente che, di per sé solo, può presentare pericoli; svolge la prestazione a fianco di colleghi che svolgono anch’essi attività rischiose; entra in contatto con apparecchiature e macchine varie anche se non le utilizza direttamente.

I lavoratori tutelati. Nella tutela Inail rientrano, a titolo esemplificativo, i lavoratori dipendenti, i parasubordinati, ed alcune tipologie di lavoratori autonomi, quali ad esempio gli artigiani e coltivatori diretti.

Il diritto alle prestazioni e i tempi di prescrizione. In virtù del principio di automaticità delle prestazioni, il lavoratore ha diritto alle prestazioni anche se il suo datore di lavoro non lo ha assicurato o se non è in regola con il pagamento dei contributi Inail. Il principio di automaticità delle prestazioni non si applica, tuttavia, per i lavoratori autonomi, per i quali il diritto e, quindi, il pagamento delle prestazioni scatta nel momento in cui viene regolarizzata la situazione contributiva. Il lavoratore autonomo può, invece, accedere alle prestazioni sanitarie e riabilitative anche se non ha provveduto al versamento del premio.
Si perde il diritto alle prestazioni Inail dopo tre anni e 150 giorni (210 per le revisioni):

  • dal giorno in cui si è manifestata la malattia professionale (ossia dal primo giorno di completa astensione dal lavoro o per le malattie che non determinano astensione dal momento in cui, secondo criteri di normale conoscibilità, il lavoratore abbia avuto cognizione di essere affetto da malattia di probabile origine professionale (ad esempio, dalla certificazione sanitaria che attesta che la malattia è di origine professionale)
  • dalla data in cui i postumi permanenti hanno raggiunto la misura minima indennizzabile, ai fini del conseguimento dell’indennizzo in capitale del danno biologico o della rendita diretta

L’indennità di malattia è riconosciuta ai lavoratori quando si verifica un evento morboso che ne determina l’incapacità temporanea al lavoro, inteso come mansione specifica.

A chi è rivolto

L’indennità spetta a:

  • operai del settore industria;
  • operai e impiegati del settore terziario e servizi;
  • lavoratori dell’agricoltura;
  • apprendisti;
  • disoccupati;
  • lavoratori sospesi dal lavoro;
  • lavoratori dello spettacolo;
  • lavoratori marittimi.

Non spetta (a titolo esemplificativo, ma non esaustivo) a:

  • collaboratori familiari (colf e badanti);
  • impiegati dell'industria;
  • quadri (industria e artigianato);
  • dirigenti;
  • portieri;
  • lavoratori autonomi.

Come funziona

DECORRENZA E DURATA

Il diritto all’indennità di malattia decorre, per la generalità dei lavoratori, dal quarto giorno (i primi tre giorni sono di “carenza” e se previsto dal contratto di lavoro verranno indennizzati a totale carico dell’azienda) e cessa con la scadenza della prognosi (fine malattia). La malattia può essere attestata con uno o più certificati.

Risulta indennizzabile, purché debitamente certificato, anche l’eventuale periodo di malattia che comporta ricovero in regime ordinario o in regime di day hospital.

Agli operai del settore industria e agli operai e impiegati del settore terziario e servizi con contratto a tempo indeterminato l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione e per un massimo di 180 giorni nell’anno solare. Per quelli a tempo determinato, l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione, per un numero massimo di giorni pari a quelli lavorati nei 12 mesi immediatamente precedenti l'inizio della malattia, da un minimo di 30 giorni a un massimo di 180 giorni nell’anno solare. Il diritto cessa con la cessazione del rapporto di lavoro, anche se avvenuta prima dello scadere del contratto. Il datore di lavoro non può corrispondere l’indennità per un numero di giornate superiore a quelle effettuate dal lavoratore alle proprie dipendenze. Le restanti giornate sono indennizzate direttamente dall’INPS.

Ai lavoratori dell’agricoltura a tempo indeterminato l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione e per massimo 180 giorni nell’anno solare, purché abbiano effettivamente iniziato l’attività lavorativa. A quelli a tempo determinato l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione, solo se hanno svolto almeno 51 giornate di lavoro in agricoltura nell'anno precedente (sono valide anche le giornate lavorate a tempo indeterminato nello stesso settore agricolo) o 51 giornate nell'anno in corso e prima dell'inizio della malattia. Il periodo indennizzabile è pari al numero di giorni di iscrizione negli elenchi e fino a un massimo di 180 giorni nell’anno solare.

Agli apprendisti si applica la medesima disciplina dei lavoratori del settore di appartenenza. Quindi, se prevista, l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione e per massimo 180 giorni nell’anno solare.

Ai disoccupati e ai sospesi, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’indennità spetta per tutti i giorni coperti da idonea certificazione e per massimo 180 giorni nell’anno solare, solo se la malattia inizia entro 60 giorni o due mesi dalla cessazione o dalla sospensione del rapporto di lavoro.

Ai lavoratori marittimi e della pesca assicurati ex IPSEMA (circolare INPS 23 dicembre 2013 n. 179), l’indennità per inabilità temporanea assoluta per malattia fondamentale spetta dal giorno successivo allo sbarco, per tutti i giorni di prognosi (compresa la domenica) e fino a massimo un anno. Se la malattia si manifesta entro 28 giorni dallo sbarco, ai marittimi sbarcati da natanti appartenenti a specifiche categorie previste per legge, viene riconosciuta l’indennità per inabilità temporanea assoluta per malattia complementare, che spetta dal quarto giorno successivo alla data della denuncia dell’evento e fino a massimo un anno. Se la malattia si manifesta dopo 28 giorni ed entro 180 giorni dallo sbarco, ai lavoratori marittimi in continuità di rapporto di lavoro viene riconosciuta l’indennità per inabilità temporanea da malattia, che spetta dal quarto giorno successivo a quello della denuncia della malattia fino a massimo 180 giorni.

Per i lavoratori dello spettacolo, ai fini del diritto all’indennità economica di malattia (circolare congiunta INPS/ENPALS n. 134363 A.G.O./119 - n. 1065 R.C.V. del 21 maggio 1980, circolare INPS n. 134403 A.G.O./111/1983 e circolare INPS 10 settembre 2021, n. 132), devono risultare dovuti o versati, per gli eventi verificatisi a decorrere dal 26 maggio 2021 (decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73, convertito con modificazioni dalla legge 23 luglio 2021, n. 106), almeno 40 contributi giornalieri presso il Fondo Pensione Lavoratori dello Spettacolo (FPLS), dal 1° gennaio dell’anno precedente l’insorgenza dell’evento morboso. Per gli eventi antecedenti alla suddetta data, il requisito minimo richiesto è pari a 100 contributi giornalieri. L’indennità di malattia spetta dal quarto giorno successivo a quello di inizio dell’evento ed è dovuta per un massimo di 180 giorni nell’anno.

Ai lavoratori a tempo determinato del settore spettacolo è riconosciuta, ai sensi della normativa vigente, la conservazione della tutela della malattia, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, e il limite di giornate indennizzabili previsto è pari al numero di giorni di attività lavorativa svolta negli ultimi 12 mesi. Qualora sia reperibile almeno una giornata di prestazione lavorativa, l’indennità economica è concessa per un periodo massimo di 30 giorni.

Ai lavoratori dello spettacolo con contratto a tempo indeterminato l'indennità di malattia viene anticipata dal datore di lavoro. Viene, invece, corrisposta direttamente dall'Istituto nei confronti di disoccupati, saltuari con contratto a termine o prestazione o occupati presso imprese dello spettacolo che esercitano attività saltuaria o stagionale.

QUANTO SPETTA

In linea generale, l’indennità è corrisposta ai lavoratori dipendenti nella misura del 50% della retribuzione media giornaliera dal 4° al 20° giorno e del 66,66% dal 21° al 180° giorno.

Ai dipendenti di pubblici esercizi e laboratori di pasticceria l’indennità spetta all’80% per tutto il periodo di malattia.

Ai disoccupati e sospesi dal lavoro l'indennità è ridotta di due terzi rispetto alla percentuale prevista.

Ai ricoverati senza familiari a carico l’indennità è ridotta ai 2/5 per tutto il periodo di degenza ospedaliera, escluso il giorno delle dimissioni per il quale viene applicata la misura intera secondo le percentuali sopra indicate.

Ai lavoratori marittimi:

  • in caso di malattia fondamentale, l’indennità spetta al 75% della retribuzione percepita al momento dello sbarco;
  • in caso di malattia complementare, l’indennità spetta al 75% della retribuzione percepita al momento dell’ultimo sbarco;
  • in caso di malattia di lavoratori in continuità di rapporto di lavoro, l’indennità spetta nella misura del 50% per i primi 20 giorni e del 66,66% dal 21° al 180° giorno della retribuzione effettivamente goduta alla data di manifestazione della malattia.

Per i lavoratori dello spettacolo l’indennità di malattia è pari:

  • al 60% della retribuzione media globale giornaliera fino al 20° giorno di durata della malattia (comprese le domeniche e le festività nazionali e religiose infrasettimanali);
  • all’80% della retribuzione media globale giornaliera dal 21° al 180°;
  • al 40% per il lavoratore disoccupato e per i giorni non lavorativi della settimana nei casi di lavoratori che per contratto prestino la loro attività solo in alcuni giorni predeterminati nella settimana.

Per avere diritto all’indennità di malattia, il lavoratore deve farsi rilasciare il certificato di malattia dal medico curante che provvede a trasmetterlo telematicamente all’INPS. Egli deve, inoltre, controllare attentamente la correttezza dei dati anagrafici e di domicilio per la reperibilità inseriti dal medico, per non incorrere nelle eventuali sanzioni previste dalla legge.

Con il certificato telematico, il lavoratore è esonerato dall’obbligo di invio dell’attestato al proprio datore di lavoro, che potrà riceverlo e visualizzarlo tramite i servizi messi a disposizione dall’INPS.

Qualora la trasmissione telematica non sia possibile, il lavoratore deve farsi rilasciare dal medico curante il certificato di malattia redatto in modalità cartacea. In tal caso egli deve, entro due giorni dalla data del rilascio, presentare o inviare il certificato alla struttura territoriale INPS di competenza e l’attestato al proprio datore di lavoro, per non incorrere nelle sanzioni di legge consistenti nella perdita del diritto all’indennità di malattia per ogni giorno di ingiustificato ritardo nell’invio oltre il menzionato termine dei due giorni.

Analogamente, il lavoratore marittimo e della pesca assicurato ex IPSEMA deve presentare o inviare all’Istituto il certificato di malattia, entro il medesimo termine di due giorni dalla data del rilascio.

Anche per i certificati di ricovero e di malattia rilasciati da parte delle strutture ospedaliere è previsto l’invio telematico. Qualora, invece, i certificati vengano redatti in modalità cartacea, debbono essere presentati o inviati, a cura del lavoratore, alla struttura territoriale INPS di competenza e al proprio datore di lavoro (privi dei dati di diagnosi). Nel caso dei certificati di ricovero (ma non di quelli eventuali di malattia post ricovero), la consegna può avvenire anche oltre i due giorni dalla data del rilascio, ma comunque entro il termine di un anno di prescrizione della prestazione. Le attestazioni di ricovero e della giornata di pronto soccorso prive di diagnosi non sono ritenute certificative, ai fini del riconoscimento della prestazione previdenziale.

Per la categoria dei lavoratori marittimi e della pesca aventi diritto alla tutela per malattia ex IPSEMA il certificato di malattia viene trasmesso dal lavoratore. Ai fini del calcolo dell’indennità inoltre, il datore di lavoro trasmette la denuncia delle retribuzioni corrisposte al lavoratore nel periodo di riferimento sulla base della specifica prestazione richiesta.

Per l’erogazione dell’indennità il lavoratore deve rendersi reperibile al proprio domicilio durante le fasce di reperibilità previste dalla legge, per essere sottoposto ai controlli di verifica dell’effettiva temporanea incapacità lavorativa. Le fasce di reperibilità sono, per tutti i giorni riportati nella certificazione di malattia (compresi i sabati, domenica e festivi), dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.

L’assenza alla visita medica di controllo, se non giustificata, comporta l’applicazione di sanzioni con il conseguente mancato indennizzo delle giornate di malattia per:

  • un massimo di 10 giorni di calendario, dall'inizio dell'evento, in caso di prima assenza alla visita di controllo non giustificata;
  • il 50% dell'indennità nel restante periodo di malattia, in caso di seconda assenza alla visita di controllo non giustificata;
  • il totale dell'indennità, dalla data della terza assenza alla visita di controllo non giustificata.

Il medico di controllo domiciliare che riscontra l'assenza rilascia un invito in busta chiusa per la successiva visita medica di controllo ambulatoriale. L'eventuale assenza alla visita ambulatoriale può dar luogo all'applicazione delle sanzioni per seconda visita.

Durante il periodo di prognosi del certificato, se effettivamente necessario, il lavoratore può cambiare l’indirizzo di reperibilità comunicandolo tempestivamente e con congruo anticipo al datore di lavoro, con le modalità contrattualmente previste, e all’INPS utilizzando il servizio "Sportello al cittadino per le visite mediche di controllo".

Il servizio consente la comunicazione e la gestione, nell’ambito di un evento di malattia, di una diversa reperibilità, rispetto a quella comunicata precedentemente con il certificato di malattia in corso di prognosi. Il nuovo servizio è disponibile per tutti i lavoratori dei settori privato e pubblico e non sostituisce, in alcun modo, gli obblighi contrattuali di comunicazione da parte dei medesimi lavoratori nei confronti dei propri datori di lavoro (circolare INPS 23 settembre 2020, n. 106).

Solo in casi particolari, qualora non fosse possibile accedere al suddetto servizio, si potranno seguire le seguenti modalità:

  • inviare un'email alla casella medicolegale.nomesede@inps.it;
  • inviare specifica comunicazione al numero di fax indicato dalla struttura territoriale;
  • contattare il Contact center al numero verde 803 164.

Nel caso di malattia insorta in un paese della Comunità europea, i regolamenti vigenti prevedono l’applicazione della legislazione del paese dove risiede l’assicurato. Il lavoratore deve, quindi, presentare il certificato di malattia all’INPS e al datore di lavoro entro due giorni dal rilascio. Diversamente, può rivolgersi all’autorità locale competente che procede all’accertamento medico dell’incapacità al lavoro e alla compilazione del certificato da trasmettere immediatamente all’istituzione competente.

Nel caso di malattia insorta in paesi che non hanno stipulato con l’Italia convenzioni o accordi che regolano la materia o in paesi extracomunitari, la certificazione deve essere legalizzata dalla rappresentanza diplomatica o consolare italiana all’estero. Per "legalizzazione" si intende l’attestazione, anche a mezzo timbro, che il documento è valido come certificato secondo le disposizioni locali. La sola attestazione dell’autenticità della firma del traduttore abilitato non equivale alla "legalizzazione".

TUTELE PER COVID-19

Nell’ambito dell’emergenza sanitaria da Covid-19, sono state riconosciute, nei limiti delle risorse stanziate, specifiche tutele ai commi 1, 2 e 6 dell’articolo 26, decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, per i lavoratori in quarantena e per i soggetti fragili.

Equiparazione della quarantena a malattia

Per i lavoratori dipendenti del settore privato il comma 1 dispone l’equiparazione della quarantena alla malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento. La tutela non è riconosciuta quindi ai lavoratori iscritti alla Gestione separata istituita presso l’INPS, ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335.

Tali periodi non sono da computare per il raggiungimento del limite massimo previsto per il comporto nell’ambito del rapporto di lavoro. Non è prevista, invece, alcuna neutralizzazione in merito al periodo massimo di tutela previdenziale previsto sulla base della normativa di riferimento per lo specifico settore lavorativo di appartenenza.

Per accedere alla tutela di cui al comma 1, riconosciuta in presenza di provvedimento emesso dall’operatore di sanità pubblica (ASL-SISP), il lavoratore deve produrre il certificato di malattia attestante il periodo di quarantena nel quale il medico curante dovrà indicare gli estremi del provvedimento suddetto (articolo 26, comma 3).
Se al momento del rilascio del certificato, il medico non dispone delle informazioni relative al provvedimento, il lavoratore medesimo richiedente la tutela previdenziale potrà recuperare l’informazione presso l’operatore di sanità pubblica e comunicarla successivamente all’INPS, mediante i consueti canali di comunicazione (posta ordinaria o PEC).

Con la legge 178/2020 (legge di bilancio 2021), è stato eliminato, a decorrere dal 1° gennaio 2021, l’obbligo per il medico di indicare, come precedentemente previsto, gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva.

Con il messaggio 9 ottobre 2020, n. 3653  è stato precisato che non può essere applicata la tutela prevista al comma 1 ai casi di ordinanza dell’autorità amministrativa locale che disponga il divieto di allontanamento dal territorio dei cittadini. Inoltre, la tutela di cui al comma 1 è riconosciuta solo se disposta da autorità sanitaria italiana a e non dal Paese estero.

Tutela per i lavoratori con patologie di particolare gravità

L' articolo 26, comma 2 ha disposto che per i lavoratori dei settori privato e pubblico in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità (articolo 3, comma 3, legge 104/1992) o in possesso della certificazione degli organi medico legali delle Asl attestante la condizione di rischio per immunodepressione, esiti da patologie oncologiche o da svolgimento di terapie salvavita, l’intero periodo di assenza dal servizio debitamente certificato, fino al termine del 31 luglio 2020, è equiparato a degenza ospedalieraTale termine è stato prorogato al 15 ottobre 2020 dalla legge di conversione 126/2020 del decreto legge 104/2020.

Il successivo decreto-legge 41/2021 (decreto Sostegni), convertito in legge 69/2021, ha poi esteso la tutela fino al 30 giugno 2021, laddove la prestazione lavorativa non possa essere resa in modalità di lavoro agile ai sensi del comma 2-bis dell’articolo 26.

Tale norma, inoltre, ha stabilito che i periodi in argomento non producono effetti ai fini del conteggio del periodo di comporto disciplinato dagli specifici contratti di riferimento. Nulla è variato con riguardo al limite massimo indennizzabile per la tutela previdenziale secondo la specifica disciplina.

Il lavoratore deve farsi rilasciare la certificazione di malattia nelle consuete modalità e il medico curante provvede a riportare nelle note di diagnosi l’indicazione dettagliata della situazione clinica del suo paziente, evidenziando la situazione di rischio in soggetto con anamnesi personale critica, e riportando i riferimenti del verbale di riconoscimento dello stato di handicap, ovvero della certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali delle ASL.

Per la tutela, stante l’equiparazione del periodo a degenza ospedaliera, è considerato valido, come sopra già specificato, il certificato pervenuto entro l’anno di prescrizione e l’indennità previdenziale viene decurtata ai 2/5 in caso di assenza di familiari a carico.

Malattia da Covid-19

L’articolo 26, comma 6 stabilisce che in caso di malattia conclamata da Covid-19 il lavoratore deve farsi rilasciare il certificato di malattia dal proprio medico curante senza necessità di alcun provvedimento da parte dell’operatore di sanità pubblica.

Si tratta, in sostanza, di una fattispecie assimilabile a una qualsiasi diagnosi di malattia comune.

L’indennità viene quindi riconosciuta, anche ai lavoratori iscritti alla Gestione Separata, sulla base della specifica normativa di riferimento.

Cos'è

Si tratta di un servizio che mette a disposizione degli aventi titolo, secondo specifiche modalità e secondo le rispettive competenze, i certificati telematici ricevuti e i rispettivi attestati.

A chi è rivolto

Nel rispetto della normativa ex decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, la messa a disposizione di:

  • certificati di malattia telematici è rivolta ai lavoratori interessati;
  • attestati telematici di malattia è rivolta ai datori di lavoro e ai consulenti del lavoro delegati, ma anche ai lavoratori stessi interessati.

Come funziona

Con il servizio online di consultazione certificati di malattia, i lavoratori possono visualizzare e stampare i propri certificati di malattia inserendo il numero di protocollo univoco del certificato e le proprie credenziali di accesso.

Con il servizio online di consultazione attestati di malattia, i lavoratori possono visualizzare e stampare i propri attestati di malattia inserendo il numero di protocollo univoco del certificato e il codice fiscale associato. La consultazione non richiede una specifica autenticazione.

I datori di lavoro o i consulenti del lavoro delegati possono visualizzare e stampare gli attestati di malattia dei propri dipendenti o dei dipendenti delle aziende che gestiscono in qualità di consulenti, tramite il servizio online di consultazione attestati di malattia per i datori di lavoro, che richiede l’accesso con le credenziali aziendali. Sono consentiti diversi tipi di ricerche ed è anche possibile scaricare la lista degli attestati.

Per la verifica di un singolo attestato di malattia, i datori di lavoro o i consulenti del lavoro delegati possono anche accedere al servizio di consultazione attestati di malattia inserendo il numero di protocollo del certificato e il codice fiscale associato del dipendente.

Il servizio è disponibile anche telefonicamente chiamando il Contact center al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) oppure 06 164164 da rete mobile.

Le norme che disciplinano permessi e congedi a tutela della maternità e della paternità sono contenute nel decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001, cosiddetto Testo Unico maternità/paternità (di seguito denominato semplicemente T.U.)

 

LAVORATRICI E LAVORATORI DIPENDENTI

 

Il congedo di maternità è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio. Durante il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro la lavoratrice percepisce un’indennità economica in sostituzione della retribuzione. Il diritto al congedo ed alla relativa indennità spetta anche in caso di adozione o affidamento di minori.
In presenza di determinate condizioni che impediscono alla madre di beneficiare del congedo di maternità, il diritto all’astensione dal lavoro ed alla relativa indennità spettano al padre (congedo di paternità).

 

A CHI SPETTA
• alle lavoratrici dipendenti assicurate all'Inps anche per la maternità, comprese le lavoratrici assicurate ex IPSEMA
• (apprendiste, operaie, impiegate, dirigenti) aventi un rapporto di lavoro in corso alla data di inizio del congedo
• alle disoccupate o sospese se ricorre una delle seguenti condizioni (art. 24 T.U.):
o il congedo di maternità sia iniziato entro 60 giorni dall’ultimo giorno di lavoro
o il congedo di maternità sia iniziato oltre i predetti 60 giorni, ma sussiste il diritto all'indennità di disoccupazione, alla mobilità oppure alla cassa integrazione. Per le disoccupate che negli ultimi due anni hanno svolto lavori esclusi dal contributo per la disoccupazione, il diritto all’indennità di maternità sussiste a condizione che il congedo di maternità sia iniziato entro 180 giorni dall’ultimo giorno di lavoro e che siano stati versati all'Inps 26 contributi settimanali negli ultimi due anni precedenti l'inizio del congedo stesso
• alle lavoratrici agricole a tempo indeterminato ed alle lavoratrici agricole tempo determinato che nell’anno di inizio del congedo siano in possesso della qualità di bracciante comprovata dall’iscrizione negli elenchi nominativi annuali per almeno 51 giornate di lavoro agricolo (art. 63 T.U.)
• alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari (colf e badanti) che hanno
26 contributi settimanali nell'anno precedente l'inizio del congedo di maternità oppure 52 contributi settimanali nei due anni precedenti l'inizio del congedo stesso (art. 62 del T.U.)
• alle lavoratrici a domicilio (art. 61 T.U.)
• alle lavoratrici LSU o APU (attività socialmente utili o di pubblica utilità di cui all’art. 65 del T.U.)

 

Non spetta alle lavoratrici dipendenti da Amministrazioni Pubbliche (incluse le lavoratrici dipendenti dai soppressi enti Inpdap ed Enpals) le quali sono tenute agli adempimenti previsti dalla legge in caso di maternità verso l’amministrazione pubblica dalla quale dipendono (artt. 2 e 57 del T.U.)

 

COSA SPETTA
Un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro che comprende (artt. 16 e seguenti del T.U.):

 

prima del parto
• i 2 mesi precedenti la data presunta del parto (salvo flessibilità) e il giorno del parto
• i periodi di interdizione anticipata disposti dall’azienda sanitaria locale (per gravidanza a rischio) oppure dalla direzione territoriale del lavoro (per mansioni incompatibili)
dopo il parto
• i 3 mesi successivi al parto (salvo flessibilità) e, in caso di parto avvenuto dopo la data presunta, i giorni compresi tra la data presunta e la data effettiva.
• In caso di parto anticipato rispetto alla data presunta (parto prematuro o precoce), ai tre mesi dopo il parto si aggiungono i giorni non goduti prima del parto, anche qualora la somma dei 3 mesi di post partum e dei giorni compresi tra la data effettiva del parto ed la data presunta del parto, superi il limite complessivo di cinque mesi;
• i periodi di interdizione prorogata disposti dalla direzione territoriale del lavoro (per mansioni incompatibili con il puerperio)

 

In caso di parto gemellare la durata del congedo di maternità non varia.

 

In caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre può sospendere, in tutto o in parte, il congedo post partum (art. 16 bis comma 1 T.U.), riprendendo nel frattempo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del periodo di congedo residuo a partire dalla data di dimissioni del bambino. Tale diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio subordinatamente alla sussistenza della compatibilità della ripresa dell’attività lavorativa con il proprio stato di salute (comma 2 dell’art. 16 bis T.U.). Tale compatibilità, per espressa disposizione normativa, è comprovata da “attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa”.

 

In caso di interruzione di gravidanza che si verifica dopo i 180 giorni dall'inizio della gestazione (180simo giorno incluso), nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, la lavoratrice ha diritto ad astenersi dal lavoro per l'intero periodo di congedo di maternità salvo che la stessa non si avvalga della facoltà di riprendere l’attività lavorativa (art. 16, comma 1 bis, del T.U. modificato dal D.lgs. 119/2011).

 

In caso di adozione o affidamento nazionale di minore di cui alla legge 184/1983 il congedo di maternità spetta per i 5 mesi successivi all’effettivo ingresso in famiglia del minore adottato o affidato preadottivamente nonché per il giorno dell’ingresso stesso.

 

Per le adozioni o gli affidamenti preadottivi internazionali di cui alla legge 184/1983 il congedo spetta per i 5 mesi successivi all’ingresso in Italia del minore adottato o affidato nonché per il giorno dell’ingresso in Italia. Fermo restando il periodo complessivo di 5 mesi, il periodo di congedo può essere fruito, anche parzialmente, prima dell'ingresso in Italia del minore. Il periodo di congedo non fruito antecedentemente all'ingresso in Italia del minore, è fruito, anche frazionatamente, entro i 5 mesi dal giorno successivo all'ingresso medesimo. I periodi di permanenza all'estero, seguiti da un provvedimento di adozione o affidamento validi in Italia, possono essere indennizzati a titolo di congedo di maternità. Per i periodi di permanenza all'estero è previsto anche un congedo non retribuito, né indennizzato (art. 26, comma 4, T.U. maternità/paternità).

 

In caso di affidamento non preadottivo di cui alla legge 184/1983 il congedo spetta per un periodo di 3 mesi da fruire, anche in modo frazionato, entro l’arco temporale di 5 mesi dalla data di affidamento del minore.

 

Anche in caso di adozione o affidamento è possibile sospendere il periodo di congedo di maternità in caso di ricovero del minore adottato o affidato (art. 26 comma 6 bis), subordinatamente alla ripresa dell’attività lavorativa.

 

Per ulteriori approfondimenti può essere consultata la circolare Inps 16/2008 di attuazione dell’art. 26 del T.U.

 

Il congedo di paternità (artt. 28 e seguenti del T.U.) è riconosciuto dal momento in cui si verificano determinati eventi riguardanti la madre del bambino, a prescindere dal fatto che la stessa sia lavoratrice o non lavoratrice. Il congedo di paternità spetta in caso di:
• morte o grave infermità della madre. La morte della madre dev’essere attestata mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica; la certificazione sanitaria comprovante la grave infermità va presentata in busta chiusa al centro medico legale dell’Inps, allo sportello oppure a mezzo raccomandata postale;
• abbandono del figlio da parte della madre. L’abbandono (o mancato riconoscimento del neonato) da parte della madre dev’essere attestato mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica;
• affidamento esclusivo del figlio al padre (art. 155 bis cod. civ.). L’affidamento esclusivo può essere comprovato allegando alla domanda telematica copia del provvedimento giudiziario con il quale l’affidamento esclusivo è stato disposto oppure comunicando gli estremi del provvedimento giudiziario ed il tribunale che lo ha emesso;
• rinuncia totale o parziale della madre lavoratrice al congedo di maternità alla stessa spettante in caso di adozione o affidamento di minori. La rinuncia è attestata dal richiedente mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica.

 

Il congedo di paternità, che decorre dalla data in cui si verifica uno degli eventi suindicati (morte, grave infermità e così via), coincide temporalmente con il periodo di congedo di maternità non fruito dalla lavoratrice madre, anche nel caso di madre lavoratrice autonoma avente diritto all’indennità prevista dall’art.66 T.U. In caso di madre non lavoratrice, il congedo di paternità termina al terzo mese dopo il parto.

In caso di ricovero del bambino in una struttura ospedaliera, il congedo di paternità può essere sospeso, in tutto o in parte, fino alla data di dimissioni del bambino.

 

ASTENSIONE DEL PADRE LAVORATORE

 

La legge 28 giugno 2012, n.92 ha introdotto in via sperimentale, per il triennio 2013-2015, le misure a sostegno della genitorialità, prorogate anche per l’anno 2016 dalla legge 208/2015 (legge di stabilità per il 2016) e di seguito riportate:
1. Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l'obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di due giorni, fruibili anche disgiuntamente. Tale diritto spetta solo per le nascite, le adozioni e gli affidamenti avvenuti nell’anno 2016. Per gli eventi avvenuti prima di tale data, sussiste l’obbligo di astensione soltanto per un giorno. Il diritto del padre lavoratore si configura come un diritto autonomo rispetto a quello della madre e può essere fruito dallo stesso anche durante il periodo di astensione obbligatoria post partum della madre. Per la fruizione dello stesso, al padre è riconosciuta un'indennità pari al 100 per cento della retribuzione.
2. Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. Al padre è riconosciuta un'indennità pari al 100 per cento della retribuzione in relazione al periodo di astensione.

 

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare l’apposita pagina “Congedi papà” dedicata a quanto disposto dal Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22 dicembre 2012 e dalla successiva Circolare INPS n.40 del 14 marzo 2013.

 

QUANTO SPETTA
Durante i periodi di congedo di maternità (o paternità) la lavoratrice (o il lavoratore) ha diritto a percepire un'indennità economica pari all'80% della retribuzione giornaliera calcolata sulla base dell'ultimo periodo di paga scaduto immediatamente precedente l’inizio del congedo di maternità quindi, di regola, sulla base dell’ultimo mese di lavoro precedente il mese di inizio del congedo (art. 22 e seguenti del T.U.).

 

CHI PAGA
Di regola, l'indennità è anticipata in busta paga dal datore di lavoro.

 

L’anticipazione da parte del datore di lavoro è effettuata anche alle lavoratrici assicurate ex IPSEMA dipendenti da datori di lavoro optanti per il pagamento delle indennità con il metodo del conguaglio (codice conguaglio “CA2G”) (Circolare INPS n. 173 del 23.10.2015)

 

L'indennità è pagata direttamente dall'Inps alle:
• lavoratrici stagionali
• operaie agricole (salva la facoltà di anticipazione dell’indennità, da parte del datore di lavoro, in favore delle operaie agricole a tempo indeterminato)
• lavoratrici dello spettacolo saltuarie o a termine
• lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari (colf e badanti)
• lavoratrici disoccupate o sospese
• lavoratrici assicurate exIPSEMA dipendenti da datori di lavoro non optanti per il pagamento delle indennità con il metodo del conguaglio (codice conguaglio “CA2G”) - (Circolare INPS n. 173 del 23.10.2015)

 

Il pagamento diretto viene effettuato dall'Inps secondo la modalità scelta nella domanda:
• bonifico presso l'ufficio postale;
• accredito su conto corrente bancario o postale.

 

LAVORATRICI E LAVORATORI ISCRITTI ALLA GESTIONE SEPARATA INPS
Il congedo di maternità (art. 64 T.U. e relativi decreti ministeriali) è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio. Durante il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro la lavoratrice ha diritto all’indennità economica in sostituzione del compenso.

Le libere professioniste iscritte alla gestione separata Inps non hanno tale obbligo di astensione; tuttavia la permanenza al lavoro comporta la perdita del diritto all’indennità di maternità.

Il diritto al congedo ed alla relativa indennità spetta anche in caso di adozione o affidamento di minori.

In presenza di determinate condizioni che impediscono alla madre di beneficiare del congedo di maternità, il diritto all’astensione dal lavoro ed alla relativa indennità spettano al padre (congedo di paternità).

 

A CHI SPETTA

 

Alle lavoratrici ed ai lavoratori iscritti esclusivamente alla gestione separata Inps e non pensionati, tenuti quindi a versare alla gestione separata il contributo con l’aliquota maggiorata prevista dalla legge per finanziare le prestazioni economiche di maternità/paternità.

 

Il diritto all’indennità di maternità/paternità spetta a condizione che nei 12 mesi precedenti il mese di inizio del congedo di maternità (o paternità) risultino effettivamente accreditati o dovuti alla gestione separata almeno 3 contributi mensili comprensivi della predetta aliquota maggiorata (automaticità delle prestazioni, art. 64-ter T.U. introdotto dal decreto legislativo 80/2015). Per ogni approfondimento si rinvia alla Circolare INPS n.42 del 26.02.2016.

 

COSA SPETTA
Un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro che comprende (artt. 16 e seguenti del T.U.):
prima del parto
• i 2 mesi precedenti la data presunta del parto (salvo flessibilità) e il giorno del parto;
• i periodi di interdizione anticipata disposti dall’azienda sanitaria locale (per gravidanza a rischio) oppure dalla direzione territoriale del lavoro (per mansioni incompatibili)
dopo il parto
• i 3 mesi successivi al parto (salvo flessibilità) e, in caso di parto avvenuto dopo la data presunta, i giorni compresi tra la data presunta e la data effettiva;
• in caso di parto anticipato rispetto alla data presunta (parto prematuro o precoce), ai tre mesi dopo il parto si aggiungono i giorni non goduti prima del parto, anche qualora la somma dei 3 mesi di post partum e dei giorni compresi tra la data effettiva del parto ed la data presunta del parto, superi il limite complessivo di cinque mesi;
• i periodi di interdizione prorogata disposti dalla direzione territoriale del lavoro (per mansioni incompatibili con il puerperio).

 

In caso di parto gemellare la durata del congedo di maternità non varia.

 

In caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre può sospendere, in tutto o in parte, il congedo post partum (art. 16 bis comma 1), riprendendo nel frattempo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del periodo di congedo residuo a partire dalla data di dimissioni del bambino. Tale diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio subordinatamente alla sussistenza della compatibilità della ripresa dell’attività lavorativa con il proprio stato di salute (comma 2 dell’art. 16 bis). Tale compatibilità, per espressa disposizione normativa, è comprovata da “attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa”.

 

In caso di interruzione di gravidanza che si verifica dopo i 180 giorni dall'inizio della gestazione (180simo giorno incluso), nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno diritto ad astenersi dal lavoro per l'intero periodo di congedo di maternità salvo che la stessa non scelga di riprendere l’attività lavorativa (art. 16, comma 1 bis, del T.U. modificato dal D.lgs. 119/2011).

 

In caso di adozione o affidamento di minore di cui alla legge 184/1983 il diritto al congedo spetta per i cinque mesi successivi all’ingresso in famiglia del minore stesso (art.64-bis del T.U.).

 

Il congedo di paternità è riconosciuto dal momento in cui si verificano determinati eventi riguardanti la madre del bambino, a prescindere dal fatto che la stessa sia lavoratrice o non lavoratrice. Il congedo di paternità spetta in caso di:
• morte o grave infermità della madre. La morte della madre dev’essere attestata mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica; la certificazione sanitaria comprovante la grave infermità va presentata in busta chiusa al centro medico legale dell’Inps, allo sportello oppure a mezzo raccomandata postale;
• abbandono del figlio da parte della madre. L’abbandono (o mancato riconoscimento del neonato) da parte della madre dev’essere attestato mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica;
• affidamento esclusivo del figlio al padre (art. 155 bis cod. civ.). L’affidamento esclusivo può essere comprovato allegando alla domanda telematica il provvedimento giudiziario con il quale l’affidamento esclusivo è stato disposto oppure comunicando gli estremi del provvedimento giudiziario ed il tribunale che lo ha emesso;

In caso di adozione o affidamento di minori il padre può fruire del congedo di maternità spettante alla madre che vi rinunci totalmente o parzialmente. La rinuncia è attestata dal richiedente mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica

CHI PAGA
L'indennità e' pagata direttamente dall'Inps secondo la modalità scelta nella domanda:
• bonifico presso l'ufficio postale;
• accredito su conto corrente bancario o postale.

 

QUANTO SPETTA
Durante i periodi di congedo di maternità (o paternità) la lavoratrice (o il lavoratore) ha diritto a percepire un'indennità economica pari all'80% di 1/365 del reddito derivante da attività di collaborazione coordinata e continuativa per le lavoratrici parasubordinata; 80% di 1/365 del reddito derivante da attività libero professionale.

 

LAVORATRICI AUTONOME

 

L’indennità di maternità (artt. 66 e seguenti del T.U.) è riconosciuta alle lavoratrici autonome per i due mesi precedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla data medesima.

 

In caso di adozione o affidamento nazionale di minore di cui alla legge 184/1983 spetta per i 5 mesi successivi all’effettivo ingresso in famiglia del minore adottato o affidato preadottivamente nonché per il giorno dell’ingresso stesso.

 

Per le adozioni o gli affidamenti preadottivi internazionali di cui alla legge 184/1983 la lavoratrice ha diritto ad un’indennità par a 5 mesi per i periodi e secondo quanto previsto dall’art.26 del T.U.

 

In caso di affidamento non preadottivo di cui alla legge 184/1983 l’indennità spetta per un periodo di 3 mesi da fruire, anche in modo frazionato, entro l’arco temporale di 5 mesi dalla data di affidamento del minore.

 

L'indennità non comporta comunque obbligo di astensione dall'attività lavorativa autonoma.

 

L’indennità di paternità è riconosciuta dal momento in cui si verificano determinati eventi riguardanti la madre del bambino, qualora la madre sia lavoratrice dipendente o autonoma. Il congedo di paternità spetta in caso di:
• morte o grave infermità della madre. La morte della madre dev’essere attestata mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica; la certificazione sanitaria comprovante la grave infermità va presentata in busta chiusa al centro medico legale dell’Inps, allo sportello oppure a mezzo raccomandata postale;
• abbandono del figlio da parte della madre. L’abbandono (o mancato riconoscimento del neonato) da parte della madre dev’essere attestato mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica;
• affidamento esclusivo del figlio al padre (art. 155 bis cod. civ.). L’affidamento esclusivo può essere comprovato allegando alla domanda telematica il provvedimento giudiziario con il quale l’affidamento esclusivo è stato disposto oppure comunicando gli estremi del provvedimento giudiziario ed il tribunale che lo ha emesso;

In caso di adozione o affidamento di minori il padre può fruire del congedo di maternità spettante alla madre che vi rinunci totalmente o parzialmente. La rinuncia è attestata dal richiedente mediante compilazione dell’apposita dichiarazione di responsabilità predisposta nella domanda telematica.

A CHI SPETTA
Alle artigiane, commercianti, coltivatrici dirette, colone, mezzadre, imprenditrici agricole professionali, nonché alle pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque interne, di cui alla legge 13 marzo 1958, n. 250, e successive modificazioni (Circolare INPS 130/2013), iscritte alla gestione dell'INPS in base all'attività svolta ed in regola con il versamento dei contributi anche per i mesi compresi nel periodo di maternità (due mesi precedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla data stessa).

 

L'indennità può essere richiesta anche nei casi in cui l'iscrizione alla propria gestione sia avvenuta successivamente alla data di inizio del periodo indennizzabile per maternità.

Si possono verificare i seguenti casi:
• iscrizione richiesta entro i termini di legge (30 giorni dall'inizio dell'attività per artigiani e commercianti e 90 giorni dall'inizio dell'attività negli altri casi): qualora l'attività sia iniziata in data precedente alla data di inizio del periodo di maternità, l'indennità spetta, alle condizioni sopra indicate (effettiva copertura contributiva del periodo indennizzabile per maternità), per l'intero periodo di maternità. Nel caso in cui l'attività lavorativa autonoma sia iniziata, invece, successivamente all'inizio del periodo di maternità, l'indennità spetta per il periodo successivo all'inizio dell'attività stessa;
• iscrizione richiesta oltre i termini di legge: l'indennità di maternità spetta a partire dalla data della domanda di iscrizione alla gestione di appartenenza.

 

QUANTO SPETTA
Per i periodi di maternità spettanti in caso di parto (due mesi precedenti la data del parto e tre mesi successivi alla data medesima) ed in caso di adozione/affidamento (cinque mesi dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore adottato/affidato) spetta un'indennità economica pari all'80% della retribuzione giornaliera stabilita annualmente dalla legge a seconda del tipo di lavoro autonomo svolto.

 

In caso di interruzione di gravidanza verificatasi oltre il terso mese dall’inizio della gestazione, l’indennità è corrisposta per un periodo di 30 giorni.

 

CHI PAGA
L'indennità è pagata direttamente dall'Inps secondo la modalità scelta nella domanda:
• bonifico presso l'ufficio postale;
• accredito su conto corrente bancario o postale.

 

LA DOMANDA

 

La domanda di maternità (o paternità) deve essere presentata all’Inps telematicamente anche dalle lavoratrici e lavoratori assicurati ex IPSEMA dipendenti da datori di lavoro optanti per il pagamento delle indennità con il metodo del conguaglio (codice conguaglio “CA2G”)- (Circolare INPS n. 173 del 23.10.2015), mediante una delle seguenti modalità:
• WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN dispositivo attraverso il portale dell’Istituto (www.inps.it - Servizi on line);
• Contact Center integrato – n. 803164 gratuito da rete fissa o n. 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico;
• Patronati, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.
La domanda telematica va inoltrata prima dell’inizio del congedo di maternità ed, in ogni caso, non oltre un anno dalla fine del periodo indennizzabile, pena la prescrizione del diritto all’indennità.

 

La lavoratrice è tenuta a comunicare la data di nascita del figlio e le relative generalità entro 30 giorni da parto mediante una delle modalità telematiche sopra indicate.

 

Le lavoratrici autonome trasmettono la domanda telematica a parto avvenuto.

 

La domanda telematica prevede la possibilità di allegare documentazione utile per la definizione della stessa (provvedimenti di interdizione anticipata/posticipata, provvedimenti di adozione o affidamento, autorizzazione all’ingresso in Italia del minore straniero in adozione o affidamento preadottivo rilasciato dalla Commissione per le Adozioni Internazionali, attestazione di ingresso in famiglia del minore adottato/affidato e così via).

 

Per le lavoratrici assicurate ex IPSEMA dipendenti da datori di lavoro optanti per il pagamento delle indennità con il metodo del conguaglio (codice conguaglio “CA2G”)- (Circolare INPS n. 173 del 23.10.2015) anche la competenza territoriale alla gestione delle pratiche è quella prevista per la generalità dei lavoratori, determinata sulla base della residenza dell’assicurato

Storicamente nell’ordinamento italiano il lavoratore è spesso stato al centro di interventi normativi volti a migliorare la sua condizione sociale.

Uno di questi interventi che oggi definiremmo di portata assistenziale, risale al 1934 quando, nel settore industriale, tramite un accordo sindacale ed in seguito ad una riduzione dell’orario di lavoro settimanale, si introdusse la Cassa per gli assegni familiari; lo scopo perseguito era sostenere il reddito di quei lavoratori che avevano subito una riduzione dell’orario lavorativo, e lo si faceva tramite l’erogazione di somme di danaro che aiutassero le famiglie in difficoltà.

Qualche anno dopo, queste misure di sostegno vennero estese dai lavoratori del settore industriale a tutti i lavoratori subordinati, grazie ai Regi decreti n.1048 e n.1239 del 1937.

Una compiuta normativa in materia, fu introdotta successivamente grazie al Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari D.P.R. n.797/1955. Tale normativa è tutt’oggi applicabile a quelle categorie di lavoratori escluse dal D.l. n.69/1988 convertito nella Legge n.153/1988 che di fatto ha introdotto l’assegno per il nucleo familiare conosciuto con l’acronimo ANF che di seguito analizzeremo.

1. Prestazioni a sostegno della famiglia del lavoratore
Il sostegno alla famiglia è la base fondamentale delle prestazioni previdenziali. A ben guardare, inoltre, assegni famigliari e ANF trovano validi presupposti nella Costituzione. Leggendo la nostra carta fondamentale, infatti, all’art. 31 troviamo la tutela della famiglia quale società naturale: “la Repubblica deve agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia”, nella stessa ottica di tutela all’art 36 si legge: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione… in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Evidente appare l’importanza di sorreggere il reddito della famiglia intesa nella sua globalità ed incastonata in un tessuto sociale fondato sul lavoro. Il legislatore ha dunque voluto riporre negli assegni familiari e negli ANF quell’aiuto economico che a determinate condizioni e con determinati requisiti agevolasse il raggiungimento di quell’esistenza dignitosa costituzionalmente garantita al lavoratore e alla sua famiglia.

2. Gli Assegni per il nucleo Familiare ANF
Introdotto nel 1988 con il D.lgs. n. 69, l’assegno per il nucleo familiare-ANF è una prestazione economica riconosciuta dall’'INPS a taluni lavoratori dipendenti, ma anche pensionati e altre figure specificatamente individuate dalla normativa. L’importo dell’assegno ANF erogato, è strettamente collegato alla conformazione del nucleo familiare e tiene conto del reddito da questi globalmente prodotto. Come previsto dall’art.2 del D.lgs.69/88, inoltre, l’ANF va a sostituire l’assegno familiare previsto dal D.P.R. n.797/1955 che veniva erogato in misura fissa per ogni familiare a carico, con l’assegno unico per il nucleo; la prestazione è concepita per essere erogata in maniera inversamente proporzionale, e in buona sostanza differenziata per scaglioni, rispetto al reddito. Dunque, più è alto il reddito familiare, meno cospicua sarà la somma erogabile a titolo di ANF.

3. Beneficiari della prestazione
Stando all’art. 2 della normativa che l’ha istituito, e leggendo quanto diffuso dall’INPS sul proprio sito, possiamo affermare che hanno facoltà di beneficiare dell’assegno per il nucleo familiare:
• i lavoratori dipendenti;
• i pensionati la cui prestazione pensionistica derivi da lavoro dipendente;
• i lavoratori domestici;
• i lavoratori assistiti dall'assicurazione contro la tubercolosi;
• i lavoratori statali in servizio ed anche quelli in quiescenza;
• i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali;
• i lavoratori in somministrazione;
• i lavoratori parasubordinati e lavoratori autonomi solo se iscritti alla Gestione Separata Inps;
• i lavoratori dipendenti di ditte cessate e fallite;
• i pensionati dei fondi speciali ex Enpals;
• i soggetti titolari di prestazioni previdenziali;
• i lavoratori percettori di particolari situazioni di pagamento diretto (ad esempio disoccupazione, cassa integrazione ecc…)

4. Requisiti per beneficiare dell’ANF
Questa misura di sostegno al reddito non viene erogata indiscriminatamente a tutti i richiedenti che abbiano famiglia, ma presuppone dei requisiti strettamente imperniati al nucleo familiare. Nello specifico per determinare il diritto di un lavoratore a percepire l’ANF e per stabilirne l’importo, assumono rilevanza:
• il tipo di nucleo familiare;
• il numero di persone che compongono il nucleo familiare;
• il reddito complessivamente prodotto dall’intero nucleo familiare.
Tutti questi elementi sono utili a delineare un quadro operativo, cristallizzato annualmente dall’INPS in apposite tabelle valide dal 1° luglio di ogni anno, fino al 30 giugno dell’anno successivo.
L’importanza di definire bene il nucleo familiare è fondamentale per stabilire la tabella di riferimento; a tal proposito, bisogna dire che le persone che compongono il nucleo possono anche non convivere materialmente con il richiedente.
La legge prevede che ad ogni nucleo familiare può essere erogato un solo assegno ANF ed in relazione agli stessi componenti tale erogazione è incompatibile con qualsiasi altro trattamento di famiglia a chiunque spettante.

5. Come si compone il nucleo familiare
La composizione del nucleo familiare ai fini ANF è disciplinata dal comma 6 dell’art.2 D.l. 69/88 e di rimando, per quanto non espressamente previsto da questi, dal D.P.R. n.797/55 (nello specifico, per il nucleo familiare, all’art.4). Sulla scorta di questa disciplina, come chiarito e ricostruito anche dall’INPS, possiamo desumere e affermare che il nucleo familiare dell’avente diritto all’ANF può essere formato:
• dal lavoratore o pensionato cui l’ANF si riferisce;
• dal proprio coniuge o della persona con la quale ha contratto l’unione civile;
• dai figli o da soggetti c.d. equiparati, cioè quelli elencati dall’art.38 D.P.R. n. 818/1957, la cui età sia inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età solo qualora si trovino in condizioni psico-fisiche che comportino l’assoluta e permanente impossibilità di prestare lavori proficui - purché non siano coniugati o uniti civilmente (perché in tal caso hanno uno status civile che consente loro di formare il proprio nucleo familiare) -; specifica ancora l’INPS, che fanno parte del nucleo familiare:
• i fratelli, sorelle e nipoti minori o maggiorenni, inabili a proficuo lavoro solo se sono orfani di entrambi i genitori, non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati, previa autorizzazione;
• nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell'ascendente, previa autorizzazione.

6. Chi sono gli inabili ai fini ANF
Il tenore letterale della normativa evidenzia come l’inabile di qualsiasi età, inserito nel nucleo familiare, debba esserlo al proficuo lavoro. Questo vuol dire che il soggetto inabile ai fini ANF:
• deve avere delle difficoltà psico-fisiche;
• le difficoltà devono rendere impossibile, non lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, bensì una prestazione che garantisca un notevole profitto, proficua appunto.
L’inserimento all’interno del nucleo familiare di un componente inabile così delineato, permette di accedere ad importi maggiorati di ANF, poiché cambia la tabella di riferimento e le relative somme.
Questa variazione necessita di una preventiva richiesta di autorizzazione all’INPS sorretta da apposita documentazione medico - sanitaria inerente all’inabilità (circolare INPS n.11 del 2014).

7. ANF: figli o equiparati maggiorenni
Per quel che riguarda i figli ed equiparati, una deroga alla normativa è stata introdotta dall’art. 1 comma 11 della L. n. 296 del 2006; come pure si legge nella circolare INPS n. 13/2007 infatti, ai fini ANF, possono essere inclusi all’interno del nucleo familiare i figli o equiparati maggiorenni che siano ancora studenti o in una situazione lavorativa di apprendistato a condizione che:
• abbiano un’età compresa tra i 18 e i 21 anni
• il nucleo di appartenenza deve contare al suo interno un numero minimo di quattro figli di età inferiore ai 26 anni, ed essere annoverato dunque tra quei nuclei c.d. “numerosi”.

8. Chi è escluso dal nucleo familiare
In maniera chiara ed esplicita è stabilito che non possono, invece, essere considerati parte del nucleo familiare:
• il coniuge che risulti nei fatti ma soprattutto legalmente separato
• Il coniuge che ha abbandonato la famiglia
• il soggetto che risulti sciolto da unione civile
• il coniuge ed i figli o gli equiparati del cittadino straniero, i quali non risultino residenti su territorio della Repubblica, salvo particolari condizioni di reciprocità stipulate tramite convenzioni
• i figli maggiorenni abili, che non siano studenti ne abbiano un lavoro da apprendisti

9. Il reddito da considerare ai fini ANF
Individuata la tipologia di nucleo familiare ed il numero di persone che lo compongono, ultimo requisito imprescindibile per determinare l’importo dell’ANF, nonché utile per stabilirne il diritto di fruizione, è il reddito.
Essendo l’ANF una misura previdenziale a sostegno della famiglia, il reddito cui si fa riferimento è quello complessivo dell’intero nucleo familiare, prodotto nell’anno precedente rispetto all’anno di decorrenza della prestazione; la norma (art.2 comma 9 D.l.69/88) stabilisce che concorrono a formare tale reddito:
• tutti i redditi assoggettabili all'Irpef di chi fa parte del nucleo familiare
• i redditi di qualsiasi natura, ivi compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori a 1.032,91 euro
Riportando pedissequamente l’elenco specificato dall’INPS, ai fini ANF non contribuiscono a comporre il reddito del nucleo familiare:
• le somme percepite a titolo di TFR (Trattamenti di Fine Rapporto) comunque denominate o le anticipazioni sulle stesse;
• le somme inerenti ai trattamenti di famiglia, comunque denominati;
• le rendite vitalizie erogate dall'INAIL, le pensioni di guerra e le pensioni tabellari ai militari di leva vittime di infortunio;
• le indennità di accompagnamento agli invalidi civili, ai ciechi civili assoluti, ai minori invalidi che non possono camminare e ai pensionati di inabilità
• le indennità di comunicazione per sordi e le indennità speciali per i ciechi parziali;
• gli indennizzi per danni irreversibili da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati;
• gli arretrati di cassa integrazione riferiti ad anni precedenti a quello di erogazione;
• l'indennità di trasferta per la parte non assoggettabile a imposizione fiscale;
• gli assegni di mantenimento percepiti dal coniuge legalmente separato a carico del/della richiedente e destinati al mantenimento dei figli.

10. Limite del reddito da lavoro dipendente
Come plausibile immaginare, all’interno di una famiglia al giorno d’oggi i redditi possono derivare sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo; l’assegno per il nucleo tuttavia è legato al lavoro dipendente. Ecco allora che per poter accedere alla prestazione ANF, il legislatore ha pensato di imporre dei limiti inerenti al reddito cosi prodotto.
Il diritto all'assegno non sorge qualora in una famiglia la somma prodotta:
• dai redditi da lavoro dipendente,
• dai redditi da pensione o legati a prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente,
sia inferiore al 70% del reddito complessivo del nucleo familiare.

11. Tabelle annuali ANF
La prestazione ANF come anticipato viene erogata in maniera differenziata per scaglioni, in base al reddito, alla tipologia e al numero di persone che compongono il nucleo familiare.
Gli importi ANF così scaglionati, vengano rivalutati annualmente nella medesima misura del ricalcolo periodico che l’ISTAT effettua sulla c. d. variazione dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (FOI).
Come ogni anno dunque, in ossequio alla normativa, l’INPS nell’emanare la circolare n. 66 del 17 maggio 2019, ha comunicato gli importi ANF relativi ai vari livelli reddituali validi per il periodo dal 1° luglio 2019 fino al prossimo 30 giugno 2020.
Gli importi sono contenuti nelle tabelle allegate alla circolare, queste sono facilmente consultabili sul sito internet dell’istituto previdenziale.
Le tabelle sono diverse:
• ognuna chiamata con un numero (tabella 11, 12 ecc…),
• ognuna relativa ad una tipologia di nucleo familiare (a mero titolo di esempio la più comune è la tabella 11: “nuclei familiari con entrambi i genitori e almeno un figlio minore in cui non siano presenti componenti inabili”).
All’interno di queste tabelle, in corrispondenza di ogni fascia reddituale e del numero dei componenti del nucleo, si può verificare qual è la cifra di assegno cui si ha diritto.
Poiché le tabelle una volta emanate hanno valenza dal 1° luglio di ogni anno e fino al 30 giugno dell'anno successivo, occorre rimarcare che il reddito da dichiarare ai fini ANF è sempre quello dell’anno precedente al periodo di valenza delle tabelle stesse, dunque per esempio:
• se si è fatta richiesta ANF a luglio 2019, il reddito del nucleo familiare da dichiarare era quello relativo al 2018;
• se si vuol fare richiesta ANF il 1° giugno 2020, il reddito da dichiarare sarà sempre quello relativo all’anno 2018.
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12. ANF e convivenza
All’interno della nostra società molti dinamici cambiamenti socio-culturali hanno reso necessario l’intervento del legislatore in alcuni ambiti sociali che richiedevano maggior tutela per taluni soggetti. Uno di questi importanti interventi è sicuramente rappresentato dalla L. n.76 del 20 maggio 2016 la c.d. legge Cirinnà; essa è intervenuta per disciplinare le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto. Modificando la concezione di nucleo familiare avuta sino a quel momento, il legislatore proprio in riferimento alle misure di sostegno al reddito familiare di cui discutiamo, ha affermato: “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso... si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile.”.
La tendenza è dunque quella di garantire ed estendere la tutela alle nuove forme di famiglia con alcune peculiarità e precisazioni. Infatti, in attuazione del dettato normativo, l’INPS con la circolare n. 84 del 5 maggio 2017 ha chiarito che per ciò che riguarda le unioni civili:
• sono riconosciute alla parte dell’unione civile le stesse prestazioni familiari parimenti riconosciute nell’ambito del matrimonio per il coniuge non separato effettivamente e legalmente;
• per i figli nati precedentemente all’unione civile, a prescindere dall’affido sia esso condiviso oppure esclusivo se i genitori godono della tutela ANF “viene garantito in ogni caso il trattamento di famiglia su una delle due posizioni dei propri genitori, a nulla rilevando la successiva unione civile contratta da uno di essi”. Qualora invece nessuno dei genitori abbia diritto agli ANF, “la successiva unione civile di uno dei due con altro soggetto - lavoratore dipendente o titolare di prestazione previdenziale sostitutiva - garantisce il diritto all’ANF/AF per i figli dell’altra parte dell’unione civile”.
• Per i figli nati successivamente all’unione civile, essi rientrano nel nucleo ai fini ANF qualora siano stati riconosciuti e affidati al genitore ai sensi dell’art. 252 c.c..
La circolare INPS per le convivenze precisa poi che:
• “Ai fini della misura dell’ANF, per la determinazione del reddito complessivo è assimilabile ai nuclei familiari coniugali la sola situazione dei conviventi di fatto, di cui ai commi 36 e 37 dell’art.1 della legge n.76/2016, che abbiano stipulato il contratto di convivenza di cui al citato comma 50 dell’art.1 della legge n.76/2016, qualora dal suo contenuto emerga con chiarezza l’entità dell’apporto economico di ciascuno alla vita in comune”.

13. Separazione o divorzio: il caso particolare del genitore unico affidatario
Spesso il nucleo familiare subisce variazioni a seguito di separazione dei coniugi o divorzio degli stessi; ai fini ANF in questi casi è fondamentale capire a chi saranno affidati i figli. In generale il diritto all’ANF è legato ad una posizione lavorativa, ne consegue che a rigor di logica il coniuge affidatario se lavoratore legittimato a richiedente l’ANF, lo richiede per il nucleo familiare di cui è componente insieme al figlio o ai figli affidati. L’altro coniuge legalmente ed effettivamente separato non fa parte del nucleo e non è legittimato a percepire la misura dell’ANF.
Può palesarsi tuttavia, una situazione in cui il genitore affidatario non sia lavoratore legittimato a richiedere gli ANF, a disciplinare questa ipotesi ci ha pensato il legislatore nell’ambito di riforma del diritto di famiglia; egli aveva in fatti previsto all’art. 211 della L. n. 151 del 1975, che:
• “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge”.
Se ne deduce che, se il coniuge affidatario non può richiedere gli ANF in base alle regole sin qui esaminate, perché non lavora, ha comunque diritto all’assegno del nucleo familiare maturato sulla posizione dell'altro coniuge separato o divorziato (ex coniuge).
Nell’uno o nell’altro caso, in seguito a separazione o divorzio, come precisato dall’INPS nella circolare n. 48 del 1992, il nucleo familiare da considerare ai fini ANF è composto:
• dal genitore affidatario
• dai figli a lui affidati
Il reddito di riferimento per il calcolo relativo all’ammontare dell’ANF è quello prodotto complessivamente dal nucleo così composto. Impostazione confermata anche dalla suprema corte nelle sentenze della sez. civ. n.13200 del 2013 n. 635 del 2015.
Per evitare conflittualità piuttosto diffuse in merito alla materiale corresponsione della somma ANF, la disciplina si è arricchita con l’art. 1 comma 559 della L. n. 311 del 2004 (la c.d. finanziaria del 2005) ha stabilito che “l’assegno per il nucleo familiare viene erogato direttamente al coniuge dell’avente diritto”. Di conseguenza, il coniuge che ne abbia diritto può, tramite appositi moduli, farne espressa domanda seguendo le modalità dettate dal decreto ministeriale del 4 aprile 2005 (tutta la modulistica è facilmente reperibile sul sito internet dell’INPS).
Utile evidenziare che la circolare su menzionata n.48/92 stabilisce anche che se il coniuge divorziato affidatario convoli a nuove nozze, perde il diritto di ottenere l'ANF relativo alla posizione lavorativa dell’ex coniuge.

14. ANF e affidamento condiviso
Nel caso in cui i figli siano affidati congiuntamente ad entrambi i genitori, e questi siano entrambi legittimati a richiedere l’assegno per il nucleo familiare del quale fa parte il figlio, in base alla circolare INPS n. 210 del 1999 si aprono due scenari:
• i coniugi, di comune accordo, stabiliscono chi provvederà a effettuare richiesta per l’ANF dichiarando il figlio nel proprio nucleo, indipendentemente dalla convivenza del figlio con uno di loro (dato che come affermato nei paragrafetti precedenti questa non è un requisito indispensabile a differenza della presenza all’interno del nucleo familiare).
• qualora manchi un comune accordo, la percezione della prestazione ANF spetta al genitore con il quale il figlio risulta convivente; solo in questo caso, infatti, la convivenza è rilevante.

15. Come si effettua la richiesta ANF
La richiesta per l’Assegno per il Nucleo Familiare dei dipendenti va presentata ogni anno e va oggi effettuata direttamente all’INPS ed esclusivamente in modalità telematica. Questa nuova modalità è operativa dal 1° aprile 2019 ed ha sostituito la vecchia procedura con la quale la domanda veniva presentata al datore di lavoro compilando il modello cartaceo “SR16”. Modulo cartaceo che continua ad applicarsi in via eccezionale solo per i lavoratori dipendenti di aziende del settore privato agricolo.
La novità illustrata dettagliatamente dall’INPS nella circolare n. 45 del 22 marzo 2019 prevede che l’invio telematico possa esser effettuato dal lavoratore:
• ·o in perfetta autonomia utilizzando l’apposito servizio on-line “ANF-DIP” messo a disposizione sul sito dell’INPS
• oppure grazie all’ausilio di Patronati
La domanda “ANF-DIP” viene esaminata a cura dell’INPS che di conseguenza definirà se il soggetto abbia diritto alla prestazione e in quale misura, tenendo presente le tabelle corrispondenti alla tipologia del nucleo familiare e il livello di reddito familiare dichiarati.
Il lavoratore, una volta inoltrata la richiesta, può vederne gli sviluppi sempre tramite il sito accedendo con le proprie credenziali alla sua area riservata, nella sezione “ANF- DIP Consultazione domanda”.

16. Variazioni dei requisiti e Autorizzazione ANF 42
Può accadere che nel corso del tempo che ci sia una variazione dei requisiti su cui si fonda l’ANF e dunque:
• una variazione del nucleo familiare del richiedente,
• una variazione del livello di reddito familiare,
In entrambi i casi il richiedente deve comunicare queste variazioni, entro trenta giorni da quando si verificano. Deve farlo esclusivamente in via telematica, seguendo sempre l’apposito sito nella sezione “ANF DIP”.
Esistono casi particolari in cui il lavoratore oltre a presentare la domanda “ANF- DIP”, deve richiedere l’autorizzazione preventiva ad inserire nel proprio nucleo familiare ai fini ANF determinati familiari, questi, come chiarito dalla circolare INPS n.45 del 2019 possono essere:
• figli ed equiparati di coniugi/parte di unione civile legalmente separati o divorziati/sciolti da unione civile, o in stato di abbandono;
• figli propri o del coniuge/parte di unione civile, riconosciuti da entrambi i genitori, nati prima del matrimonio;
• figli del coniuge/parte di unione civile nati da precedente matrimonio;
• fratelli sorelle e nipoti orfani di entrambi i genitori e non aventi diritto a pensione di reversibilità;
• nipoti in linea retta a carico dell’ascendente (nonno/a);
• familiari minorenni con persistente difficoltà a svolgere funzioni o compiti propri della loro età;
• familiari maggiorenni con assoluta e permanente impossibilità a svolgere proficuo lavoro;
• minori in accasamento etero-familiare;
• familiari di cittadino italiano, comunitario, straniero di stato convenzionato, che siano residenti all’estero;
• figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni compiuti ed inferiore ai 21 anni compiuti, purché facenti parte di "nuclei numerosi", cioè nuclei familiari con almeno 4 figli tutti di età inferiore ai 26 anni.
L’autorizzazione va presentata, completa di documentazione se ed ove richiesta, sempre telematicamente mediante l’apposito sito ed è denominata “autorizzazione ANF 42”.

17. Come avviene il pagamento ANF
La prestazione è erogata dall’INPS; tuttavia l'assegno viene pagato dal datore di lavoro, e dunque anticipato da quest’ultimo per conto dell'INPS:
• ai lavoratori dipendenti in attività
Il pagamento è invece effettuato direttamente dall’INPS se il richiedente è:
• un soggetto beneficiario di prestazioni previdenziali (es: pensione);
• un lavoratore iscritto alla Gestione Separata INPS;
• un lavoratore domestico;
• un operaio agricolo dipendente di azienda privata;
• un lavoratore di ditte cessate o fallite;
A livello pratico quando l’assegno viene anticipato dal datore, questi lo eroga mensilmente contemporaneamente alla retribuzione direttamente in busta paga; quando invece l’ANF è corrisposto direttamente dall’INPS, il pagamento avviene mediante bonifico all’apposito IBAN indicato dal richiedente.
Fiscalmente l'ANF non concorre a formare la base imponibile dell'IRPEF.

18. Istruzioni per i datori di lavoro
L’INPS con la circolare n. 45 del 2019, sopra menzionata, nell’enunciare le novità sulla presentazione telematica delle domande ANF, ha chiarito anche a quali incombenze debbano sottoporsi i datori di lavoro. Successivamente alla richiesta degli ANF, la domanda viene presa in carico dall’INPS che mette a disposizione del datore di lavoro gli importi calcolati per il singolo lavoratore. A questo punto, il datore di lavoro dovrà:
• accedere al sito INPS, in una apposita sezione del Cassetto previdenziale aziendale denominata “consultazione importi ANF”, e immettendo il codice fiscale del richiedente l’assegno, visionare gli importi dovuti al singolo lavoratore;
• adattare e calcolare - comunque non oltre i limiti indicati dall’istituto - l’importo effettivamente spettante al richiedente, sulla base del lavoro svolto del contratto di lavoro sottoscritto.
Espletate queste incombenze, il datore di lavoro pagherà l’assegno in busta paga con la retribuzione mensile, recuperandole dall’INPS a conguaglio, attraverso il sistema “Uniemens” come meglio chiarito dal messaggio INPS N. 011903/2009° dallo stesso sito dell’Istituto previdenziale.

19. ANF decorrenza e durata della prestazione
Dato che il diritto a percepire l’ANF è strettamente legato all’esistenza di condizioni e requisiti, possiamo affermare che esso sorge al verificarsi di queste condizioni e spetta a partire dal primo giorno del periodo di paga o di erogazione della prestazione previdenziale nel quale temporalmente si sono verificate ad esempio:
• se il richiedente convola a nozze il 16 maggio, farà domanda ANF con il suo nuovo nucleo familiare e nuovo reddito familiare (che comprende lui e la moglie) se ne ha diritto questo maturerà a partire dal 1 maggio, pertanto gli verrà erogato congiuntamente alla retribuzione di quel mese.
Di conseguenza alla fine del periodo in cui vengono meno le condizioni per il riconoscimento dell’ANF il relativo diritto viene meno, ad esempio:
• al raggiungimento della maggiore età da parte di un figlio non inabile, cambiando la composizione del nucleo famigliare, cade il diritto all’importo ANF relativo alla precedente composizione.
L’assegno ANF spetta, come ovvio, in concomitanza di una prestazione lavorativa. Esso rimane garantito anche per i periodi in cui il lavoratore non presti la propria attività in virtù di situazioni tutelate quali:
• maternità, congedo parentale, congedo matrimoniale;
• ferie e festività, infortunio sul lavoro, malattia;
• permessi Legge 104 o aspettative;
• cassa integrazione ordinaria e straordinaria.

20. ANF arretrati e prescrizione
La domanda di ANF deve essere presentata annualmente, tuttavia può capitare che si debbano richiedere degli arretrati, anche in questo caso bisogna procedere alla richiesta on–line, fatta direttamente all’INPS con le modalità descritte in precedenza. Nella richiesta andrà specificato il periodo di lavoro relativo al quale se ne fa richiesta di oltre ad indicare il datore di lavoro alle dipendenze del quale si era in quello stesso periodo.
L’INPS con la circolare n.110/92 ricorda che la possibilità di richiedere gli arretrati ANF è legata al termine quinquennale di prescrizione, come espressamente previsto dall’art 23 del D.P.R. n.797 del 1955 infatti:
“Il diritto agli assegni familiari si prescrive nel termine di cinque anni. Tale termine decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è compreso il periodo di lavoro cui l'assegno si riferisce. La prescrizione è interrotta nel caso di richiesta scritta all'Istituto nazionale della previdenza sociale o all'ispettorato del lavoro. La prescrizione è interrotta altresì dalla intimazione dell'ispettorato del lavoro”.
Se gli arretrati sono relativi a periodi lavorati in aziende- ditte cessate o fallite, gli ex dipendenti di queste ditte, possono fare richiesta per l’ANF, sempre nel termine prescrizionale di cinque anni, direttamente all’INPS utilizzando:
• il servizio on-line cercando la sezione “ANF Ditte cessate e Fallite”;
• contattando il “contact center” dell’INPS al numero verde 803 164;
• l’ausilio di Patronati.
Il pagamento lo effettuerà l’INPS.
La disciplina degli ANF sin qui esaminata (D.l. n.69/1988 convertito nella Legge n.153/1988) è valida solo per i lavoratori dipendenti. Come chiarito dalla circolare INPS n. 59/1998 sono esclusi da questa disciplina: i lavoratori autonomi, i piccoli coltivatori diretti relativamente alle giornate di lavoro autonomo con le quali integrano quelle di lavoro agricolo dipendente, i coltivatori diretti, i coloni e mezzadri. Espressamente esclusi inoltre – secondo la circolare in parola, nonché dal comma 12-bis dell’art 2 D.l. n. 69/1988- i pensionati delle gestioni speciali per i lavoratori autonomi.

La Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego ( Naspi) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dall'articolo 1, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 – che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione ASpI e MiniASpI – in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1° maggio 2015. La NASpI viene erogata su domanda dell'interessato.

A chi è rivolta
La Naspi spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l'occupazione, compresi:

  • apprendisti;
  • soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato con le medesime cooperative;
  • personale artistico con rapporto di lavoro subordinato;
  • dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni.

Non possono accedere alla prestazione:

  • dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni;
  • operai agricoli a tempo determinato e indeterminato;
    lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per i quali resta confermata la specifica normativa;
  • lavoratori che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
  • lavoratori titolari di assegno ordinario di invalidità, qualora non optino per la NASpI

Come funziona

DECORRENZA E DURATA

L'indennità di disoccupazione NASpI spetta a partire:

  • dall'ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, se la domanda viene presentata entro l'ottavo giorno. Dal giorno successivo alla presentazione della domanda, se presentata dopo l'ottavo giorno successivo alla cessazione, ma entro i termini di legge;
  • dall'ottavo giorno successivo al termine del periodo di maternità, malattia, infortunio sul lavoro/malattia professionale o preavviso, se la domanda viene presentata entro l'ottavo giorno. Dal giorno successivo alla presentazione della domanda, se presentata dopo l'ottavo giorno ma entro i termini di legge;
  • dal trentottesimo giorno successivo al licenziamento per giusta causa, se la domanda viene presentata entro il trentottesimo giorno. Dal giorno successivo alla presentazione della domanda, se presentata oltre il trentottesimo giorno successivo al licenziamento, ma entro i termini di legge.
  • L'eventuale rioccupazione nel corso degli otto giorni che seguono la cessazione non dà luogo alla sospensione della prestazione e dovrà essere presentata una nuova domanda di NASpI in caso di cessazione involontaria dalla suddetta rioccupazione (circolare INPS 12 maggio 2015, n. 94).

La NASpI è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane contributive presenti negli ultimi quattro anni. Ai fini del calcolo della durata non sono computati i periodi di contribuzione che hanno già dato luogo a erogazione di prestazioni di disoccupazione. Analogamente non è computata la contribuzione che ha prodotto prestazioni fruite in unica soluzione in forma anticipata.

Non avendo prodotto alcuna prestazione, i periodi di contribuzione relativi al rapporto o ai rapporti di lavoro successivi all'ultima prestazione di disoccupazione sono sempre utili per la determinazione della durata di una nuova NASpI.

I periodi di fruizione della NASpI sono coperti da contribuzione figurativa (circolare INPS 12 maggio 2015, n. 94).

Chi intende avviare un'attività lavorativa autonoma o d'impresa individuale o vuole sottoscrivere una quota di capitale sociale di una cooperativa, nella quale il rapporto mutualistico ha come oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio, può richiedere la liquidazione anticipata e in un'unica soluzione della NASpI.

QUANTO SPETTA

La misura della prestazione è pari al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni, se la retribuzione è inferiore a un importo di riferimento stabilito dalla legge e rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT e reso noto ogni anno dall’INPS con circolare pubblicata sul sito (1.195 euro per il 2017, 1.208,15 euro per il 2018 e 1.221,44 euro per il 2019).

Se la retribuzione media è superiore al predetto importo di riferimento annuo (1.221,44 euro per il 2019), la misura della prestazione è invece pari al 75% dell'importo di riferimento annuo stabilito dalla legge (1.221,44 euro per il 2019) sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile e il suddetto importo stabilito dalla legge. In ogni caso l'importo dell'indennità non può superare un limite massimo individuato con legge e rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT e reso noto ogni anno dall’INPS con circolare pubblicata sul sito (pari per il 2017 a 1.300 euro, per il 2018 a 1.314,30 euro e per il 2019 a 1.328,76 euro). A partire dal primo giorno del quarto mese di fruizione, all'indennità si applica una riduzione del 3% per ciascun mese.

L'indennità è commisurata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni (comprensiva degli elementi continuativi e non continuativi e delle mensilità aggiuntive), divisa per il totale delle settimane di contribuzione (indipendentemente dalla verifica del minimale) e moltiplicata per il coefficiente numerico 4,33.

L'importo dell'indennità si riduce nei seguenti casi:

  • attività svolta in forma autonoma che genera un reddito annuo corrispondente a un'imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell'articolo 13 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) – decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 – e cioè pari a 4.800 euro. L'indennità viene ridotta dell'80% dei redditi previsti, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio dell'attività e la data di fine dell'indennità o, se antecedente, la fine dell'anno. Il soggetto beneficiario deve informare l'INPS – utilizzando il modulo SR161 – entro un mese dall'inizio dell'attività o dall'invio della domanda di NASpI, se l'attività preesisteva, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne. La mancata comunicazione del reddito presunto – anche se pari a zero – entro il predetto termine comporta decadenza dalla NASpI;
  • nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato o parasubordinato che genera un reddito annuo corrispondente a un'imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell'articolo 13 del TUIR e cioè pari a 8.000 euro

L'indennità viene ridotta dell'80% dei redditi previsti, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio dell'attività e la data di fine dell'indennità o, se antecedente, la fine dell'anno. In questo caso, la prestazione ridotta si mantiene solo ricorrendo le seguenti condizioni:

  • che il soggetto beneficiario comunichi all'INPS entro un mese dall'inizio dell'attività o dall'invio della domanda di NASpI, se antecedente, il reddito annuo presunto;
  • che il datore di lavoro o l'utilizzatore (nel caso di contratto di somministrazione) siano diversi dal datore di lavoro o dall'utilizzatore per i quali il soggetto ha prestato la propria attività lavorativa quando è cessato il rapporto di lavoro che ha determinato il diritto alla NASpI e che non presentino rispetto a essi rapporti di collegamento/controllo ovvero assetti proprietari coincidenti;
  • se il titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale cessa da uno dei rapporti – a seguito di licenziamento, dimissioni per giusta causa, o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7, legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall’articolo 1, comma 40, legge 28 giugno 2012, n. 92 – ha diritto alla indennità di disoccupazione, ricorrendone tutti gli altri requisiti, sempre che il reddito percepito dal rapporto di lavoro rimasto in essere corrisponda a un'imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell'articolo 13 del TUIR, e cioè pari a 8.000 euro, e che il percettore comunichi all'INPS entro un mese dalla domanda di prestazione il reddito annuo previsto derivante dal o dai rapporti rimasti in essere, anche se pari a zero. In questo caso, la NASpI è ridotta di un importo pari all'80% del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio del contratto di lavoro subordinato e la data di fine dell'indennità o, se antecedente, la fine dell'anno;
  • rioccupazione con contratto di lavoro intermittente, con o senza obbligo di risposta alla chiamata, alle condizioni indicate dalla circolare INPS 29 luglio 2015, n. 142 e dal messaggio 16 marzo 2018, n. 1162.
    In caso di prestazione di lavoro occasionale l’indennità NASpI è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di tale tipologia di lavoro nei limiti di compensi di importo non superiore a 5.000 euro per anno civile (articolo 54 bis, comma 4, decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 convertito in legge 21 giugno 2017, n. 96 e circolare INPS 23 novembre 2017, n. 174 )

L'indennità può essere riscossa tramite accredito su conto corrente bancario o postale, su libretto postale o tramite bonifico presso ufficio postale nel CAP di residenza o domicilio del richiedente.

Secondo le vigenti disposizioni di legge, le pubbliche amministrazioni non possono effettuare pagamenti in contanti per prestazioni il cui importo netto superi la soglia stabilita dalla legge (attualmente 1.000 euro).

SOSPENSIONE E DECADENZA

La prestazione è sospesa in caso di:

rioccupazione con contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a sei mesi. L'indennità è sospesa d'ufficio per la durata del rapporto di lavoro sulla base delle comunicazioni obbligatorie, salvo che il beneficiario della prestazione non effettui la comunicazione del reddito annuo presunto ai fini del cumulo e sempre che il reddito sia inferiore a 8.000 euro;
nuova occupazione in paesi dell'UE o con cui l'Italia ha stipulato convenzioni bilaterali in tema di assicurazione contro la disoccupazione o in paesi extracomunitari (vedi sezione a seguire dedicata al lavoro all’estero).
Il lavoratore decade dal diritto alla prestazione se:

  • perde lo stato di disoccupazione;
  • inizia un'attività di lavoro subordinato, di durata superiore a sei mesi o a tempo indeterminato senza comunicare all'INPS il reddito presunto che ne deriva entro il termine di un mese dall’inizio del rapporto di lavoro o dalla data di presentazione della domanda se il rapporto lavorativo era preesistente alla domanda medesima;
  • non comunica, entro un mese dalla domanda della NASpI, il reddito annuo che presume di trarre da uno o più rapporti di lavoro subordinato part-time rimasti in essere all’atto di presentazione della domanda di NASpI conseguente alla cessazione di altro rapporto di lavoro di cui era titolare;
  • inizia un'attività lavorativa autonoma o parasubordinata senza comunicare all’INPS il reddito annuo presunto entro un mese dal suo inizio o dalla data di presentazione della domanda se l’attività lavorativa autonoma era preesistente alla domanda medesima;
  • raggiunge i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
  • acquisisce il diritto all'assegno ordinario di invalidità e non opta per l'indennità NASpI;


nei casi previsti dall'articolo 21, comma 7, decreto legislativo 150 /2015, non partecipa, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di orientamento predisposte dai centri per l'impiego.
L'articolo 21, decreto legislativo 150/2015 rafforza i meccanismi di condizionalità per la fruizione delle prestazioni di disoccupazione, integrando e specificando le disposizioni dell'articolo 7, decreto legislativo 22/2015, sugli obblighi di partecipazione alle misure di politica attiva del disoccupato. Secondo l'articolo 21, l'inosservanza degli obblighi comporta sanzioni proporzionali, che vanno dalla decurtazione di una frazione o di un'intera mensilità della prestazione, fino alla decadenza dalla NASpI e dallo stato di disoccupazione.

In caso di lavoro all'estero:

recandosi in un paese UE, in Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda alla ricerca di lavoro, il diritto a percepire la prestazione di disoccupazione viene conservato per un massimo di tre mesi nel rispetto dei Regolamenti CE 883/2004 e 987/2009 e il lavoratore non è soggetto alle regole di condizionalità; dal primo giorno del quarto mese si conserva il diritto a percepire la prestazione, ma nel rispetto delle regole di condizionalità di cui agli articoli 20 e 21, decreto legislativo 150/2015, la cui violazione comporta l’applicazione delle conseguenti misure sanzionatorie;
recandosi in un paese UE, in Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda o in un paese extracomunitario per motivi diversi dalla ricerca di lavoro, si conserva il diritto a percepire la prestazione, ma nel rispetto delle regole di condizionalità di cui agli articoli 20 e 21, decreto legislativo 150/2015, la cui violazione comporta l’applicazione delle conseguenti misure sanzionatorie;
recandosi in un paese extracomunitario alla ricerca di lavoro si conserva il diritto a percepire la prestazione, ma nel rispetto delle regole di condizionalità di cui agli articoli 20 e 21, decreto legislativo 150/2015, la cui violazione comporta l’applicazione delle conseguenti misure sanzionatorie (circolare INPS 28 novembre 2017, n. 177).

Domanda

REQUISITI
La NASpI è riconosciuta ai lavoratori subordinati che presentino congiuntamente i requisiti di seguito indicati.

Stato di disoccupazione

Si considerano disoccupati i soggetti privi di impiego che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che dichiarino in forma telematica al portale nazionale delle politiche del lavoro la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego. La presentazione della domanda di NASpI equivale a rilascio della predetta dichiarazione di immediata disponibilità (DID). Nei 15 giorni successivi alla presentazione della domanda, il richiedente deve recarsi presso il centro per l'impiego per la stipula del patto di servizio personalizzato. In mancanza, l’assicurato è convocato dal centro per l’impiego.

Lo stato di disoccupazione deve essere involontario; sono esclusi pertanto i lavoratori il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni o di risoluzione consensuale. Tuttavia, l'accesso alla NASpI, sussistendo gli altri requisiti, è consentito anche nei seguenti casi:

  • dimissioni per giusta causa, qualora le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore ma siano indotte da comportamenti altrui che implicano la condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro (circolare INPS 20 ottobre 2003, n. 163);
  • dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità, ossia a partire da 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del bambino;
  • risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, purché sia intervenuta nell'ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro secondo le modalità di cui all'articolo 7, legge 15 luglio 1966, n. 604 come sostituito dall'articolo 1, comma 40, legge 92/2012;
  • risoluzione consensuale a seguito del rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso altra sede della stessa azienda distante più di 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile con i mezzi pubblici in 80 minuti o più;
  • licenziamento con accettazione dell'offerta di conciliazione di cui all'articolo 6, decreto legislativo 22/2015;
  • licenziamento disciplinare.
  • Requisito contributivo

Sono necessarie almeno 13 settimane di contribuzione contro la disoccupazione nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione. Per contribuzione utile si intende anche quella dovuta, ma non versata, e sono valide tutte le settimane retribuite, purché risulti erogata o dovuta per ciascuna settimana una retribuzione non inferiore ai minimali settimanali (legge 11 novembre 1983, n. 638 e legge 7 dicembre 1989, n. 389). La disposizione relativa alle retribuzioni di riferimento non si applica ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, agli operai agricoli e agli apprendisti, per i quali continuano a permanere le regole vigenti.

Per il perfezionamento del requisito contributivo, si considerano utili:

  • i contributi previdenziali comprensivi di quota contro la disoccupazione versati durante il rapporto di lavoro subordinato;
  • i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria, se all'inizio dell'astensione risulta già versata o dovuta contribuzione e per i periodi di congedo parentale, se indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro;
  • i periodi di lavoro all'estero in paesi comunitari o convenzionati dov'è prevista la possibilità di totalizzazione;
  • i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino agli otto anni, per massimo cinque giorni lavorativi nell'anno solare.


Se il lavoratore ha periodi di lavoro nel settore agricolo e altri in settori non agricoli, i periodi possono essere cumulati per ottenere l'indennità di disoccupazione NASpI, purché nel quadriennio di osservazione risulti prevalente la contribuzione non agricola. Qualora nel quadriennio si evidenzi prevalenza di contribuzione agricola è possibile procedere – per determinare la prevalenza – all'osservazione dei soli ultimi 12 mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro. Se in quest'ultimo periodo vi è prevalenza di contribuzione extra agricola, la domanda di NASpI, in presenza di tutti gli altri requisiti, è accoglibile. Non sono invece considerati utili in quanto non coperti da contribuzione effettiva, i seguenti periodi coperti da contribuzione figurativa:

malattia e infortunio sul lavoro, se non c'è integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro, nel rispetto del minimale retributivo;
cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell'attività a zero ore;
contratti di solidarietà, risalenti nel tempo e utilizzati in concreto a zero ore;
assenza per permessi e congedi fruiti dal lavoratore che sia coniuge convivente, genitore, figlio convivente, fratello o sorella convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado convivente della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
aspettativa non retribuita per funzioni pubbliche elettive o cariche sindacali, ai sensi dell'articolo 31 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Non sono considerati utili i periodi di lavoro all’estero presso Stati con i quali l'Italia non ha stipulato accordi bilaterali in tema di assicurazione contro la disoccupazione.

Per la determinazione del quadriennio di verifica del requisito contributivo, i predetti periodi non utili devono essere neutralizzati con conseguente ampliamento del quadriennio di riferimento.

Per quanto riguarda i lavoratori con rapporto di lavoro in somministrazione, con contratto di lavoro intermittente e i lavoratori inseriti nelle procedure di riqualificazione professionale (decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81) – le cui attività lavorative sono caratterizzate da periodi di lavoro e di non lavoro con carattere di imprevedibilità, non riconducibile alla volontà dei lavoratori – i periodi di non lavoro non sono neutralizzati ai fini della ricerca del requisito contributivo (circolare INPS 27 novembre 2015, n. 194).

Requisito lavorativo

Sono necessarie almeno 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione. Le giornate di lavoro effettivo sono quelle di effettiva presenza al lavoro, a prescindere dalla loro durata oraria.

Per i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, per i quali non si conosce il numero di giornate effettivamente lavorate, la presenza al lavoro per almeno 30 giornate negli ultimi 12 mesi si determina con lo stesso sistema usato per l'accredito della contribuzione e per il pagamento delle prestazioni dei lavoratori domestici: la presenza di cinque settimane di contribuzione, considerate convenzionalmente di sei giorni l'una, equivale a 30 giornate di lavoro.

Tenuto conto che per l'accredito delle settimane si fa riferimento al trimestre solare e che per la copertura di una settimana sono necessarie 24 ore, le settimane accreditate nel trimestre si calcolano sommando tutte le ore di lavoro presenti nel trimestre e dividendole per 24: ad esempio, 80 ore lavorate nel trimestre/24 = 3,33 settimane di contribuzione, arrotondate a quattro.

Il requisito è soddisfatto quando, nei 12 mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione, il numero di settimane risultante dalla somma dei contributi settimanali riconosciuti per ciascun trimestre e versati dal datore di lavoro o dai datori di lavoro – se il lavoratore aveva in essere più rapporti – è pari almeno a cinque.

Per le altre categorie di lavoratori, per i quali non è possibile risalire al numero di giornate lavorate (lavoratori a domicilio e lavoratori con dati contributivi derivanti da formulari esteri), il requisito è soddisfatto in presenza di cinque settimane di contribuzione utile nei 12 mesi precedenti l'evento di cessazione.

Nel caso dei lavoratori agricoli, quando il numero delle giornate lavorate non risulta dagli archivi telematici o se questi non risultano ancora aggiornati, per la verifica delle 30 giornate di lavoro effettivo negli ultimi 12 mesi si farà ricorso alle buste paga del lavoratore.

Alcuni eventi, se si verificano o sono in corso nei 12 mesi che precedono la disoccupazione, determinano l'ampliamento del periodo di 12 mesi all'interno del quale ricercare il requisito delle 30 giornate. Tali eventi sono:

  • malattia e infortunio sul lavoro;
  • cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell'attività a zero ore;
  • periodi interessati da contratti di solidarietà, risalenti nel tempo e utilizzati in concreto a zero ore;
  • assenze per congedi e permessi fruiti dal lavoratore che sia coniuge convivente, genitore, figlio convivente, fratello o sorella convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado convivente della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
  • periodi di assenza dal lavoro per congedo obbligatorio di maternità, purché, all'inizio dell'astensione, risulti già versata o dovuta contribuzione;
  • periodi di assenza per congedo parentale, purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro;
  • periodi di percezione dell'indennità di disponibilità e quelli durante i quali il lavoratore, in somministrazione con contratto di lavoro a tempo indeterminato, è inserito nelle procedure di riqualificazione;
  • periodi di fruizione di aspettativa non retribuita per motivi politici e sindacali, prevista dall'articolo 31, legge 300/1970;
  • periodi di lavoro all'estero presso Stati con i quali l'Italia non ha stipulato accordi bilaterali in tema di assicurazione contro la disoccupazione.

 

QUANDO FARE DOMANDA

La domanda deve essere presentata all'INPS esclusivamente in via telematica e a pena di decadenza entro 68 giorni, che decorrono:

  • dalla data di cessazione del rapporto di lavoro;
  • dalla cessazione del periodo di maternità indennizzato qualora la maternità sia insorta nel corso del rapporto di lavoro successivamente cessato;
  • dalla cessazione del periodo di malattia indennizzato o di infortunio sul lavoro/malattia professionale, qualora siano insorti nel corso del rapporto di lavoro successivamente cessato;
  • dalla definizione della vertenza sindacale o dalla data di notifica della sentenza giudiziaria;
  • dalla cessazione del periodo corrispondente all'indennità di mancato preavviso ragguagliato a giornate;
  • dal trentottesimo giorno dopo la data di cessazione, in caso di licenziamento per giusta causa.
  • Il termine per la presentazione della domanda è sospeso nei seguenti casi:
  • in caso di maternità indennizzabile insorta entro i 68 giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, il termine è sospeso per un periodo pari alla durata dell’evento di maternità indennizzato e riprende a decorrere per la parte residua al termine del predetto evento;
  • in caso di malattia comune indennizzabile da parte dell’INPS o di infortunio sul lavoro/malattia professionale indennizzabile da parte dell’INAIL, insorti entro i 60 giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il termine è sospeso per la durata della malattia o dell’infortunio e riprende a decorrere per la parte residua al termine della malattia o dell’infortunio.

 

COME FARE DOMANDA

La domanda deve essere presentata online attraverso il servizio dedicato. Prima di accedere al servizio, puoi scaricare e consultare il tutorial “ NASpI: invio domanda” per avere istruzioni sulla compilazione dei relativi campi. Per comprendere come utilizzare gli altri servizi NASpI collegati a questa scheda, ti suggeriamo di scaricare anche i tutorial: “ NASpI: consultazione domande” e “ NASpI: comunicazione”.

Il Documento Unico di Regolarità Contributiva è un certificato unico che attesta la regolarità di un’impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente nei confronti di INPS, INAIL e Casse Edili, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento (cfr. "requisiti regolarità").

Le imprese effettuano un’unica richiesta di rilascio della regolarità contributiva ad uno degli enti citati, anziché tre richieste (ciascuna per ogni ente) come avveniva in passato.

Per regolarità contributiva deve intendersi la correntezza nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali ed assicurativi, nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente riferita all’intera situazione aziendale.

La Legge n. 266/2002 ed il Decreto Legislativo n. 276/2003 hanno stabilito che INPS, INAIL e Casse Edili stipulino convenzioni al fine del rilascio di un Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC).

In data 3 dicembre 2003 è stata stipulata una prima convenzione tra Inps e Inail e, successivamente, in occasione dell'ampliamento dell'obbligo di certificazione-DURC anche in caso di affidamento di lavori da parte di committenti privati, in data 15 aprile 2004 è stata sottoscritta una seconda convenzione tra Inps, Inail e Casse Edili che ha regolamentato, in particolare, il settore dei lavori in edilizia.

N.B. Sino all'anno 2003, l'Inps rilasciava certificazione, a richiesta dell'azienda o dell'Ente appaltante, solo in caso di appalti, d'opera o di servizi, aventi quale stazione appaltante un ente pubblico. L'accertamento poteva, a seconda dei casi (ammissione dell'azienda a gara, liquidazione stato avanzamento lavori, saldo finale) riguardare la sola "correntezza contributiva" (ossia la regolarità dell'azienda rispetto ai pagamenti e/ adempimenti correnti) ovvero attestare la vera e propria "regolarità contributiva" (ossia verificare, nell'intera storia aziendale, l'inesistenza di debiti contributivi o di altre irregolarità) (cfr. circ.194/89 e circ. 27/92)

CHI LO DEVE RICHIEDERE

• l’impresa, anche attraverso i consulenti del lavoro e le associazioni di categoria provviste di delega (cd. intermediari);
• le Pubbliche Amministrazioni appaltanti;
• gli Enti privati a rilevanza pubblica appaltanti;
• le SOA (Società Organismi Attestazione - Società di attestazione e qualificazione delle aziende con il compito istituzionale di accertare ed attestare l'esistenza, nei soggetti esecutori di lavori pubblici, dei necessari elementi di qualificazione, tra cui quello della regolarità contributiva (art.8 co. 3 Legge n.109/1994).

QUANDO DEVE ESSERE RICHIESTO

La regolarità contributiva viene richiesta (cfr. circ. 122/2005):
• per tutti gli appalti pubblici, intendendo non solo gli appalti di lavori pubblici in senso stretto (Legge n. 109/94 e successive modifiche ed integrazioni), ma anche gli appalti di servizi e forniture ( D.Leg.vi n. 358/92 e n. 157/95 e successivi), nelle seguenti fasi:
o In fase di partecipazione, per la verifica di eventuali autodichiarazioni;
o Per l'aggiudicazione dell'appalto, ove pretesa;
o Per la stipula del contratto;
o Per il pagamento degli stati di avanzamento lavori e delle fatture;
o Per il collaudo e il pagamento del saldo finale.
• Per la gestione di servizi ed attività pubbliche in convenzione o concessione.
• Per i lavori privati in edilizia soggetti al rilascio di concessione ovvero a denuncia inizio attività (DIA), prima dell'inizio dei lavori;
• Per il rilascio dell' attestazione SOA;
• Per l'iscrizione all'Albo dei Fornitori;
• Per l'assegnazione di agevolazioni, finanziamenti e sovvenzioni, ove previsto dalle normative specifiche.

PERIODO DI VALIDITÀ

• Per i lavori privati in edilizia: la validità è di 3 MESI dalla data del rilascio.
• Per gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture pubblici nonchè nel caso di servizi/attività in convenzione o in concessione: la validità è relativa all'appalto specifico, limitatamente alla fase per la quale è stato richiesto (stipula del contratto, pagamento di SAL, collaudo etc.).
• In tutti gli altri casi (agevolazioni/finanziamenti/sovvenzioni e iscrizione albo fornitori, SOA): la validità è legata allo specifico motivo della richiesta.

L’utilizzo della dichiarazione di regolarità non più rispondente a verità equivale ad uso di atto falso ed è punito ai sensi del codice penale.

MODALITA' DI RICHIESTA                                                                                                                                                                                                                                                        

La richiesta del DURC, per la quale è stato elaborato un apposito modulo unificato, può essere effettuata:
• Per via telematica accedendo a:
o www.inps.it - aziende e intermediari in possesso di utenza rilasciata da Inps per i propri servizi on line:
o www.inail.it - aziende e intermediari in possesso di utenza rilasciata da INAIL per i propri servizi on line:
o www.sportellounicoprevidenziale.it - stazioni appaltanti e SOA;
• Per via cartacea, utilizzando l’apposito modulo reperibile in Internet o presso qualsiasi Sede dell’INPS, INAIL e Casse Edili .
Le Pubbliche Amministrazioni, gli Enti privati a rilevanza pubblica e le SOA sono tenuti ad inoltrare la richiesta di DURC esclusivamente per via telematica.
Per i lavori edili, la richiesta cartacea deve essere presentata allo Sportello Unico costituito presso le Casse Edili o inviato per posta allo Sportello stesso.
Nei casi diversi dall’edilizia, la richiesta cartacea deve essere presentata alla Sede INPS o INAIL competente per territorio o inviata per posta a queste ultime.
In caso di accesso tramite Portale INPS o Portale INAIL, l'utente (azienda o intermediario), deve farsi identificare utilizzando i codici di accesso già rilasciati dai rispettivi Enti per la fruizione dei servizi On-line (INAIL: codice di accesso ai servizi di Punto Cliente; INPS: codice fiscale e P.I.N.).
In caso di richiesta avanzata per il tramite del consulente e/o associazione di categoria, ai soli fini del rilascio del Documento Unico, il riconoscimento, da parte di uno degli Enti convenzionati, della validità della delega e dell'autorizzazione ad accedere, è esteso anche agli altri Enti.
In caso di accesso tramite il Portale telematico "Sportello Unico Previdenziale" è previsto il rilascio alle altre tipologie di utenti (diversi da aziende ed intermediari) di appositi codici di accesso.
Il modulo per la richiesta del DURC viene visualizzato e compilato a video dall’utente che inserisce i dati utilizzando la procedura informatica relativa allo specifico servizio ed inoltra la richiesta stessa attraverso il canale telematico.
La procedura, in seguito ad una automatica verifica formale delle informazioni inserite, attesta l’inoltro della richiesta del DURC e comunica l'assegnazione del C.I.P. (codice identificativo pratica).
Il CIP, che individua lo specifico appalto e viene rilasciato solo ad inoltro della prima richiesta, deve essere indicato per ogni richiesta, relativa allo stesso appalto, successiva alla prima.
L'utente, attraverso il C.I.P., può verificare in qualunque momento lo stato di avanzamento della propria pratica, sia accedendo in modalità di consultazione alla specifica procedura informatica, sia richiedendo ad una qualunque Struttura Territoriale degli Enti convenzionati (ossia INPS, INAIL e Casse Edili) di effettuare tale controllo.

MODALITÀ DI RILASCIO

Il DURC è rilasciato sulla base degli atti esistenti e rilevati alla data indicata nella richiesta e, ove questa manchi, alla data di redazione del certificato, purché nei termini stabiliti per il rilascio o per la formazione del silenzio assenso.

Nell'ipotesi di temporanea indisponibilità degli atti necessari (che può verificarsi, ad esempio, nel caso di operazioni di data recente non ancora acquisite in archivio), e comunque in tutti i casi in cui sia ritenuto necessario, la verifica dello stato di aggiornamento degli adempimenti può essere effettuata richiedendo alla ditta le quietanze dei versamenti (es. modello F24) o altra documentazione ritenuta utile, assegnando alla stessa il termine di dieci giorni per la presentazione di quanto richiesto.

Decorso inutilmente tale termine di dieci giorni, l'Ente che ha richiesto l'integrazione della documentazione si pronuncerà sulla base delle informazioni in suo possesso.

La richiesta di documentazione, utile ai fini istruttori, sospende il termine di rilascio del DURC.

COME LO RILASCIA

Il DURC viene spedito tramite posta, a mezzo raccomandata A.R. all’indirizzo del richiedente. I possessori di caselle di Posta Elettronica Certificata (PEC) possono ricevere notizie in merito alla procedura-DURC anche a mezzo di tale canale telematico.
Se il richiedente è diverso dall’impresa, una copia del DURC viene inviata anche a quest’ultima.

E’ possibile chiedere una ristampa del DURC presso qualsiasi struttura INPS, INAIL e Casse Edili.

LE LEGGI REGIONALI

La normativa nazionale in materia di regolarità contributiva è spesso integrata da leggi regionali che individuano ulteriori fasi o particolari motivazioni che rendano necessario acquisire il DURC (ad es.: richiesta del certificato, nei casi di lavori privati in edilizia, anche alla fine dei lavori).
Anche in questi casi potrà essere utilizzata, ove tecnicamente compatibile, la procedura realizzata a livello nazionale (circ. 9/2006).

IMPRESE SENZA DIPENDENTI E LAVORATORI AUTONOMI

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sulla base del decreto legislativo n° 494/1996, art. 3, comma 8 (norma, per altro, abrogata dal d. lg.vo 81/2008 art. 304 co1 lett. a come integrato dal d. lg.vo 106/2009), con nota del 5 dicembre 2005 prot. 2988 e successiva nota del 22 dicembre 2005 prot. 3144, ha fornito un orientamento che consente di distinguere, in materia di regolarità contributiva, la condizione del lavoratore autonomo che opera con e senza dipendenti:
• l'azienda artigiana senza dipendenti (anche se opera con familiari iscritti alla Gestione autonoma degli Artigiani come collaboratori) ha l'obbligo di dimostrare solo l'idoneità tecnico-amministrativa ma non la regolarità contributiva;
• l'azienda artigiana con dipendenti che opera anche con familiari iscritti alla Gestione autonoma degli Artigiani come collaboratori, ha l'obbligo di dimostrare non solo la regolarità contributiva riguardo ai dipendenti ma anche quella della contribuzione che è tenuto a versare per i collaboratori familiari;
• l'azienda artigiana con dipendenti sia che eserciti individualmente, sia che svolga l’attività in forma societaria, ha l'obbligo di dimostrare la regolarità contributiva.
Tuttavia, indipendentemente dalla ricorrenza dell’obbligo di dimostrare la regolarità, l'Inps in qualità di “Amministrazione certificante” secondo la definizione dell’art. 1 comma 1 lett. P)
del D.P.R. n. 445/2000, è tenuto a rilasciare la certificazione ove sia richiesta (circ. 9/2006).

BENEFICI E SOVVENZIONI COMUNITARIE

La Finanziaria 2006, al comma 553, ha modificato le disposizioni in materia di sovvenzioni comunitarie e DURC già contenute nel collegato alla Finanziaria (art. 10 comma 7 Decreto Legge n. 203/2005 convertito
nella Legge n. 248/2005) prevedendo che le imprese di tutti i settori sono tenute a presentare il DURC per accedere ai benefici e alle sovvenzioni comunitarie esclusivamente per la realizzazione di investimenti (circ. 9/2006).

LAVORATORI DIPENDENTI NELLE AZIENDE AGRICOLE

Per le aziende del settore agricolo che intendono accedere ai benefici e sovvenzioni comunitarie, l'attestato di correntezza contributiva denominato DURC-AGR.CAU va verificato a partire dai contributi dovuti per prestazioni lavorative effettuate dal 1° gennaio 2006, a condizione che le aziende richiedente assumano manodopera dipendente. Non sono pertanto destinatari di DURC i semplici Coltivatori Diretti CD/CM (ossia lavoratori agricoli autonomi privi di dipendenti). Nel caso in cui la manodopera agricola sia assunta da un CD o da un Imprenditore Agricolo Professionale (IAP), va attestata anche la regolarità contributiva riferita alla posizione del titolare in qualità di lavoratore autonomo.

N.B. Per le aziende che operano esclusivamente con il sistema della contribuzione unificata (contributi INPS/INAIL), considerata la periodicità trimestrale dei pagamenti, i tempi di validità del DURC sono fissati con la medesima periodicità.

Per le richieste di regolarità contributiva per usi diversi, anche in caso di aziende agricole viene rilasciato un certificato cartaceo di correntezza contributiva considerando la totale contribuzione della posizione contributiva.(Circ. 116/06 -Msg. 030059 del 10/11/2006)

INFORMAZIONI UTILI

In occasione della partecipazione ad una gara pubblica, l’impresa può autodichiarare l’assolvimento degli obblighi contributivi. In tal caso la Stazione Appaltante deve controllare la veridicità della dichiarazione prodotta, richiedendo tramite DURC la verifica della regolarità alla data della dichiarazione stessa.

Ove successivamente al rilascio del DURC dovessero emergere circostanze tali da modificare sostanzialmente la situazione di regolarità già attestata, la Struttura dovrà darne immediata comunicazione al richiedente e, per opportuna conoscenza, alla Stazione Appaltante, assumendo nel contempo le necessarie iniziative per il recupero di quanto dovuto.

Il DURC non produce effetti liberatori per l’impresa, per cui sarà sempre possibile un’azione per l’accertamento ed il recupero di eventuali somme che dovessero successivamente risultare dovute.

Si rammenta che per i lavori privati in edilizia la mancata regolarità contributiva sospende l'efficacia del titolo abilitativo per cui si è richiesto il DURC (concessione, permesso di costruire e/o DIA).

Ai fini INAIL il modulo di richiesta del DURC potrà essere utilizzato anche per effettuare contestualmente a tale richiesta la denuncia di nuovo lavoro, nel caso di richiesta effettuata in via telematica per gli appalti pubblici edili.

REQUISITI DI REGOLARITÀ

Requisiti generali

L'INPS, l'INAIL e la Cassa Edile sono tenuti a verificare la regolarità dell'impresa sulla base della rispettiva normativa di riferimento rilevati alla data indicata nella richiesta e, ove questa manchi, alla data di redazione del certificato, purché nei termini stabiliti per il rilascio o per la formazione del silenzio assenso.
Per la verifica dell’autocertificazione, è necessario che la regolarità sussista alla data in cui l’azienda ha dichiarato la propria situazione, essendo irrilevanti eventuali regolarizzazioni avvenute successivamente.

AI FINI INAIL

L’azienda è regolare quando:
• risulta titolare di codice cliente con PAT attive;
• ha regolarmente dichiarato le retribuzioni imponibili in misura congrua rispetto ai lavori svolti ed alla dimensione aziendale;
• ha versato quanto dovuto per premi ed accessori.
L’impresa è altresì da intendersi regolare quando:
• il rischio assicurato corrisponde, per natura ed entità, a quello proprio dell’appalto;
• vi sia richiesta di rateazione accolta favorevolmente dal responsabile della struttura ovvero, nel caso di competenza superiore, sia stato dallo stesso responsabile inoltrato motivato parere favorevole;
• vi siano sospensioni dei pagamenti previste da disposizioni legislative (es. calamità naturali, condoni, emersione) ovvero da norme speciali (es. art. 45, comma 2, del DPR 30 giugno 1965 n. 1124);
• siano state effettuate compensazioni su modello di pagamento unificato F24, ovvero la struttura verifichi che l’azienda è creditrice di importi a qualsiasi altro titolo compensabili;
• vi siano crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata disposta la sospensione della cartella in via amministrativa o a seguito di ricorso giudiziario;
• per i crediti non iscritti a ruolo, in pendenza di contenzioso amministrativo, la regolarità potrà essere dichiarata unicamente qualora il ricorso verta su questioni controverse o interpretative, sia adeguatamente motivato e non sia manifestamente presentato a scopi dilatori o pretestuosi;
• in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità potrà essere dichiarata, in considerazione della disposizione contenuta nell’art. 24 del D.lgs. 26.02.1999 n. 46, secondo la quale l’accertamento effettuato dall’ufficio ed impugnato dinanzi all’autorità giudiziaria consente l’iscrizione a ruolo solo in presenza di un provvedimento esecutivo del giudice.
N.B.: Per l’INAIL, il modulo di richiesta del DURC può essere utilizzato anche per effettuare contestualmente a tale richiesta la denuncia di nuovo lavoro.

SUBAPPALTO

Nel caso specifico del subappalto, l’impresa subappaltatrice deve possedere, ai fini della regolarità contributiva, i medesimi requisiti generali e speciali di qualificazione previsti per l’impresa appaltatrice e, pertanto, il certificato dovrà essere rilasciato sull’intera situazione aziendale. Nel caso di subappalto, l’impossibilità di dichiarare la propria regolarità per l’impresa subappaltatrice discende dalla natura privatistica del rapporto (appaltatrice-subappaltatrice) nonché da oggettive esigenze di rigore e di interesse pubblico.

DURC INTERNO

La l.296 del 27.12.2006 (l. finanziaria 2007), ai commi 1175 e 1776 dell'art.1, ha introdotto, a decorrere dal 1° luglio 2007, l'obbligo dell'attestazione della regolarità contributiva anche per la fruizione dei benefici normativi e contributivi connessi al versamento della contribuzione per i lavoratori dipendenti.
Possono, pertanto, attualmente essere considerate esistenti due distinte tipologie di DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva):
• il DURC richiesto e concesso (con le modalità sin qui esposte) da datori di lavoro dipendente e lavoratori autonomi ai tradizionali fini di partecipazione ad appalti di lavori, appalti di servizi e forniture e per l'effettuazione di lavori privati in edilizia
• il DURC richiesto dai soli datori di lavoro dipendente ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi (cd. DURC interno)
Il procedimento per il rilascio del DURC interno nasce dalla semplice presentazione del modello DM nel quale il datore di lavoro esponga, nel relativo quado B/C, codici contributivi relativi all'applicazione di sgravi contributivi. La mera esposizione di tale codici vale, infatti, quale richiesta di applicazione degli sgravi medesimi. In tal caso, qualora l'Inps sia contemporaneamente soggetto impositore dell'obbigo contributivo e soggetto erogatore dello sgravio, nessuna documentazione verrà emessa e lo sgravio, dopo l'accertamento dell’effettiva regolarità contributiva dell'azienda, si intenderà correttamente applicato (donde la denominazione di "interno" riservata alla nuova tipologia di DURC). In caso di diniego, l'azienda verrà invece sollecitata, mediante emissione di apposita nota di rettifica, alla regolarizzazione contributiva per il recupero dei benefici indebitamente fruiti.

N.B Per beneficio contributivo (o agevolazione contributiva) andrà inteso un effettivo abbattimento dell'aliquota contributiva complessivamente dovuta e non la mera riduzione del solo contributo da versare per effetto di conguaglio con anticipazioni di prestazioni (malattia, maternità, ANF ) effettuato dal datore di lavoro nei confronti del dipendente e parimenti esposte, con distinti codici, nel quadro B/C del modello DM).

Va precisato che, anche ai fini del rilascio del DURC interno, andrà autocertificato da parte del datore di lavoro richiedente, "il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali". La presentazione di tale attestazione doveva avvenire a mezzo dell'apposito modello, denominato "SC37-Durc interno" (cfr. circ.51 del 18 aprile 2008 punto 10.1): tale modello, scaricabile dal sito www.inps.it, avrebbe dovuto essere prodotto sia all'atto della prima richiesta di agevolazione, sia dalle aziende che intendessero continuare a fruire delle agevolazioni stesse. Il modello, oltre che essere materialmente consegnato alle competenti sedi Inps, avrebbe potuto essere trasmesso telematicamente, tramite il servizio "Invio moduli on-line", sempre disponibile sul sito www.inps.it, nella sezione Aziende e consulenti, risevata ad utenti abilitati a mezzo di codice PIN. Il termine per la presentazione, originariamente fissato (dalla circ.51 del 18 aprile 2008), al 18 maggio 2008, è stato tuttavia prorogato al 30 settembre 2008, con msg.11126 del 15 maggio 2008. Le aziende che hanno prodotto il modello entro tale data sono contraddistinte con il codice di autorizzazione (CA) "4W" : il codice avrà validità annuale.
Tuttavia il termine per la presentazione del modello sc 37 è stato ulteriormente prorogato dapprima al 31.10.2008 (cfr msg 020067 del 11 settembre 2008)) e poi al 31.12.2008 (msg 23462 del 23 ottobre 2008). Infine (msg 28457 del 23.12.2008) la presentazione di detto modello è stata dichiarata non più dovuta per effetto della circolare n.34 del 15 dicembre 2008 emanata dal Ministero del lavoro (cfr msg 28457 del 23.12.2008 all.1 ). Per effetto di questa, il modello sc37 viene sostituito da una autocertificazione, da rendersi al medesimo Ministero entro il 30 aprile 2009. L'azienda avrebbe dovuto con tale modello autocertificare "l'inesistenza a suo carico di provvedimenti , amministrativi o giurisdizionali, definitivi in ordine alla commissione delle violazioni di cui all'allegato A" del D.M. 24 ottobre 2007 emanato dal medesimo Ministero.